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Kaos / Kosmos

Anche se gli inventori della Grecia non sono mai stati in Grecia – tra di loro Winckelmann, Goethe, Hölderlin, Schinkel, Nietzsche – ciò che hanno pensato, immaginato e scoperto di quel mondo corrisponde in gran parte a quello che la Grecia è stata. Le motivazioni sono diverse e numerose. «La prima ragione è che il vero viaggio si svolgeva nello spazio del testo: i Greci si incontravano negli eventi narrati dagli storiografi e nelle convenzioni dei filosofi, nella tensione o nella liberazione del dramma teatrale, nella passioni dipinte dai lirici»1. Al di là di questa e di altre verità, un punto chiave è che per comprendere la Grecia antica bisogna essere antichi Greci e quei personaggi lo sono stati.
La passione dei Greci per il viaggio – pur con tutte le difficoltà e i rischi che viaggiare comportava – è motivata anche dal dinamismo e dalla curiosità in cui consiste ogni vera conoscenza, ogni passione per il sapere. Essa si rivolge – nei Greci e nei loro eredi – agli ambiti e ai temi più diversi ma tutti convergenti nella comprensione del mondo, vale a dire nella filosofia.
Si parte dall’intero, dal cielo, dagli astri, dall’ordine supremo e luminoso, dal κόσμος.
Si attraversano poi boschi, mari, pianure, montagne, tutti luoghi abitati dagli dèi.
Si vive nella città, la grande invenzione della specie umana, che per i Greci era una sola cosa con il corpomente di ciascuno, come confermano anche le parole di Socrate nel Critone, con le quali esprime il suo debito verso Atene anche quando la città lo uccide.
Per difendere e acquisire spazi e città, gli umani hanno inventato dal solco dell’aggressività animale la guerra, alla quale anche i Greci dedicarono sforzi di intelligenza, creatività, ingegno e tenacia davvero totali, e sempre allo scopo di sopravvivere e di distruggere; un solo esempio che è simbolico e dunque particolarmente significativo: il mantello dei soldati spartani era di un colore rosso acceso, che «doveva avere un valore magico ma in battaglia poteva anche avere la funzione di nascondere le macchie di sangue provocate dalle ferite» (A. Cristofori, 462).
Un’altra forma della violenza sono i sacrifici, inseparabili dalle moltissime feste che i Greci celebravano durante l’anno: ad Atene, ad esempio, in età classica i giorni di festa andavano da 120 a 144, un numero inaccettabile per il nostro stile di vita economicista e improntato alla schiavitù del lavoro. «I Greci celebravano la festa come evento comunitario […] e straordinario», un momento di vero e proprio «incontro col sacro» (E. Fontani, 649), nel quale i bambini non andavano a scuola, gli schiavi erano dispensati dal servizio, le altre attività politiche si fermavano poiché era appunto la festa l’attività politica per eccellenza. «Il decoro della festa identificava l’essere greco» (Id., 656), anche nel culto della fecondità e del piacere: tra gli oggetti sacri il fallo ha uno statuto centrale, tanto che in alcune feste le rispettabili matrone gettavano semi su statuette di peni. Il fallo infatti «fungeva da talismano per assicurare la buona crescita dei germogli. Questa pratica rituale, di esclusiva pertinenza femminile, aveva luogo a Eleusi e contemplava l’allestimento di un banchetto in un clima nel quale era ammessa ogni forma di turpiloquio (αἰσχρολογία)» (Id., 686). Delle feste erano protagonisti gli dèi e tra di loro specialmente Dioniso, per la sua vitalità, per la sua gioia. Una Hydria di Polignoto mostra due ragazze che si danno alla ‘danza delle Cariatidi’. La loro grazia appare davanti ai nostri occhi come se accadesse adesso, innocente e insieme sensuale.
In queste feste così gaie si celebrava anche la morte. La morte degli altri animali, in modo che il loro sangue potesse – secondo l’ipotesi del tutto corretta di Gianfranco Mormino – ingraziarsi  gli dèi e permettere che la semina nella terra irrorata dal sangue potesse ancora produrre grano, cibo, vita. Uno dei capitoli più crudi e splendidi dei Dialoghi con Leucò di PaveseL’ospite– testimonia il dato antropologico per il quale all’inizio le vittime di questa offerta alle potenze ctonie erano altri umani, poi sostituiti da creature assai più sottomesse e impotenti di fronte alla violenza umana: gli altri animali. Enrica Fontani conferma che «il momento culminante della festa era il sacrificio (θυσία). […] Sacrificare significava onorare gli dèi per mezzo di oblazioni, per placarli o sollecitarne il favore. […] L’eziologia del sacrificio spiega in chiave di trasgressione, rispetto alla consuetudine originaria di oblazioni incruente (frutti della terra, focacce), l’atto del primo uccisore di buoi (βουτύπος) che inaugurò il regime alimentare carnivoro (Porfirio, Dell’astinenza, 2.29-30). Il sacrificio vegetariano totale cedette il passo alla prassi cruenta dell’uccisione ritualizzata (ολόκαυστον), che diventò il perno dell’identità civica e del sistema basato sulla condivisione del cibo. La dimensione politica e quella religiosa appaiono qui più che mai solidali e complementari» (653).
Di questa natura violenta ma ritualizzata della Grecità, e in generale del mondo antico, sono testimonianza sia i sacrifici animali – mentre i massacri contemporanei che su di loro si praticano non hanno nulla di sacro e simbolico, sono soltanto pura totale sterminata violenza – sia gli agoni, i giochi, le gare. Una dimensione talmente importante, questa, una passione così profonda da far sì che l’agone nato nell’ambito della festa rese alla fine la festa una semplice cornice dell’agone. Burckhardt e Nietzsche hanno dunque ben individuato «nello ‘spirito agonale’ una delle forze trainanti della civiltà greca. Ogni campo dell’attività umana sembra, per i Greci, motivo di competizione: oltre lo sport, la musica, la danza, il teatro, il simposio, fino alle dispute filosofiche. Persino la bellezza» (C. Marconi, 761).
Culti, feste, sacrifici, agoni avevano sempre come centro e sfondo il santuario. Che non è soltanto il tempio ma è il paesaggio sacro dentro il quale anche il tempio vive. Il tempio, certo, è un luogo del tutto particolare, le cui colonne – scrisse Le Corbusier riferendosi al Partenone «obbediscono ad un’unica legge, sgorgano dalla terra» (cit. da C. Franzoni, 133)– e tuttavia il racconto eracliteo degli dèi che abitano anche in cucina testimonia che «per i Greci qualsiasi luogo può essere considerato adatto a ospitare un santuario. Perché ciò accada è sufficiente percepirvi la presenza del divino attraverso i suoi segni, e sentirsi con ciò più vicini a lui» (Id., 528).
La prima divinità è la luce. Sacerdoti e fedeli si rivolgevano a est, verso il sole che sorge, «dove si immagina la divinità, quando, all’alba, ha luogo il sacrificio» (Id., 531). Il cielo, la terra, gli animali, i divini si incrociano nello spazio del santuario, che diventa così Νόμος, luogo nel quale l’umano dà a se stesso senso. Le metope del lato sud del Partenone sono ispirate «al principio generale della lotta conto il disordine (χάος) per l’affermazione dell’ordine (κόσμος)» (Id., 620).
I Greci sono anche questa identità/differenza tra il Kaos e il Kosmos.

[L’immagine raffigura l’Oggetto di Hoag, una delle galassie più singolari del cosmo, dalla forma circolare con al centro un nucleo assai luminoso. Dista 600 milioni di anni luce dalla Terra]

Nota

1.C. Franzoni, in I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di S. Settis, Volume IV/1 Atlante 1, a cura di C. Franzoni, Einaudi 2002, p. XII. Le citazioni successive saranno indicate con il nome dell’autore e il numero di pagina.

Mineo

Sono abitate sin dal Paleolitico alcune delle colline che si ergono nella Piana di Catania. Una di queste alture si innalza ben delimitata rispetto alla pianura, con pareti ripide e anche a strapiombo e soprattutto con grotte naturali, una delle quali è molto ampia e fu abitazione di una popolazione di cacciatori e raccoglitori. Ha un nome greco questo spazio, Paliké, dal quale anche il Biuso_Aión_singola toponimo di Palagonia. Il sito archeologico (gestito dalla Regione) è chiuso per Covid, anche se lo si può gustare lo stesso a distanza nella sua magnificenza. Uno spazio apertissimo, nell’aria e nella luce, ma il virus ha tra i suoi effetti alcune malattie che si chiamano irresponsabilità, pigrizia, cinismo. E che portano all’impoverimento dei territori.
In questo caso del territorio di Mineo, un antico borgo su una altura della Piana. Grandi chiese in arenaria, con facciate concave e barocche: Collegiata di San Pietro. Erette sopra un antico tempio politeista dedicato al Sole: Collegiata di Santa Maria Maggiore. Illustrate da trionfi di stucchi e affreschi settecenteschi: Collegiata di Santa Agrippina, che di Mineo è la patrona e alla quale sono dedicati appunto gli affreschi sul soffitto, una statua in legno policromo del Cinquecento, un ricco fercolo d’argento.
A Mineo sono nati gli scrittori Giuseppe Bonaviri e Luigi Capuana, esponente quest’ultimo non soltanto del Verismo ma anche della classe di proprietari terrieri ai quali la città deve la presenza di imponenti palazzi, alcuni dei quali però in rovina. La casa di Capuana dicono essere magnifica. Dicono perché il sabato (giorno nel quale ho visitato Mineo) e la domenica è chiusa. Imperdonabile sciatteria, che spero venga sanata. Così come il cancello sprangato con lucchetto del Castello Ducezio. Non si possono tenere aperti i luoghi che fanno l’identità di una città dal lunedì al venerdì (a volte al mattino, altre di pomeriggio) come se si trattasse di uffici dell’anagrafe.
Dall’esterno si osserva in ogni caso l’imponenza del Palazzo di Capuana, così come di Palazzo Tamburino e Palazzo Ballarò. L’ex Collegio dei Gesuiti è invece sede del Municipio e ha un cortile sul quale sporge un loggiato seicentesco, al cui centro domina un antico albero.
La struttura medioevale del borgo è una casba simile a numerose altre di Sicilia, dalla cui saggia ombra si aprono lame di luce sulla pianura, sul cielo, sulle colline.
Nel viaggiare per i borghi di Sicilia mi accade a volte di incontrare degli studenti di Unict che frequentarono uno o più dei miei corsi, che fecero esami e che mi riconoscono. A Mineo è accaduto con il Dott. Antonio Gambuzza, che si è prodigato a illustrare a me e a chi mi accompagnava le ricchezze del luogo, con una passione per la propria città e una generosità delle quali lo ringrazio pubblicamente con gioia. La gioia di chi condivide la ricchezza antropica, ambientale e urbanistica dell’Isola, della sua luce.

Caltagirone

Anche se visitata «o centru ru cavuru» (nel pieno del calore) di un agosto siciliano, Kalat-al-Giarun, la collina dei vasi, mostra ai camminanti la sua magnificenza. Il colore dell’argilla, dalla quale si plasmano i vasi di ceramica, si mescola con il nero della lava. Dal dedalo dei vicoli il panorama si apre ai monti Erei e agli Iblei.
Le stratificazioni millenarie del luogo furono cancellate o sepolte dal terremoto che nel 1693 cambiò il volto della Sicilia orientale generando anche il barocco calatino, il quale mostra certo segni di usura e andrebbe restaurato in modo sistematico ma intanto permette di godere, tra gli altri monumenti, della facciata assai elegante della Cattedrale di San Giuliano e della sobrietà di quella della Chiesa del Gesù. Entrambe a due passi dal Palazzo del Municipio, con le sue belle carrozze dentro il cortile. Palazzo dal quale si diparte una delle Scale più celebri d’Europa, i cui 142 gradini decorati portano alla vetta dell’antica Matrice. Da qui lo sguardo spazia sulla piana di Catania e di Gela.
Questa città demaniale fu per molto tempo Signora della zona, come mostrano i suoi luoghi del potere, tra i quali il Palazzo Senatorio, la Corte Capitaniale, il Carcere borbonico, la sede vescovile. Un ulteriore segno di libertà e autorità è il grande Giardino pubblico, un’ordinata estensione verde accanto al Teatro Politeama.
Città-capitale a tutti gli effetti, dunque, Caltagirone. E ricca di Musei importanti ma infelicemente chiusi in un’estate nella quale i luoghi del sapere e della bellezza riaprono ma non in quest’angolo di Sicilia. Peccato davvero ma promessa e impegno per una successiva visita anche alle altre sue tante chiese. Due di esse sono vicinissime: San Francesco all’Immacolata e san Francesco di Paola. Entrambe si raggiungono attraversando un antico ponte urbano che collega tra di loro due delle colline sulle quali è costruita la città. Davanti alla seconda di queste chiese si eleva il monumento alla più recente celebrità del luogo, Don Luigi Sturzo, che vi appare più come un consapevole politico quasi dandy che come un prete.
Poco prima del ponte, il Tondo Vecchio è tutto del colore intenso di questa terra, è un piccolo anfiteatro, è ornato ancora una volta da simboli che costituiscono l’espressione e la permanenza nel tempo della πόλις. E intorno alla città il latifondo, gli ulivi, le nuvole.

Spagna

Nella primavera del 2020 avevo programmato dei viaggi nell’amatissima Europa. Virus, superstizioni, dispotismi e paure non li hanno resi possibili.
Ho dunque riletto gli appunti che avevo preso durante alcuni viaggi effettuati in Spagna, una terra bella e antica nella quale – a differenza della superpopolata Italia – si possono percorrere centinaia di chilometri senza incontrare un borgo ma soltanto spazi, luce e altri animali.

Madrid è ancora la capitale di un impero. L’impero che parla in tutto il mondo il castigliano. La grandeur della città è quasi pari a quella di Parigi, i suoi palazzi, le strade, i musei sono tra i più emblematici della storia del Continente.
Toledo appare esattamente come El Greco la dipinse alcuni secoli fa. Raccolta sopra un fiume, cattolica, controriformista sino al midollo urbano, in ogni caso splendida, immobile, inquietante.

Di Barcelona mi ha colpito il disordine urbanistico. Coinvolgenti, invece, l’enormità degli spazi, la persistenza del gotico, il Passeig de Gràcia una delle vie più belle d’Europa. Il modernismo di Gaudì mi lascia piuttosto freddo ma La Pedrera è una delle case più originali e interessanti che abbia visto.
Tarragona, che da Barcelona è facilmente raggiungibile, è una città romana adagiata su un mare luminoso che si può ammirare dal Balc del Mediterrani. Il Pretori romà, con l’area del circo e del Foro provinciale, dà l’impressione di entrare in un luogo ancora abitato da uomini e civiltà universali.

Dove il cuore antico della Spagna emerge in tutta la sua forza è l’Andalusia.
Percorrere le città di questa regione significa entrare nel sogno, nei secoli, nella convivenza e nelle guerre, nell’arte, nella luminosità.
Sevilla è una città estesa e varia, dal cuore antico, colma di storia. I Reales Alcàzares e i Jardines del Alcàzar sono uno spazio musulmano dentro la mura, una fortezza che era in realtà un luogo di delizie, un labirinto di silenzi, un incrocio di ombre e di piaceri. Patii (cortili interni), fontane, colonne arabescate, soffitti d’oro, padiglioni rinascimentali, bagni turchi. Sevilla meriterebbe una visita solo per entrare in questo spazio di magie.
La Catedral della città è la più grande chiesa gotica del mondo, è un edificio di culto ma non solo. È un memoriale, è una piazza, è un museo di oggetti d’oro e di ceramiche, con un enorme retablo nel suo centro. Dal suo interno si sale alla Giralda, il minareto trasformato in campanile. Dentro la cattedrale si trova il Patio de los Naranjos, un aranceto al cui centro sta una fontana visigota che serviva alle abluzioni che precedono la preghiera musulmana.
La Casa de Pilatos è una residenza privata degna di un sovrano, con cortili, mosaici, pareti di azulejos, che scandiscono lo stile mudejar, la contaminazione fra l’arte cristiana e quella moresca.
L’antica Fàbrica de Tabacos è oggi sede dell’Università, è un grande rettangolo rinascimentale posto accanto al Parque de Maria Luisa, un giardino esteso, vario, verde e pieno di acque, sul quale dà la Plaza de Espaňa, vasto emiciclo solcato da ponti, circondato da torri, adornato con azulejos che descrivono città e regioni di tutta la  Spagna.
Nella Plaza de los Refinadores Sevilla ha eretto una statua a uno dei suoi miti, a quel Don Juan che nacque e visse qui, in un’aria spessa di piaceri, dove i colori e la luce stessa sono intrisi di un erotismo lento perché sicuro del proprio compimento, un luogo in cui godere non è un peccato per la semplice ragione che l’intera città è uno spazio di seduzione.
Nel Barrio de Santa Cruz si può visitare l’Hospital de los Venerables e la Torre del Oro, dalla quale parte il viaggio in battello lungo il Grande Fiume, il Guadalquivir. Osservata dalle acque la città diventa uno spettacolo.
Anche Cordoba è adagiata sulle rive del Guadalquivir, un luogo di scambi, di guerra e di incontro fra le tre religioni monoteiste. La Mezquita, la moschea trasformata in cattedrale cristiana è uno di quegli spazi per i quali ogni descrizione fallisce. Quasi novecento colonne sormontate da archi bianchi e rossi disegnano a perdita d’occhio un luogo di culto e di studi. I cristiani abbatterono alcune di queste colonne per costruire il Crucero, una chiesa dentro la grande moschea. Non contenti, aggiunsero ai lati dell’enorme perimetro alcune cappelle. E tuttavia questo spazio davvero unico non ha perduto la sua impronta orientale, ancora evidente nella qibla, il muro orientato verso la Mecca nel quale si trova il mihrab la nicchia in cui veniva conservato il Corano. È questo l’angolo più illuminato di tutto l’edificio; osservarlo da dentro una chiesa-moschea dà la sensazione di che cosa dovesse essere Cordoba quando musulmani, ebrei e cristiani la abitavano insieme. Nel patio, nel grande cortile accanto alla moschea – dove Averroè teneva le sue lezioni –  scorrono ancora le acque delle antiche abluzioni.
L’Alcàzar de los Reyes Cristianos è un altro labirinto di acque, di luci e di verde. Il Puente Romano, dal quale si gode una vista del Guadalquivir ancora intatto nei suoi argini, conduce alla Torre de Calahorra, una fortezza oggi adibita a piccolo museo della cultura islamica, i cui testi illustrativi degli ambienti sono stati scritti dal filosofo Roger Garaudy, che da cristiano convinto divenne un altrettanto convinto musulmano.
Nel quartiere giudaico rimangono la Sinagoga, lo spazio artigiano e commerciale dello Zoco, la Casa Andalusí di impronta ancora musulmana.
Nel Palacio de Lebrija una contessa raccolse un numero considerevole di reperti classici, arabi, mudejar. Il piano alto racchiude un esempio di abitazione nobiliare con ambienti diversi e tutti ricchi di suggestioni.
Il Barrio de la Macarena con la sua chiesa dominata dalla Madonna addolorata che sembra una Grande Madre pronta alla vendetta è un quartiere popolare nel quale il bello e il plebeo, l’antico e il nuovo, gli schiamazzi e i silenzi, confermano la natura onirica di questa terra: il sogno sensuale di un dio della Luce.
Nella Plazuela del Potro si trova la locanda descritta da Cervantes nel Don Chisciotte. La Plaza de la Corredera è molto simile alla Plaza Mayor di Madrid; salendo da questa piazza si incontrano i resti del Templo Romano e ancora più su il Convento dei Cappuccini con il Cristo de los Faroles, un crocifisso circondato da lampioni. Un luogo che al crepuscolo illumina come di malinconia Cordoba, questa città-bellezza nel cuore dell’Andalusia.

Di un più recente viaggio (2018) nei Paesi Baschi, in particolare a Bilbao e a Donostia/San Sebastián, ho parlato a più riprese: Bilbao / Donostia; Heidegger a Bilbao; Arroyo e il Cardinale.

Viaggiando nel nostro Continente si può cogliere l’identità che lo costituisce nella ricchezza delle differenze, delle lingue, del modo peculiare con il quale ogni popolo ha modulato la comune matrice. È la conferma di quanto è stato scritto nel Preambolo della Costituzione europea, dove si dice che l’Europa rappresenta la «grande avventura che fa di essa uno spazio privilegiato della speranza umana».
Di città europee ne ho visitate molte e ogni volta ritorno con la stessa sensazione espressa da Elias Canetti, lo scrittore ebreo sefardita nato in Bulgaria e vissuto in vari Paesi del nostro continente: «C’è chi vorrebbe andar via dall’Europa, io – se potessi – vorrei entrarvi ancora di più». Spero, trascorsa l’ondata funerea e digitale dell’epidemia, di poter continuare a visitare e percorrere queste terre con il corpomente e nello spazio reale, libero dalla finzione virtuale. I luoghi sono materia e la materia è tutto. Anche quella costruita dagli umani, anche le città.

Sikania

Σικανία era uno degli antichi nomi dell’Isola di luce. Il toponimo si limitò poi alla parte centro-occidentale, quella abitata da genti puniche e difesa prima contro i Greci e poi contro Roma che la conquistò, unificandola.
Avevo toccato qualche anno fa queste terre visitando Sambuca di Sicilia e ora mi sono immerso in esse a partire dal luogo visionario che Lorenzo Reina ha creato a poca distanza da Santo Stefano Quisquina, nell’agrigentino.
Il Teatro di Andromeda ha la struttura di un ovile ma dentro le sue mura e attraversando le sue porte si entra nella raffigurazione della galassia, con l’ovale della forma, il nucleo della scena, le stelle a fare da sedili per gli spettatori che guardano verso Occidente, là dove il declinare del Sole infiamma le pietre e  trova un proprio simbolo nel cerchio che sovrasta la porta a Ovest, dietro la quale si slargano i monti, i fiumi, le gole, le città e il mare lontano che ci bagna, che bagna questa terra posta al centro geometrico del Mediterraneo e dunque al centro della storia.
Un lago è infatti il nostro mare rispetto alla misura sconfinata degli oceani ma intorno a questo lago sono nati gli Egizi, i Greci, i Romani, i Siciliani, noi.
Accanto al Teatro si trovano statue, teste, simboli eclettici di diverse credenze e religioni. Vicina sta un’altra struttura di sassi disposti a ellissi con al centro una grande pietra in verticale. E poi intorno colline abitate da asini allo stato brado, dallo spazio, dal silenzio. Il Teatro di Andromeda è un luogo recente nella realizzazione ma millenario nelle radici e nel sogno, vicino a un borgo –Santo Stefano– piccolo ed elegante, con una bella e assai fruita Villa comunale dalla quale ancora lo sguardo si dipana verso l’oltre.

Le colline e i monti non lontani ospitano eremi di sante, borghi con piazze dove due chiese contrapposte si congiungono nella splendida fontana che sta loro in mezzo, formando una quinta teatrale quasi predisposta per l’epopea western e per altre forme dell’invenzione cinematografica. Questo luogo si chiama Palazzo Adriano, uno dei borghi albanesi di Sicilia, ed è stato infatti scelto da molti registi. Il paesino è posto in basso; sopra di esso sta Prizzi, una casba medioevale intessuta di chiese, edificata davanti alla Montagna dei Cavalli, che conserva nel proprio cuore l’antico abitato di Hippana, uno dei più importanti centri della Sicania, assai antico e sopravvissuto sino al 241 a.e.v., quando la conquista romana cambiò le sorti dell’Isola. Nella strada più importante del paese ha sede il Museo Archeologico ‘Hippana’, ospitale e ricco di ciò che nella Montagna dei Cavalli è stato ritrovato, trafugato e a volte restituito: lamine d’oro e d’argento, una ricca collezione di monete, statuette di vario soggetto, preziosi vasi -lekane, pissidi, alabastron– che raffigurano scene di vita quotidiana e miti dionisiaci.
In questa terra gli dèi sono ovunque e accompagnano l’andare.

Finlandia

Un Paese giovane in ogni senso: storico e anagrafico. Un luogo fatto di natura e architettura, entrambe potenti. Uno spazio di mediazione politica tra i due blocchi quando ancora i due blocchi c’erano. Un cielo che se è sereno è di cobalto, come a Stoccolma. Tra Helsinki e Turku la distesa delle terre ghiacciate, dei laghi, delle foreste.

Turku, l’antica capitale finlandese, è oggi una vivace città adagiata sulle sponde del fiume che la attraversa. I due luoghi principali sono il Castello e il Duomo. Il primo (qui a sinistra) è una struttura medioevale-cinquecentesca, con sale, cappelle, torri. Probabilmente il luogo con maggiore spessore storico della Finlandia. Il Duomo è una monumentale struttura gotica -con un interno molto luminoso- circondata dagli edifici dell’Università svedese.

A Helsinki lo spazio è sconfinato e sembra quasi deserto rispetto alla densità delle città dell’Europa del sud. La Esplanadi è una strada ampia ed elegante, con dei giardini al centro e alla fine la fontana con una Fanciulla del mare.
In cima a una scalin ata il Duomo luterano (a destra) appare in tutto il suo neoclassico biancore.
Casa Finlandia –progettata da Alvar Aalto- è adibita a centro congressi, sala concerti, mostre temporanee. Il suo bianco dinamico sporge su una baia ghiacciata.
Seurasaari è l’isola-museo, con abitazioni del Sei-Settecento provenienti dall’intera Finlandia. La neve e il ghiaccio della baia fermano l’isola nel tempo, così come accade con Suomenlinnaaltra isola che si raggiunge in un quarto d’ora di battello ed è l’antica fortezza della città, un luogo dall’impronta militare, oggi patrimonio dell’Unesco.
La Kallion kirkko è un’enorme chiesa in stile liberty posta su un’altura e il cui campanile-torre domina l’intera Helsinki. Il Sibeliuksen puisto, il parco dedicato al maggior compositore finlandese, ha al centro un monumento in acciaio che rappresenta insieme delle canne d’organo, delle stalattiti, gli alberi di una foresta.
La Temppeliaukion kirkko (a sinistra) è una chiesa scavata nel granito, interamente coperta da un filo di rame lungo 23 chilometri che la fa somigliare a una specie di ufo; le pareti all’interno sono formate dalla roccia lungo la quale scorre l’acqua piovana. Durante la visita la musica di un pianista ha offerto a questo luogo qualcosa di sacro e di interiore.
Eduskuntatalo è la massiccia ma elegante sede del Parlamento (la si vede nell’immagine di apertura in alto), un esempio del miglior classicismo degli anni Venti del Novecento. Coerente simbolo di una città dai grandi spazi, limpida e silenziosa, fatta di edifici imponenti che sono immersi in una natura forte e, si comprende, indomabile.

Trapani

Là dove si incontrano i due mari, nel finis terrae dell’estremo Occidente di Sicilia, sale dalle acque questa falce di luna che si chiama Trapani. δρέπανον in greco vuol dire appunto falce. Un percorso dritto dritto porta dal miracolo di Erice al mare che si frange e taglia dentro gli scogli. Di rocce e d’acqua è circondata la Torre di Ligny che dal 1671 segna il confine fra la pietra e il mare.

La città terrestre è piena di chiese barocche e settecentesche, colme di statue, fercoli, dipinti. Quasi ogni chiesa cattolica del mondo è un piccolo museo, gratuito per i popoli. Un dono di bellezza per tutti, che è sempre da apprezzare rispetto alla povertà dei templi protestanti, più simili a casermoni e magazzini che a luoghi sacri. Come diceva Don Mariano Arena, «la Chiesa è tutta una bellezza» (Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi 1979, p. 103).
Insieme alle chiese, proprio accanto, alcuni magnifici palazzi, in uno dei quali -a due passi dalla Cattedrale- si entra per scoprire che è sede di una scuola, il Liceo Scientifico Fardella. Temo che i suoi studenti, affetti come tutti da abitudine, non si rendano conto del privilegio che hanno.
Il Lungomare di Tramontana è una luminosa passeggiata tra le facciate delle case, le acque, i gabbiani, il silenzio ritmico delle onde che da milioni di anni si infrangono, come le speranze, i desideri, le illusioni, gli amori. Tutti recisi dalla falce del tempo.

 

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