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Colpa

La ragazza senza nome
(La fille inconnue)
di Jean-Pierre Dardenne e Luc Dardenne
Belgio, 2016
Con: Adele Haenel (Jenny), Olivier Bonnaud (Julien), Jérémie Renier (Vincent), Louka Minnella (Bryan)
Trailer del film

I dintorni di Liegi non sono un ambiente facile, tra miseria autoctona e miseria dei migranti, ma Jenny è appassionata del suo lavoro di medico, che svolge con cura e con il necessario distacco emotivo. Una sera, ad ambulatorio ormai chiuso da un’ora, qualcuno suona. Julien, collaboratore di Jenny, si alza per aprire ma lei gli dice che è tardi e che i pazienti «devono avere rispetto della nostra stanchezza». Quest’ordine è anche un modo «per imporsi» -come lei stessa ammetterà- su Julien, semplice studente di medicina. Il giorno dopo la polizia chiede a Jenny i filmati della videocamera di sicurezza, perché una ragazza è stata trovata morta nei dintorni. È la stessa persona che aveva suonato all’ambulatorio. Non ha documenti, viene seppellita senza nome. Jenny è sconvolta e inizia una sua tenace ricerca dell’identità di questa morta.

C’è qualcosa di profondo, ancestrale, biologico, metafisico nel senso di colpa che attanaglia gli umani. Tutte le religioni nascono di fatto da tale sentimento, espresso con il racconto di una caduta originaria da uno spaziotempo senza il male. Le spiegazioni soltanto psicologiche, sociologiche, culturali, di questa tonalità emotiva e metafisica rimangono incapaci di coglierne la vastità, l’universalità e il significato.
Lo stile asciutto e insieme colmo di pietà dei fratelli Dardenne riesce a esprimere due elementi della colpa.
Il primo è la convinzione di essere sempre noi i facitori delle nostre azioni. Anche se Jenny non ha nessuna responsabilità in ciò che è accaduto, se ne assume per intero la colpa, convinta che sarebbe bastata una sua piccola azione -aprire la porta- per evitare la tragedia. Il film chiarisce bene, invece, che tutto è accaduto e tutto accade sempre per l’insieme di circostanze che definiamo casuali, imprevedibili, particolari, meschine, ambientali e il cui intreccio contribuisce a formare ciò che chiamiamo Necessità. L’Ananke è in gran parte questo, è il convergere in ogni istante della vita individuale e collettiva di una miriade di cause che precedono la nostra stessa nascita e sulle quali il nostro controllo è illusorio. Sarebbe più saggio «vedere nel mondo un gioco crudele e nei mutamenti il frutto del caso e della necessità congiunte, costituenti l’unica infinita trama delle cose. Negli eventi che sembriamo dominare come in quelli che ci vedono oggetti passivi delle circostanze» c’è «una innocenza primigenia che non esclude però, anzi rafforza l’oscura colpa complessiva dell’esistere. Il destino del saggio Edipo sta lì a testimoniarlo. Il re di Tebe non era affatto responsabile di ciò che aveva fatto e tuttavia la pena che lo colpisce è giusta. Edipo aveva ragione a dichiarare che non siamo colpevoli dei nostri sogni ma non lo siamo neanche della veglia. Nondimeno la pena, una qualche pena, punisce lecitamente le nostre innocenti passioni. Non c’è colpa, infatti, nell’albero che un fulmine colpisce eppure quel lampo, quella morte sono tanto naturali quanto il crescere delle foglie sui rami» (L’antropologia di Nietzsche, p. 179).
Il secondo elemento che questo film è capace di esprimere è il legame tra colpa e corporeità. Il fatto che dobbiamo morire -ironica, unica e paradossale certezza della vita- genera la domanda sul perché della morte e dunque il disperato bisogno che il nostro cervello sente di trovare una spiegazione all’impensabile, all’orrore, al nostro non essere più, diventare nulla, sparire. Si tratta di un’altra potente radice del sentimento religioso, legata ai limiti inaggirabili della corporeità che siamo. In questo film la dottoressa Jenny tocca continuamente dei corpi feriti, vecchi, convulsi, derelitti, gonfi. La colpa primordiale sta nell’essere corpo. È del tutto conseguente che divieti, tabù, regole e consuetudini morali riguardino nella quasi totalità l’uso dei corpi.

Il corpo mostra con implacabile potenza tutti i nostri limiti.
L’intreccio degli eventi mostra con inesorabile potenza tutti i nostri limiti.
Su questi scogli si infrange l’illusione del libero arbitrio e su questi scogli naufraga la vanità umana. «Un’umanità il cui sentimento fondamentale è e rimane quello per cui l’uomo è l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo! Vanitas vanitatum homo» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, af. 12, in ‘Opere’ IV/3, Adelphi 1967, p. 141).

Eschilo, i Greci, il desiderio

Eschilo mostra sin da subito la potenza con la quale i Greci seppero l’esistenza, provarono «i graffi dell’angoscia» (Persiani, v. 116; le traduzioni sono di Franco Ferrari), la forza senza posa senza tempo senza incertezze del Caso e della Necessità raggrumate nel divino, in Ate che «da principio seduce l’uomo / con amiche sembianze / ma poi lo trascina in reti / donde speranza non c’è / che mortale fugga e si salvi» (Ivi, 96-100), nella Erinni che sempre esige pagamento per le azioni compiute, per la ὕβρiς dei desideri, delle follie, dell’ignorare un fatto essenziale: «Creatura votata alla morte non deve pensare pensieri al di là della propria natura, ché Dismisura se appieno fiorisce fruttifica in spiga di rovina, donde miete messe di pianto» (Ivi, 819-822).
Le nostre vite sono intrise di «disgrazie» che «fanno parte della condizione umana» (Ivi, 708), tanto «iridescenti sono i guai» e «sempre cangiante tu vedrai l’ala del dolore» (Supplici, 328-329); sono intrise di morte individuale, di quel «battito che sospinge / il battito che senza requie per l’Acheronte / traghetta il disadorno corteo / trapunto di nero desolato di luce / non calcato da Apollo, / verso il paese oscuro che tutti accoglie» (Sette contro Tebe, 855-860); sono intrise di fine collettiva, quando -durante guerre, calamità naturali, dissoluzioni sociali- «terrore già esulta alle porte» (Ivi, 500). E tuttavia a questa lucida consapevolezza della condizione umana si accompagna sempre nei Greci un invito: «Pure in mezzo alle sventure date gioia al vostro cuore, giorno dopo giorno» (Persiani, 840-841).
Se gli Elleni «di nessun uomo si dichiarano schiavi, di nessun uomo sudditi» (Ivi, 242), è perché la loro non è una libertà soltanto politica ma è una radicale libertà dalla consolazione, dall’illusione del momento che si tramuta in disperazione del sempre. Essi sanno la potenza, la liceità, la naturalità del desiderio che produce «la freccia di seducente sguardo» (Supplici, 1005) ma sanno anche che soltanto una entità non umana può evitare il dolore che ogni desiderio, anche realizzato, porta con sé. Sanno che soltanto παν απονον δαιμονιϖν, soltanto «ogni atto dei numi è senza pena» (Ivi, 110).
Tutto ciò emerge dalle vicende più diverse, quali sono quelle descritte in Persiani, Sette contro Tebe, Supplici. La distruzione della flotta persiana da parte dei Greci è dovuta alla ὕβρiς di Serse, dimentico della prudenza con la quale suo padre Dario aveva sempre rinunciato al tentativo di attraversare il Bosforo per sottomettere l’Europa all’Asia. Le disgrazie mortali di Eteocle, Polinice, Antigone costituiscono la conseguenza dell’arroganza di Laio, al quale Apollo aveva proibito di avere stirpe e che invece generò Edipo e con lui la propria fine. Quella dei figli di Egizio -decisi a prendere le cugine Danaidi anche contro la loro volontà- è la ἀνδρών ὕβριν (Ivi, 528), la dismisura del maschio che non sa fare dell’Eros qualcosa di diverso rispetto all’accoppiamento che genera altri umani, altro dolore.

Melancholia

di Lars Von Trier
Con: Kirsten Dunst (Justine), Charlotte Gainsbourg (Claire), Kiefer Sutherland (John), Charlotte Rampling (Gaby), Alexander Skarsgård (Michael), Stellan Skarsgård (Jack), John Hurt (Dexter)
Danimarca, Svezia, Francia, Germania 2011
Trailer del film

La Melencolia I di Albrecht Dürer è una figura circondata dagli strumenti e dai segni della conoscenza e tuttavia intensamente perduta nella contemplazione di un doloroso pensiero. «C’è falsità nel nostro sapere, e l’oscurità è così saldamente radicata in noi che perfino il nostro cercare a tentoni fallisce» scrisse Dürer1 nella lucida e disincantata consapevolezza che la nostra ignoranza delle cose rimane, per quanto si estenda la nostra conoscenza, inoltrepassabile. Ignoranza del senso delle cose e anche, con più modestia, del destino del nostro pianeta. Al quale sempre più si sta avvicinando un corpo celeste molto più grande, il suo nome è Melancholia, pronto ad assorbire dentro la propria energia tutto ciò che la Terra è stata.

Il preludio dal Tristano e Isotta di Richard Wagner è la malinconia fatta musica. Possiede tutta la forza paradossale e struggente di questo sentimento. Le sue note intessono il Prologo del film. Una sequenza onirica nella quale una sposa emerge dalla terra e non riesce a liberarsi dal suo viluppo, i pianeti danzano l‘uno intorno all’altro, dal cielo piovono grandine e uccelli, una madre con il figlio in braccio affonda in prati troppo morbidi, dalle dita di una donna si espandono lampi.
E poi Justine, la sposa. Che insieme al marito arriva in ritardo alla festa preparata per loro dalla sorella Claire e dal cognato John nel bellissimo castello in riva al mare che è la loro dimora. Eleganza, misura, fasto e sorrisi si sbriciolano poco a poco di fronte alla profonda ferocia sociale che riposa dietro i riti e le convenzioni, pronta a svegliarsi, a sbranare, a distruggere. La madre di Justine e Claire esprime con pubblico sarcasmo il proprio disprezzo verso la farsa che tutti in quel momento vede protagonisti, verso la finzione collettiva. La sposa si allontana lungamente lasciando nell’imbarazzo gli invitati. Con l’inevitabilità di un piano inclinato, è la catastrofe.
Infine Claire, che ospita di nuovo la sorella, la sua malattia -tristezza la chiamavano gli antichi, depressione è il suo nome attuale-, la sua distanza da ogni evento, emozione, paura. Invece Claire è terrorizzata da Melancholia, che sempre più si avvicina inesorabile a noi. Il marito cerca di tranquillizzarla, prepara l’emergenza, scruta continuamente il cielo. Ma infine non reggerà. Le due sorelle e il bambino di Claire costruiscono una capanna trasparente nel prato. E attendono. Dopo l’ultima scena è il silenzio. Non più una parola né un’immagine. E neppure una nota.

Risuona invece in chi ha guardato questo film qualcosa di antico che si chiama catarsi. Lars von Trier è riuscito a trasformare in immagini ciò che probabilmente prova chi sta sentendo avvicinarsi la fine. Quel pianeta è infatti come il monolito di 2001. Odissea nello spazio. È figura di Ananke, della Necessità che ci supera infinitamente e tutto avvolge. È figura della morte e della vita intrecciate e dominatrici del cosmo. Anche tra i minerali, tra i pianeti, tra le stelle. Anch’essi nascono, durano e si dissolvono. Ma nel volgersi della materia e della sua energia, «la vita è qualcosa di negativo» -questo sostiene von Trier-, una breve parentesi di sofferenza destinata a tornare nel grande fuoco.
«Perittoì mén eisi pántes oi melacholikoí ou dià nóson, allà dià physin; i “melanconici” sono persone eccezionali non per malattia ma per natura» è l’affermazione conclusiva dell’aristotelico Problemata 30,12. Il genio malinconico e gnostico di questo regista ha costruito un capolavoro che offre all’arte cinematografica l’estrema tensione della totalità e della verità ultima delle cose -la verità del mondo è la morte– e a chi guarda dona lo stupore di aver visto millenni di pensiero sull’umano e sul cosmo diventare una sola immagine.

1. Cit. in R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi 1983, p. 341
2. Trad. di C. Angelino e E. Salvaneschi, il melangolo 1981, p. 27

Prometeo

È un teatro del potere e della crudeltà quello che Eschilo dispiega nel racconto delle ragioni e dei modi che conducono alle catene e a una millenaria sofferenza il Titano filantropo che troppo ha amato gli umani, che ha donato loro il fuoco e l’ignoranza del giorno del morire (Eschilo, Prometeo, trad. di Davide Susanetti, vv. 11, 28 e 123). Non soltanto l’ignoranza della morte e la conoscenza della tecnica, Prometeo ha regalato anche l’alfabeto e i numeri, formidabili strumenti di una memoria utile alla vita: «la scrittura conserva il ricordo di tutte le cose, permette di fare poesia e cultura» (459-461). Ma tutto questo è stato realizzato da Prometeo contro il volere di Zeus.
L’antico figlio di Gaia e di Themis, della Terra e dell’Ordine, ha sfidato il potere del nuovo tiranno che si è insediato sull’Olimpo. Per questo deve essere punito con modi efferati, talmente strazianti da far desiderare al Titano immortale la morte. Gli fa eco Io, la ragazza-giovenca anch’ella vittima della tracotanza di Zeus e a causa del desiderio del dio destinata a vagare per terre lontane, pungolata da un tafano orribile. Anche Io preferirebbe sparire, poiché «è meglio morire una volta sola che soffrire giorno dopo giorno!» (750-751).
Basterebbe questa sintesi dei contenuti della tragedia per comprendere che Prometeo fonda l’antropologia greca, caratterizzata prima di tutto dalla consapevolezza della propria natura temporale e finita. Più volte, infatti, gli umani vengono definiti efemèrois, «poveretti, disgraziati che vivono alla giornata» (83, 547,945), per i quali «la sventura non fa distinzioni e non sta mai ferma: oggi si abbatte su uno, domani su un altro» (275-276). Un destino, quest’ultimo, che tuttavia gli uomini condividono con gli dèi. I mortali sono dominati dal Tempo, i divini sono dominati dalla Necessità e per entrambi non si dà svolgimento, inizio e fine che non siano già stabiliti nell’abisso di Ananke. «Ma il tempo passa e con il tempo si impara tutto» (981); si impara soprattutto che «non si può lottare contro la forza di Ananke, non si può lottare con la Necessità» (104-105), si impara che «ti puoi inventare di tutto, ma il destino è più forte» (514), tanto che neppure Zeus può essere astenestèros, neppure lui può sfuggire alla Necessità (517).
Sapiente di tutto questo, dell’essenziale e dell’effimero, dell’eterno e del finito, della tecnica e del dolore, la mente di Prometeo «vede anche l’invisibile» (842) e sa che, per quanto lunghissimo, il proprio tormento non sarà infinito, che un liberatore lo salverà dall’aquila, che Zeus avrà ancora bisogno del suo aiuto. In tale percorso Prometeo vede la propria gloria e questo lo aiuterà a sopportare tutto con orgoglio, a disprezzare o a compatire coloro che -amici o nemici- gli consigliano di cedere a Zeus. Prometeo odia tutti gli dèi che ha aiutato e che lo hanno così malamente ricambiato. Le sue prime parole invocano come testimoni dell’ingiustizia subita «il cielo luminoso, il soffio del vento, le sorgenti dei fiumi, lo scintillio infinito delle onde, la madre terra, il disco del sole che vede tutto» (88-91); i suoi tormenti provocano la sofferenza cosmica degli elementi e il compianto di interi popoli (397-435) e il dramma si chiude con l’invocazione del Titano a sua madre, come farebbe un qualunque mortale: «Grande madre mia, / e tu, cielo, che fai volgere il sole e diffondi ovunque la luce, / vedete che ingiustizia devo subire!» (1090-1092).
La saggezza più profonda alla quale Eschilo invita narrando il mito del Titano antico, delle nuove divinità olimpiche, dell’implacabile Necessità che accomuna ogni fibra dell’universo, è l’unica saggezza praticabile dal corpomente umano, dal procedere consapevole della materia nel tempo: la saggezza che consiste nel «proskunountes ten Adrasteian», piegarsi ad Adrastea, all’Inevitabile (936), conservando tuttavia e per intero l’energia e la scintilla del proprio agire nel mondo.

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