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Aristotele

Aristotele
Metafisica
in «Opere», volume VI
Traduzione e note di Antonio Russo
Laterza 2019 [1982]
Pagine 440

Il trattato che gli editori di Aristotele, tra i quali Andronico di Rodi, raccolsero e pubblicarono dopo gli scritti di fisica, μετά τα Φυσικά, si compone di quattordici libri. In essi viene esposta la «filosofia prima», ovvero la scienza dei principî, delle cause e delle sostanze. Introducendo la sua nuova traduzione in italiano della Metafisica Enrico Berti scrive che «l’impressione complessiva che un lettore può provare è quella di trovarsi di fronte a un testo difficile, complicato, spesso incomprensibile. Ebbene, questo è esattamente la Metafisica di Aristotele, uno dei testi filosofici più difficili che l’antichità ci abbia trasmesso, che richiede al lettore sforzo, fatica, pazienza, intelligenza» (Metafisica, Laterza, Bari-Roma 2017, p. XIII).
È così. Ma la lettura e la riflessione su questo insieme di trattati è propedeutica a qualunque comprensione della filosofia europea e in cambio dell’impegno offre uno sguardo oggettivo e profondo sulla realtà. La nuova traduzione di Berti è molto letterale e più fedele al testo rispetto a quella di Antonio Russo. Preferisco tuttavia riassumere e citare da quest’ultima perché il mio obiettivo consiste qui solo nel presentare, per quanto possibile, i concetti fondamentali di Aristotele e invitare a conoscerli direttamente dall’opera, nella traduzione che si ritiene più adatta ai propri interessi di studio. 

Per Aristotele dunque l’impulso alla conoscenza – presente per natura in ogni umano (libro A [I], cap. 1, 980a, 20) – nasce dallo stupore, dalla meraviglia (A [I], 2, 982b, 10-15). È da essa che si origina la scienza più profonda e l’attività più alta, l’attività teoretica il cui scopo ultimo è «la verità» (α [II], 1, 993b, 20). Conoscere la verità significa conoscere le cause di ciascun ente e del divenire. Esse sono quattro.

  1. «Ciò da cui proviene l’oggetto e che è ad esso immanente»
  2. «La forma e il modello, vale a dire la definizione del concetto e i generi di essa»
  3. «Ciò donde è il primo inizio del cangiamento e della quiete»
  4. «Inoltre la causa è come fine, ed è questa la causa finale, come del passeggiare è la salute»
    (Δ [V], 2, 1013a, 24-35, 1013b, 2).

Per riuscire a condurre l’indagine sulle cause è indispensabile un principio guida che sia sicuro e saldo. Di esso Aristotele aveva già parlato nell’Organon: si tratta dello strumento logico preliminare a ogni pensiero, il principio di non-contraddizione, secondo cui «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione» (Γ [IV], 3, 1005b, 19).
A questo principio fondamentale va unita la consapevolezza che non è possibile dare dimostrazione di ogni cosa poiché tale pretesa condurrebbe al regresso all’infinito, che per Aristotele coincide con l’irrazionale. Inoltre, si dà conoscenza scientifica soltanto di ciò che è universale poiché gli enti individuali sono dominio della semplice sensazione.
Posti questi fondamenti, il filosofo identifica la prima importante distinzione ontologica nella potenza e nell’atto. Potenza è la possibilità del divenire, l’atto è la potenzialità realizzata. Il passaggio dall’una all’altro è il movimento, è il tempo. L’atto possiede sempre una originaria prevalenza: «ciò che è in atto proviene sempre da ciò che è in potenza, ma proviene per opera di qualcosa che è attualmente esistente» (Θ [IX], 8, 1049b, 24). I principî sinora esposti e la distinzione tra atto e potenza dicono in modo chiaro che il lavoro teoretico si rivolge a un mondo in sé esistente, autonomo dalle sensazioni del vivente, «non è affatto possibile che i sostrati, i quali producono la sensazione, non esistano anche senza la sensazione» (Γ [IV], 5, 1005b, 34-35).

La teoresi si distingue in tre tipologie: matematica, fisica, teologia. La prima si occupa di enti immobili ma che (probabilmente) non esistono separati da una materia; la seconda studia enti che esistono separatamente ma non sono immobili; la filosofia/teologia (l’’onto-teo-logia’ della quale parla Heidegger ma che appartiene molto a Heidegger e poco ad Aristotele) indaga anche gli enti «che esistono separatamente e che sono immobili» (Ε [VI], 1, 1026a, 13-19). Anche perché la teoresi teologica si occupa certamente delle cause divine ma pure degli elementi materici (acqua, aria, terra, fuoco), delle forme che costituiscono le sostanze materiche e dei fini della sostanza, vale a dire la piena realizzazione della sua forma. In questo modo, la metafisica è la scienza prima che comprende in sé tutte le altre.

L’indagine aristotelica si nutre di una pacata ma costante distanza dalla teoresi platonica, che si involverebbe in una vasta serie di incongruenze, contraddizioni e arbitrarietà, tra le quali sono particolarmente gravi l’autonomia ontologica data ai numeri; la separazione delle forme ideali (le ‘idee’) dagli enti sensibili; la concezione dell’universale come forma separata dalla materia; la caratterizzazione dell’Uno come sostanza.
Quest’ultima tesi è per Aristotele contraddittoria perché l’Uno non è un genere ma è un universale, è il concetto più universale, quello che in sé accoglie tutti gli altri, comprese identità e differenza.
La scienza aristotelica, attraverso un lungo e minuzioso lavoro di indagine sulle cause e sui principî, perviene alla identificazione di un primo motore che è causa efficiente e finale di ogni ente ed evento, «un essere necessariamente esistente e, in quanto la sua esistenza è necessaria, si identifica con il bene e, sotto questo profilo, è principio», un principio dal quale dipendono il cielo e la natura (Λ [XII], 7, 1072b, 10-11). Questo Intelletto primo vive in una beatitudine senza fine, rivolto sempre al pensiero sommo che è egli stesso e dunque «pensa se stesso, se è vero che esso è il bene supremo, e il suo pensiero è pensiero-di-pensiero» (ivi, 1074b, 36). Naturalmente tutto questo è da intendere senza alcun riferimento a un dio persona, volontà, padre o analoghe determinazioni. L’essere necessariamente esistente è una causa oggettiva e impersonale. Come ricorda Enrico Berti, «nella Metafisica si trova ben poca teologia monoteistica» (trad. citata, p. XVI).

La metafisica così delineata è in se stessa una ontologia. Metafisica è quella scienza 

che studia l’essere-in-quanto-essere e le proprietà che gli sono inerenti per la sua stessa natura. Questa scienza non si identifica con nessuna delle cosiddette scienze particolari, giacché nessuna delle altre ha come suo universale oggetto di indagine l’essere-in-quanto-essere, ma ciascuna di esse ritaglia per proprio conto una qualche parte dell’essere e ne studia gli attributi, come fanno, ad esempio, le scienze matematiche.
(Γ [IV], 1, 1003a, 20-25)

Tuttavia l’essere non ha una accezione univoca ma si dice in molti sensi. Tra questi il filosofo ne privilegia due: la categoria e la sostanza. Categoria «giacché il termine ‘essere’ ha tante accezioni quante sono quelle delle categorie» (Δ [V], 7, 1017a, 25); sostanza poiché «l’essere nella sua accezione fondamentale – ossia non una qualsiasi qualificazione dell’essere ma l’essere puro e semplice – dovrà identificarsi con la sostanza» (Ζ [VII], 1, 1028a, 31-32).
L’intera storia della filosofia ha ereditato questa duplice accezione dell’essere. L’essere come categoria si è trasformato, nella tarda scolastica e soprattutto nella modernità cartesiana, in un concetto puramente gnoseologico, pervenendo alla completa subordinazione degli enti alla visione-giudizio-manipolazione dell’ente umano. L’essere come sostanza è stato di volta in volta o sola materia o solo spirito.
In ogni caso, come si vede, nella Metafisica di Aristotele si origina, riposa e sta il pensare europeo. In questo trattato, o insieme di trattati, la cultura greca perviene a uno dei suoi esiti massimi e più fecondi. Il rigore dell’indagine, la complessità delle prospettive, la chiarezza dei fondamenti concorrono alla costante e pervasiva presenza nel pensare europeo di queste ricerche aristoteliche sull’essere, la verità, il tempo. È infatti vero che «il problema su cui verte ogni ricerca passata, presente e futura, la questione che è sempre aperta e dibattuta, ossia ‘che cosa è l’essere?’, non si riduce ad altro se non alla domanda ‘che cosa è la sostanza?’»  (Ζ [VII], 1, 1028b, 2-4).
La risposta più convincente e argomentata a tale domanda l’ha data Spinoza, la cui Ethica conduce a pienezza l’immanentismo come significato, struttura e benedizione dell’essere, conduce a un mondo nel  quale l’umano non ha nessun primato e persino nessuna presenza.

Whitehead

Whitehead
in Vita pensata
n. 29, novembre 2023
pagine 163-174

Indice
-Una metafisica selvaggia
-Platone, l’intero e le sue parti
-Un’ontologia relazionale
-Una metafisica temporale
-Potenza e limiti della filosofia
-Linguaggio e teologia

Questo articolo intende essere soltanto un testo di servizio per introdursi a una filosofia tanto originale quanto complessa e linguisticamente strabordante. Ho cercato dunque di dare quanto più possibile la parola ad Alfred North Whitehead (1861-1947) ma anche di rendere questa parola comprensibile sullo sfondo della storia della metafisica nella quale si colloca, nella quale intende collocarsi.
L’essere è insieme e inseparabilmente flusso e permanenza, poiché ogni mutamento ha senso in quanto qualcosa rimane e, di converso, il permanere di un ente si staglia sull’orizzonte del suo mutare. La metafisica è dunque da intendere non come fondazione/fondamento ma come comprensione di questo ininterrotto eventuarsi in cui mondo, materia e umanità consistono. Metafisica non come soggettivismo/idealismo ma come schiusura, apertura e compenetrazione del mondo umano dentro il mondo spaziotemporale che lo rende ogni volta e di nuovo possibile. 

 

Pascal

Blaise Pascal
Le Provinciali
(Les Provinciales, gennaio 1656-marzo 1657)
Introduzione e traduzione di Giulio Preti
Einaudi 1983
«NUE, 183»
Pagine XXIII-259

L’uso sapiente delle metafore, dell’ironia, dell’invettiva e di ogni sapienza stilistica fa di queste pagine un fluire scintillante di immagini, l’elegantissimo e insieme appassionato discorrere di un dotto. Ma solo comprendendo le ambiguità e il conflitto che albergano in questo libro famoso si può davvero apprezzare l’efficacia del pensare pascaliano.
Le contraddizioni fra l’adesione alla Chiesa Romana e la critica alle sue debolezze, tra lo scetticismo e il fanatismo, fra un’estrema serietà e una costante ironia, convergono e si annullano nel rigore del Sacro di cui Le Provinciali sono intessute. «Sant’Agostino, il più grande dei Padri» (lettera II, pag. 19) ritorna ad affrontare e a sconfiggere Pelagio e la sua idea che «un peccatore potrebbe rendersi degno dell’assoluzione senza nessuna grazia soprannaturale. Ora, non c’è nessuno che non sappia che questa è un’eresia condannata dal Concilio» (let. X, p. 114). È il pelagianesimo dei Gesuiti e del loro teologo Luis de Molina a indurre Pascal a inviare queste lettere ai responsabili della Compagnia di Gesù (pelagianesimo, tra parentesi, al quale sembra molto indulgere l’attuale Pontefice Romano, non a caso un gesuita).
Pascal è del tutto consapevole delle ragioni dei Gesuiti, del loro obiettivo ultimo: non respingere nessuno, offrire a chiunque un mezzo per salvarsi, stemperando il rigore dell’etica evangelica. La lucidità antropologica di Pascal si scontra tuttavia contro questo umanesimo e attribuisce a Dio una severità priva di incertezze:

Infatti, non vediamo che Dio insieme odia e disprezza i peccatori, fino al punto che anche nel momento della loro morte, che è il momento in cui il loro stato è più deplorevole e più triste, la saggezza divina unirà la canzonatura e il riso alla vendetta e al furore che li condannerà ai supplizi eterni? (let. XI, p. 120).

Questa radicalità di Agostino e di Pascal è stata di fatto respinta dalla Chiesa Romana in molte fasi della sua storia, certamente lo è in quella attuale nella quale la dottrina e la prassi delle gerarchie e di molti fedeli mettono in discussione gli stessi fondamenti della fede cattolica. In effetti è Molina ad aver vinto, sono i Gesuiti a continuare a vincere contro Pascal.
Al di fuori dell’ambito legato direttamente alla fede, Pascal è anche altro: su questioni di fatto e su ogni argomento non strettamente dogmatico, egli ritiene necessario non quasi ex autoritate praecipere, sed ex ratione persuadere (let. XVIII, p. 247). Il filosofo distingue nettamente i sensi, la ragione e la fede, assegnando a ciascuna di queste facoltà un proprio non valicabile ambito. Lo scienziato cita ironicamente il caso Galileo, in quanto non sarà un decreto «che proverà che la terra sta ferma» (ivi, p. 251).
La modernità di Pascal è ancora più profonda. È la convinzione illuministica e nietzscheana del valore del singolo rispetto alle masse, del potere degli illuminati sulla canaglia, del significato non democratico che inerisce alla verità quando è tale.
Una psicologia del peccatore in quanto «bambino-viziato» avvicina Pascal a Ortega y Gasset; l’analisi sociologica della massa fa pensare a una versione moralistica di Elias Canetti; il disprezzo verso tutto ciò che è umano, troppo umano, spiega la costante ammirazione di Nietzsche verso questo libro e il suo autore.

Giuliano

Sine ira et studio Maria Carmen De Vita cerca di presentare una figura poliedrica, sfuggente, molteplice e complessa come l’imperatore Giuliano, che governò Roma dal dicembre del 361 al giugno del 363. Diciotto mesi soltanto, che però sono rimasti nella storia politica e in quella della filosofia assai più di quelli di tanti altri nomi della vicenda imperiale latina. Posto esattamente a metà tra l’epoca di Marco Aurelio e quella di Giustiniano, Giuliano costituisce infatti per molti versi un enigma della storia tardoantica.
Di una personalità così complessa, la cui azione ha suscitato passioni opposte e feroci, è difficile dire chi veramente sia stato e che cosa abbia rappresentato dentro un’istituzione e un mondo che andavano lentamente sgretolandosi. Forse Giuliano capì assai meglio di tanti altri una delle ragioni che contribuivano dall’interno alla dissoluzione della Romanità e cercò di fermarne l’espansione con i mezzi che la cultura e il potere gli mettevano a disposizione. Stratega capace e lettore onnivoro, sacerdote pagano e filosofo neoplatonico, imperatore austero e autore pungente di satire, Giuliano è forse davvero l’ultimo grande politico romano.

L’ampio saggio introduttivo alle sue opere – una vera e propria monografia di 300 pagine – delinea in modo articolato un’azione prima di tutto politica e poi teoretica. Nonostante «la sconcertante varietà e contraddittorietà di stimoli forniti dalla sua persona politica, dalle sue scelte, dalla sua filosofia»1, «i diversi aspetti dell’azione giulianea si rivelano strettamente connessi» (p. LII). Essi vanno sempre collocati sullo sfondo e dentro le complesse dinamiche comunicativo/retoriche e interreligiose che caratterizzano il mondo tardoantico. Giuliano fu infatti anche un formidabile retore, educato sin da ragazzo alle più raffinate tecniche comunicative che la cultura greca sviluppava da secoli. E fin da ragazzo fu anche educato alle arti militari tanto che, prima come Cesare delle Gallie e poi come sovrano di tutto l’impero, Giuliano non venne mai sconfitto in battaglia. La lancia che nel 363 gli tolse la vita sembra che fosse stata scagliata da mano romana, forse da un soldato cristiano che – come tanti altri suoi correligionari – vedeva nell’imperatore il fantasma di un ritorno del politeismo.
La stessa mano cristiana, stavolta di un altro imperatore (Valentiniano III) e dei suoi collaboratori,  decretò nel 448 il rogo del libro che Giuliano aveva scritto Contra Galilaeos, vale a dire conto i cristiani. Libro che – come molti altri testi pagani distrutti dai cristiani – ci rimane in forma di frammenti citati in questo caso dal vescovo di Alessandria Cirillo allo scopo di confutare i contenuti di quel testo. Ed è anche a questo rogo del Contra Galilaeos – e di migliaia di altri documenti culturali, di opere, di capolavori del pensiero e della letteratura antica – che bisogna pensare quando si rimprovera Giuliano di aver voluto impedire ai professori cristiani di insegnare i miti e la filosofia pagani nelle scuole, senza in nulla toccare non soltanto le loro vite ma neppure la loro professione, invitandoli semplicemente a insegnare le Scritture cristiane. 

La realtà dei fatti è che il regno di Giuliano e la sua persona furono caratterizzati da un atteggiamento di profonda tolleranza religiosa e persino di non-violenza, per ragioni anche culturali che affondano nelle posizioni filosofiche dell’imperatore. Nonostante le continue calunnie di Gregorio Nazianzeno (personaggio davvero ossessionato da Giuliano) e di altri cristiani, è infatti «certo che Giuliano non rovesciò l’editto di Costantino, non proclamò il cristianesimo religio illecita, né ricorse a mezzi drastici per vietare ai credenti la celebrazione dei loro riti» (LXXXIV). In generale, e questo è uno dei risultati più importanti delle indagini di De Vita, «l’impegno a favore dell’Ellenismo non sfociò mai, comunque, in una vera e propria persecuzione anticristiana; appena divenuto imperatore, Giuliano promulgò un’amnistia, concedendo il ritorno nelle loro sedi ai vescovi che erano stati precedentemente esiliati; nei mesi successivi mirò sostanzialmente all’abolizione dei privilegi concessi al clero e alla Chiesa da Costantino e Costanzo» (XXX). E questo perché quella incarnata da Giuliano fu «una filosofia-religione che aveva nel risanamento etico, nella fiducia nel logos e nella non-violenza (perfino contro gli avversari Galilei) i suoi cardini teorici» (CCLXIV).
Nonostante l’ambiente cristiano nel quale venne educato, Giuliano si immerse nella παιδεία ellenica, da lui vissuta come una integrale esperienza di saggezza/φρόνησις e di libertà/ελευθερία sia individuale sia collettiva. Il suo amore per i libri, per la conoscenza, per la lettura fu profondo e contribuì a farne un autentico filosofo, oltre che un politico e un militare. La filosofia di Giuliano è una complessa articolazione delle varie correnti del neoplatonismo, volta soprattutto a mantenere la natura e la struttura razionali del pensiero classico, evitando di dare troppo spazio alle correnti e alle pratiche teurgiche di Giamblico e di altri neoplatonici, nonostante la grande ammirazione da Giuliano nutrita verso il filosofo di Calcide. Agli amici Eumenio e Fariano, ad esempio, raccomanda che «tutti gli sforzi siano per la conoscenza delle dottrine di Aristotele e di Platone» (sezione Lettere scritte in Gallia, lettera 8, 441c, p. 5)
La ricca teologia solare di Giuliano è anche un tentativo di mantenere le differenze interne al divino, tipiche della religione greca, e insieme di coniugarle con le tendenze verso un forte principio unitario che caratterizzano non soltanto il monoteismo cristiano ma anche il pensiero plotinano dell’Uno. Giuliano trasforma «di fatto il pantheon greco-romano in una catena di divinità eliache, un sistema gerarchico di divinità subordinate all’entità suprema, che anticipa gli sviluppi della speculazione metafisico-teologica dei neoplatonici del V secolo» (CCXXI). Questa filosofia aveva anche lo scopo di rispondere alle esigenze religiose profondamente sentite dalla società del IV secolo, preservando comunque i cittadini romani dall’irrazionalismo e quindi anche «dalle tenebre dell’ignoranza galilea» (CCXXVI).

Il lavoro culturale contro la teologia cristiana deve molto agli scritti di Celso e di Porfirio ma possiede elementi di originalità che affondano appunto nel primato del culto solare e nel complesso significato che per Giuliano caratterizza il ‘paganesimo’. Questo concetto è utilizzato dall’imperatore 

per esprimere una pluralità di nozioni diverse, fra loro collegate: una realtà storico-geografica (la Grecia e soprattutto l’Atene dei tempi di Temistocle e Pericle, di Socrate e di Platone); un’etnia e una cultura considerate superiori a quelle degli altri popoli; infine, alcune qualità intellettuali e morali d’eccezione, che consentono persino a un Celta come Salustio o a un Tracio come Giuliano di definirsi Elleni nei costumi e nell’indole, e rendono i Romani, a distanza di tanti secoli, gli eredi più degni del patrimonio ellenico (L).

Giuliano coniuga dunque le tendenze mistiche dell’ultimo neoplatonismo con un solido realismo politico. Il suo obiettivo primario, che è insieme filosofico e sociale, consiste nella salvaguardia dell’identità greca del Mediterraneo e dell’Impero e nel mantenimento dell’unità degli Elleni, ai quali cercò di restituire lo «spazio culturale e linguistico usurpato dai nuovi teologi cristiani» (CCCVIII).
L’azione dell’imperatore Giuliano fu permeata di profonde convinzioni cosmologiche e teologiche, sempre vissute però in una «scelta di realismo» (CCXCII) che cerca di salvaguardare l’unità del mondo greco-romano e di ampliarne i confini. «Lungi dall’essere in fuga dalla sua realtà, l’Apostata appare profondamente immerso in essa» (CCXCVII). L’unità di teoresi e di prassi è in lui ancora un’eredità della Grecia.

Nota
1. Maria Carmen De Vita, Flavio Giuliano Claudio: l’autore, l’opera, saggio introduttivo a: Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, Bompiani 2022, p. CCLXV. I numeri di pagina delle successive citazioni compaiono tra parentesi nel testo.

Politeisti semantici

Il mito è conoscenza ma non è solo conoscenza. Il mito è teologia ma non è solo teologia. Il mito è specialmente racconto, è l’arte del racconto, è il racconto che produce mondi, credenze, significati.
Anche per questo «qualsiasi esposizione della mitologia è una interpretazione»1, poiché è il mito in se stesso – e non soltanto nei suoi lettori e inventori – a essere un oggetto cangiante, metamorfico, ermeneutico.
Di ogni dio si raccontano storie diverse, anche molto diverse. Di ogni nome del dio si danno differenti origini, interpretazioni, significati. Di ogni racconto esistono una molteplicità di versioni, sviluppi, soluzioni. Un esempio è Marsia, il satiro che sfidò Apollo nella musica e che, sconfitto, venne scuoiato dal dio a causa della sua ὕβρις. In un saggio assai bello Elvia Giudice ipotizza e descrive «una storia diversa, in cui Marsia, sconfitto da Apollo nell’agone auletico e risparmiato dal dio per intercessione di Athena (?), avrebbe riconosciuto le ragioni del rivale, assumendone lo strumento e sposandone la causa: la supremazia della citarodia su tutte le altre forme d’arte musicale»2.
Nel mito vive una molteplicità ermeneutica che lascia ammirati e stupefatti. Perché i Greci erano davvero dei politeisti semantici, credevano che nulla potesse fermarsi, avere un solo volto, diventare verità per sempre uguale, dogma.

Il Mare, la Notte, la Terra stanno all’origine di tutto. In principio – questo afferma il colto narratore greco al quale Kerényi dà voce e presta erudizione – «esisteva la Notte: nella nostra lingua essa si chiamava Nyx, una delle più grandi dee anche secondo Omero, una dea davanti alla quale perfino Zeus provava un sacro timore» (p. 26, con riferimento a Iliade, XIV, 261). Da questa notte sconfinata e potente si generarono il Cielo e la Terra; dalla loro unione il Tempo; e dal Tempo la Luce, Zeus, il dio la cui potenza, i cui figli, le cui sapienti alleanze garantirono il trionfo contro le forze più antiche e più oscure, l’avvento di un ordine comunque sempre precario, violento e cangiante, poiché precaria, violenta e cangiante è la vita stessa delle cose e della materia.
La Morte, che su tutto domina e ogni cosa aspetta, seppe darsi la figura più lieta, più desiderata, più potente: l’Amore. Soltanto perché la passione amorosa vince sui mortali, essi generano enti simili a sé, altre cose destinate e morire. «Le Sirene servivano la morte» (58). Afrodite, nata nel Mare dallo sperma insanguinato del Cielo, è una divinità d’amore e una divinità di morte. E anche per questo «l’Afrodite nera può stare altrettanto bene a lato delle Erinni, tra le quali essa viene pure contata» (73-74). Afrodite domina su tutti gli animali (umani compresi) e su tutti gli dèi (tranne Atena, Artemide ed Estia). Essa costringe persino Zeus a desiderare donne mortali, ad amare anche la propria sposa-sorella Era e poi una miriade di donne, di enti, di forze, con le quali si unisce nei modi più impensati e fantasiosi e dalle quali genera altre forze, eroi, dèi.
Le Erinni e Afrodite limitano e compiono il potere di Zeus, della Luce. Le Erinni anch’esse generate dalle gocce di sangue di Urano. Le Erinni figlie della Notte, della Terra, dell’Oscuro.

Il politeismo narrativo, le continue metamorfosi, le trasformazioni, il diventare e il tempo generano racconti vorticosi, producono nomi, celebrano matrimoni, fioriscono figli, si trasformano in stelle, nel continuo catasterismo della religione greca che colloca nella notte stellata molti personaggi rendendoli così immortali e insieme visibili.
Una delle più belle costellazioni invernali, Orione, è appunto un catasterismo, insieme al suo cane, allo scorpione che lo ha punto, agli altri animali dei quali il cacciatore primordiale va sempre all’inseguimento, ogni notte.
Il politeismo narrativo inventa la vergine madre ben prima che lo facesse la saga biblica; la storia delle nozze di Atena narra infatti che la dea «non perdette la sua verginità, ma dopo le quali [nozze] affida ugualmente un bambino alle figlie di Cecrope, re della sua amata città di Atene» (107).
Il politeismo antropologico attribuisce a disgrazia la donna (come accade anche in Genesi), tanto da definire Pandora, plasmata da Zeus per punire Prometeo e gli umani, con la formula di un «bel male […] insidia pericolosa, di fronte alla quale gli uomini sono inermi. Da essa discende la generazione delle donne. Un male di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia» (182).
Il vortice narrativo arriva al suo culmine nell’unione di Zeus con Persefone, figlia sua e di sua madre Rea o forse di Demetra (Diodoro Siculo, 3, 64. 1); unendosi alla figlia Zeus generò Dioniso, nella prima delle tre nascite del dio; «entrambi gli dèi, Zeus, il seduttore di Persefone, e Dioniso, figlio dei due, portavano anche il nome Zagreo» (101).

Dioniso è il culmine, è il fascino, è il dio smembrato e divorato dalle forze oscure ancora potenti, punite e rese fumo da Zeus. Da tale caligine fummo generati noi, gli umani, che dunque siamo tenebra titanica e luce dionisiaca.
I racconti di Dioniso che rende vani gli sforzi dei pirati di rapirlo, trasformando la loro nave in una vite e loro in delfini; di Dioniso che punisce tremendamente Penteo facendolo sbranare dalla sua stessa madre; di Dioniso che nasce ancora due volte da Semele e dal proprio cuore/fallo bollito, tutto questo è la meraviglia ironica, serissima e cosmica che fa del mito greco la spiegazione più profonda e cangiante del mondo profondo e cangiante nel quale abitiamo e che siamo.

Note
1. Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia (1951-1958), trad. di Vanda Tedeschi, il Saggiatore 1963, p. 17. Indicherò tra parentesi nel testo i numeri di pagina delle successive citazioni.
2. Elvia Giudice, Il Cratere del Pittore di Cadmo 1093: pittura vascolare e società, in Ostraka. Rivista di antichità, anno XXX. Numero 21, 2021, p. 72.

Un’ermeneutica della finitudine

Stefano Piazzese
Ermeneutica della finitudine
La filosofia di Alberto Giovanni Biuso
in Dialoghi Mediterranei
n. 60, marzo-aprile 2023
pagine 583-590

Indice
-Ermeneutica filosofica
-Essere è tempo
-La verità
-La differenza
-Corpo e storia
-Finitudine
-Teologia e semantica

«In Biuso l’ermeneutica è un tentativo umano di comprendere il mondo e la vita a partire dalla dimensione temporale, al di fuori della quale nessun ente può apparire – ad parere, esser manifesto, ergersi allo sguardo altrui, presentificarsi, farsi vedere –, e dove Gegenstand e Bedeutung, dato e significato, diventano i costrutti fenomenologici e teoretici che hanno luogo nella condizione trascendentale di tutto ciò che appare, ovvero il tempo».
Ringrazio Stefano Piazzese per questo percorso dentro i miei libri a partire dal dispositivo ermeneutico. I titoli con i quali l’autore ha scandito il testo credo che descrivano con efficacia alcuni degli elementi più costanti del mio tentativo di pensiero.

Gloria

Hans Urs Von Balthasar
Gloria. Un’estetica teologica
Volume IV: Nello spazio della metafisica. L’antichità
(Herrlichkeit. Im Raum der Metaphysik. I Altertum, 1965)
Trad. di Guido Sommavilla
Jaca Book, 2017
Pagine 379

La Herrlichkeit, la gloria, «non si può definire» (p. 19). Così comincia il percorso di Hans Urs von Balthasar nello spazio della metafisica antica, da Omero a Tommaso d’Aquino. Eppure lungo l’itinerario le definizioni della gloria si moltiplicano, partendo sempre e pervenendo ogni volta ai trascendentali, vale a dire alle proprietà dell’essere che lo coinvolgono e lo definiscono nella sua totalità, essendo sempre in reciproca relazione, non delimitandosi a vicenda ma costituendo l’uno con l’altro l’universale che traspare in ogni ente, evento, processo e proprietà particolare, dandogli significato, esistenza e luce. Sono quattro gli universali così intesi dalla Scolastica sul fondamento della filosofia greca: l’uno, il vero, il bene, il bello.

Prima che nel XVIII secolo, con Baumgarten e Kant, l’estetica venisse ricondotta e ridotta «a una scienza  regionalmente delimitata, essa era – vista nel complesso della tradizione – un aspetto della metafisica in quanto scienza dell’essere dell’ente» (26), il quale a sua volta rinvia all’assoluto, che per il pensiero cristiano è Dio. Il tentativo del teologo svizzero è difendere dunque il bello come sostanza ed espressione del divino cristiano filosoficamente inteso: «Come ultimo trascendentale il bello custodisce e sigilla gli altri: nulla di vero e di buono alla lunga senza la graziosa luce di quello che viene donato senza uno scopo» (42).
A questo fine, l’indagine assume un andamento che attraversa lo spazio storico  – come detto, dai Greci al culmine della Scolastica – poiché soltanto se implementato in un particolare l’universale è reale, e attraversa lo spazio metafisico, poiché soltanto se hanno le loro radici nell’essere gli enti ed eventi particolari possiedono senso e sostanza.
Il ‘Dio’ di von Balthasar è dunque una forma prima di tutto estetica, è un’esperienza artistica dalla quale soltanto può irradiarsi la gloria. Il percorso è lo stesso di ogni avvertita e colta teologia cristiana: un consapevole, dotto ma anche disperato tentativo di ancorarsi ai Greci, vedendo in loro una continuità germinale e fondante con il cristianesimo. A questo scopo l’autore respinge ogni volontà di voler ‘depurare’ la fede cristiana dalla filosofia e dal mito, ogni pretesa di « voler essere più biblici della bibbia e più cristiani di Cristo» (224), poiché, in questo modo, del cristianesimo non rimarrebbe quasi nulla, soltanto cascami settari, fanatici, semplicemente e soltanto filantropici. Una domanda posta a proposito di Giovanni Eriugena vale per tutto il libro, vale per l’intera sua estetica teologica: «Tutto questo è biblicamente tollerabile, oppure qui l’antica forma filosofica di pensiero ha trionfato definitivamente sui contenuti biblici?» (316). Interrogativo ammirevole nella sua sincera chiarezza, tanto più che von Balthasar ammette che «visto nel complesso il cristianesimo ha pensato se stesso soprattutto con categorie straniere» (291), vale a dire con le categorie dei Greci.

Per comprendere la portata e il fallimento del tentativo, ricordiamo che questo teologo – nato nel 1905 e morto nel 1988, due giorni prima di ricevere la porpora cardinalizia – è stato uno degli uomini più colti del Novecento, che ha ben compreso come il cristianesimo possa continuare a vivere soltanto in un dialogo reale con il proprio tempo, basato però non sulla sua trasformazione in un’agenzia filantropica (cosa che appunto lo sta facendo morire) ma continuando il dialogo  con la cultura greca e romana, che per il cristianesimo è costitutivo e fondante. Egli costruisce però tale dialogo da gesuita (fu membro dell’Ordine sino al 1956), dando sempre l’impressione che sia il cristianesimo a gettare luce sulla filosofia, quando è accaduto e continua ad accadere esattamente il contrario. Leggendo questa e altre sue opere appare infatti evidente che la persona del Nazareno non c’entra nulla con la teologia cristiana.
Il fondamentale tentativo di ancorare la fede cristiana nel linguaggio teoretico e mitologico dei Greci e dei Romani (soprattutto Virgilio e il neoplatonismo) spiega anche la lettura tendenzialmente monoteistica, e dunque arbitraria, che von Balthasar attua di Omero: «In nessun poema della letteratura mondiale Dio viene pensato in modo così incessante ad ogni situazione della vita» (52, il corsivo è mio). E tuttavia il teologo è capace di leggere Omero con una profondità, finezza ed empatia straordinarie. Al poeta greco «fu accordato […] il dono della bellezza per tempi illimitati» (69); «con Omero fu deposta nella culla dell’occidente» una «‘inconcepibile grazia e bellezza’» (75). Questa capacità di sentire i Greci – Omero ma anche i tragici, i lirici, i filosofi- conduce von Balthasar ad ammettere che il Prometeo di Eschilo si rivolge alle potenze della materia, ben oltre i nomi degli dèi antropomorfici «rivolgendosi non agli dèi che gli hanno inflitto il tormento, ma alle potenze cosmiche e più antiche (a quelle precisamente che per Hölderlin rappresentano il fondo primordiale di ogni divino poi formato e definito): al santo Etere, al Vento spirante, alle Sorgenti e all’ondoso Mare, alla Terra Madre di tutti i viventi e al Sole che illumina ogni cosa» (109-110, il riferimento è a Prom. Vv. 88-91), ad ammettere quindi che il ‘Dio’ greco è il cosmo, è la materiatempo.

L’ammissione diventa piena e teoretica nelle indagini su Platone, Aristotele, i neoplatonici, per i quali tutti il dio, la perfezione, la bellezza, la gloria è costituita dal cosmo, dalla materia infinita e perfetta dei cieli. Andando quindi ben al di là dell’effimero umano, della sua patetica presunzione di stare al centro quando invece l’umano è semplice periferia.
In Plotino la vista del cielo conferma la divinità del mondo, così come «Aristotele vede nell’ordine celeste immediatamente rivelarsi il divino» (206) e prima ancora l’Epinomide platonico pone al centro dell’essere la «gloria dell’ordine astrale» (196). Tutto il Timeo, poi, costituisce la bella, significativa e ultima soluzione platonica al male dell’umanità e della vita: andare μετά, oltre, e guardare gli astri, il cosmo, il loro essere immuni da ogni imperfezione, lamento e dolore. Per lo sguardo di Platone «l’anima singola, per restaurare equilibri (ἰσορρόπο) perturbati tra se stessa e il corpo o in se stessa, non ha bisogno che di guardare al cosmo, che è sempre in perfetto divino equilibrio, per avere un modello da imitare» (194).
Anche se il cristiano von Balthasar vede nella «grande vendetta come la compiono Ecuba, Medea e alla fine un’altra volta Elettra ed Oreste […] suoni di paganesimo selvaggio» (132), il teologo von Balthasar sa bene che anche questa vendetta si radica nella potenza teoretica dei Greci ed è anch’essa espressione del carisma proprio del maggiore tra i filosofi cristiani dopo Agostino. Tommaso d’Aquino scrive infatti (nel De Malo, 4, 2 obj 17) che la «maxima pulchritudo humanae naturae consistit in splendore scientiae» (361).
Su tale splendore aleggia ovunque la potenza del tempo «che copre tutto ciò che è svelato e svela tutto ciò che è nascosto» (118), tempo la cui «ardente pienezza mitica, la qualità della gloria, può essere paragonata soltanto con la qualità sacramentale che la assume e la supera» (102). Su tale splendore si innesta ἀλήθεια, la quale «significa appunto lo stesso che: realtà come essa è» (159). Su tale splendore domina la gloria del divenire, la materia-luce che per i teologi di Chartres è «tra le cose del mondo infraspirituale, la cosa massimamente simile allo spirito, anzi a Dio» (334), la materialuce che è Dio.

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