
Difficile è sempre stato, e naturalmente continua a esserlo, sottrarsi alle mode ideologiche e culturali del presente, riuscire a osservare, studiare, comprendere l’accadere al di là della confortevole impressione di essere parte di ciò che i contemporanei e gli abitatori di una certa società reputano l’ottimo, il giusto, il necessario.
Il numero del 2024 degli Annali della Fondazione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico (Edizioni ETS – INDA, Pisa-Siracusa, nuova serie n. 14, 2024) non si sottrae a tale legge. Lo fa comunque con discrezione, arrivando a vere e proprie dichiarazioni gender e queer in pochi dei suoi testi, forse in uno solo. Certo, in tutti i saggi il tema monografico della donna, della sua condizione nel mondo e nel teatro antico, è chiaramente declinato secondo le esigenze morali (e quindi non scientifiche) del presente ma perlopiù accade con prudenza.
Qui parlerò dunque soltanto dei saggi che si affrancano dalla banalità dei valori e cercano di leggere il teatro greco nella sua distanza dal presente, nella sua irriducibilità al Bene e all’Inclusione.
Davvero interessante è l’analisi del concetto di δημοκρατία, democrazia, che Maurizio Giangiulio conduce a partire dalle Supplici di Eschilo. In questa tragedia non esistono opinioni diversificate, non c’è una maggioranza contrapposta a una minoranza, non si dà dialettica. Il δῆμος non è una parte ma rappresenta la «comunità civica nella sua interezza. […] Sulla scena delle Supplici […] risalta la comunità politica all’opera nella decisione collettiva, e risuona il lessico della moltitudine e della totalità. […] In forte risalto è anzitutto la polis come comunità» (p. 75).
Come tutti dovremmo sapere, democrazia è parola e concetto polisemantico. Presentarla come un’idea e una struttura monolitica può essere comprensibile nella lotta politica contemporanea ma non lo è per un approccio storico e politologico che voglia essere scientifico e freddo. Giangiulio ignora giustamente i controsensi di ogni interpretazione delle Supplici che voglia essere umanistica, attualizzante ed eticamente virata verso l’accoglienza. La sacralità dell’ospite è rivolta appunto all’ospite e non a un intero popolo, o addirittura continente, che si sposta nelle terre e città di un altro popolo. In questi casi i Greci, come tutti e sempre i popoli nella storia, rispondono con la guerra, non certo con l’accoglienza. Che nel XXI secolo tale sia invece la risposta dell’Europa è uno dei segni della sua agonia politica e culturale.
Raffinata e plurale è l’attenzione che Carmine Catenacci rivolge al personaggio di Deianira nelle Trachinie di Sofocle. Moglie devota di Eracle, che l’ha liberata quando era ragazza da potenze mostruose, Deianira non accetta di condividere il letto di suo marito con la giovane concubina Iole, premio di una delle imprese dell’eroe. Credendo nel potere innamorante di un filtro consegnatole dal centauro Nesso morente, realizza la vendetta postuma di quest’altro mostro condannando il marito ad atroci sofferenze. Quando diventa consapevole di che cosa ha fatto, Deianira si uccide.
Lo studioso nota giustamente che si tratta di una «dramatis persona scomoda agli schemi ideologici oggi prevalenti» (88), osserva che nelle Trachinie la tragedia di Deianira è «inattuale e non confortevole» (112) anche nel suo esprimere un principio che per i Greci era tanto evidente quanto non inclusivo dato che «la competizione amorosa con Iole, oltretutto, la vede svantaggiata su un terreno che non ammette confronti: la superiorità, se non il monopolio, dei giovani nel campo della bellezza e dell’amore» (97); i versi che lo dimostrano sono ad esempio i 547-551 della tragedia:
Ὁρῶ γὰρ ἥβην τὴν μὲν ἕρπουσαν πρόσω,
τὴν δὲ φθίνουσαν· ὧν ἀφαρπάζειν φιλεῖ
ὀφθαλμὸς ἄνθος, τῶν δ’ ὑπεκτρέπει πόδα·
ταῦτ’ οὖν φοβοῦμαι μὴ πόσις μὲν Ἡρακλῆς
ἐμὸς καλῆται, τῆς νεωτέρας δ’ ἀνήρ.
Vedo una gioventù che sale ancora,
ed una che dilegua: ama quel fiore
l’occhio dell’uomo, e coglierlo veloce;
d’altro non cura, e il passo s’allontana.
Così dunque di me sarà domani,
ché forse chiamerò solo di nome
Eracle sposo, e sarà veramente
l’uomo della più giovane.
(Trad. di G. Lombardo Radice, in Sofocle, Le Tragedie, Einaudi, Torino 1966, p. 367).
La vicenda di Eracle e Deianira conferma la potenza totale della passione amorosa: «Eros – e con lui naturalmente Afrodite – è una forza universale, misteriosa e irresistibile, essenzialmente rovinosa. […] Contro la passione erotica nessuno, né gli animali né gli uomini e neppure gli dei possono combattere» (94). Sofocle ne era talmente persuaso che un aneddoto, ricordato da Platone in Repubblica, 329 b-d, racconta che quando a Sofocle ormai anziano venne chiesto «se fosse ancora invischiato nelle questioni d’amore e in grado di andare con una donna, egli rispose che se ne era liberato con la più grande gioia come di un padrone furente e selvaggio» (112). Afrodite, la passione amorosa, il desiderio che soltanto il tempo forse estingue, sono a loro volta un’espressione, per quanto universale e potente, della divinità suprema, di Ἀνάγκη, Ananke, e della sua forza sacra che involve e determina gli eventi. Rispetto a tale realtà, ogni potenza umana non è altro che illusione.
Il saggio di Elena Fabbro e Guido Paduano sulla Medea di Pasolini e di Euripide paga il suo tributo alla Stimmung femminista ma non può fare a meno di osservare che la vera identità e la ragione di fascino della maga Medea non consiste nella rivendicazione dei propri diritti di donna spinta sino al parossismo e all’infanticidio ma nella «riappropriazione delle proprie radici, [nel] riannodare i fili con il suo universo arcaico» (244). E questo vale tanto per Euripide quanto per Pasolini.
Ha dunque pienamente ragione Catenacci quando afferma che rispetto alle «attualizzazioni semplicistiche e anacronismi artificiosi […] il fenomeno tragico è destinato a conservare una sua irriducibilità poetica, storica e concettuale, che spesso è proprio ciò che ne garantisce e favorisce la resilienza nei secoli» (110). Sì, è anche e soprattutto questa loro costante inattualità, questa distanza dal presente, questa inconciliabilità con i valori contemporanei, a fare dei Greci, e in particolare dei loro poemi e delle loro tragedie, qualcosa che ci insegna ogni volta la vita.