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Eleusi. Una negazione

Piccolo Teatro – Milano
Eleusi
di Davide Enia
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
10-11 giugno 2023

Dalle ore 21.00 del 10 giugno 2023 alle ore 21.00 del giorno successivo in due delle sedi del Piccolo Teatro di Milano è andata in scena una recitazione collettiva che ha visto al Teatro Studio l’alternarsi di 32 cori mentre una voce registrata raccontava fatti di violenza, senza nomi di persone e di luoghi ma assai probabilmente riferiti ai viaggi dei migranti dall’Africa del Nord all’Europa; al Teatro Grassi a ogni inizio d’ora e per una ventina di minuti sono stati messi in scena alcuni brevi testi dedicati a violenze, torture, sottomissioni.
Che cosa c’entra una simile operazione con il titolo Eleusi? Che cosa hanno a che fare le espressioni della ὕβρις contemporanea con il rito greco? Nulla, non hanno in comune nulla.
I Greci non erano moralmente buoni ma antropologicamente disincantati. I Greci non erano misericordiosi ma feroci. I Greci non erano accoglienti: l’ospite per loro è sacro come individuo, non certo come masse di popolazioni, all’arrivo delle quali rispondevano ovviamente con le armi. I Greci non erano sentimentali ma leggevano gli eventi alla luce del cosmo; il Timeo è una delle più profonde testimonianze di questo atteggiamento ma è l’intera cultura greca a esserne pervasa. I Greci, in una parola, non hanno nulla a che fare con le miserie, la viltà, le ipocrisie, il conformismo e la sottomissione che intridono le società contemporanee e che emergono in modo evidente in operazioni come questa realizzata dal Piccolo Teatro. Il quale è transitato negli ultimi anni da Brecht e da un progetto di emancipazione  politica a una pressoché completa omologazione alle mode morali del presente.
I testi letti mentre i cori cantavano tendono, nella loro crudeltà, a suscitare emozione e, probabilmente, a convincere che i migranti vanno accolti tutti. Ma è proprio questa stolta convinzione una delle principali cause delle crudeltà subite dai migranti. Ne ho parlato in passato anche in questo stesso sito sulla base di testi scientifici ben documentati, come ad esempio l’indagine di grande valore dal titolo La ruée vers l’Europe. La jeune Afrique en route pour le Vieux Continent (Grasset, Paris 2018, tradotta in italiano da Einaudi).
A favorire violenza, annegati e morti sono le ONG che dispongono di grandi risorse finanziarie (provenienti da dove?), che con un sistema di collegamenti satellitari conoscono le rotte delle imbarcazioni prima ancora che esse si mettano in mare, che sono complici degli scafisti, dei trafficanti di persone umane; ONG che sono una delle espressioni contemporanee del colonialismo e dello schiavismo che depauperano il continente africano del ceto medio (i più ‘poveri’ non hanno neppure i soldi per tentare il viaggio) e producono conflitti etnici in Europa. Quei conflitti che poi le stesse ONG e i cittadini ‘solidali, inclusivi e accoglienti’ denunciano con la parola-grimaldello razzismo. A essere ‘razzisti’ sono coloro che ritengono l’Africa un luogo di inferiorità culturale dal quale fuggire. Il colonialismo ha molte forme e le ONG ‘in soccorso dei migranti’ sono una di esse. Più in generale è in atto – mediante televisione, giornali, teatri, social network- una tendenza alla semplificazione emotiva e sentimentale di complessi problemi sociali e politici il cui esito è l’aggravarsi di tali problemi.
Al contrario, se si vuole fare lo sforzo di capire al di là dello spettacolo emotivo, il flusso senza interruzioni di migranti dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa conferma le tesi marxiste a proposito dell’«esercito industriale di riserva», la cui disponibilità serve ad abbassare i salari e a incrementare il plusvalore: «Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial]» (Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4).
Ma perché porre questa propaganda a favore della globalizzazione capitalistica sotto il titolo Eleusi? Una risposta superficiale consiste nel ritenere che chi ha scelto il titolo non sappia nulla di Eleusi e della società greca o che abbia cercato di trovare un titolo che funga da tipico ‘specchietto per le allodole’. Una risposta forse più profonda potrebbe far riferimento al bisogno di nobilitare la violenza contemporanea ponendola sotto l’egida di una civiltà che viene inconsciamente percepita come superiore. Ma proprio per questo i Greci non possono essere strumentalizzati nel modo sfacciato e miserabile di Eleusi.
«Come a Eleusi, così a Samotracia, Dioniso è dio segreto dei Misteri» (Angelo Tonelli, Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia antica , Feltrinelli 2021, p. 292) durante i quali si venera anche il fallo e ci si immerge in un rito di iniziazione nient’affatto ‘inclusivo’ ma riservato a pochi. In La sapienza greca Giorgio Colli scrive infatti che «l’accesso al peribolo sacro di Eleusi era proibito ai non iniziati, a costo di pene gravissime», un brano citato nel programma di sala (p. 37), così come altri testi (di Mircea Eliade, ad esempio) che però non hanno alcun collegamento con questa operazione teatrale e anzi ne rappresentano la negazione.
I misteri di Eleusi erano volti a rendere l’umano una sola cosa con Γῆ e con Demetra, con la Madre Terra e con il suo perenne rinascere. Che cosa ha a che fare tutto questo con la dismisura contemporanea delle azioni e dei sentimenti? La motivazione data da Davide Enia è la seguente: «Si chiama Eleusi, perché, nell’antica Grecia, quella era la città dove ci si recava in pellegrinaggio rituale, e anche qui ci si sposta tra un teatro e l’altro per accostarsi a un “mistero”» (programma di sala, p. 7). Una motivazione inaccettabile nella sua pura esteriorità analogica. Che lascino in pace i Greci, una buona volta, e chiamino le loro operazioni intrise di ‘accoglienza’ con i nomi contemporanei del dominio e della menzogna.

La festa dei morti

Piccolo Teatro Studio – Milano
Pupo di zucchero. La festa dei morti
liberamente ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile
testo, regia e costumi Emma Dante
con Carmine Maringola (il Vecchio), Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgro (Viola), Federica Greco (Primula), Sandro Maria Campagna (Pedro), Giuseppe Lino (Papà), Stephanie Taillandier (Mammina), Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout (Pasqualino), Martina Caracappa (zia Rita), Valter Sarzi Sartori (zio Antonio)
sculture Cesare Inzerillo
produzione Sud Costa Occidentale
sino al 23 aprile 2023

 

Non riparo o giaciglio,
La prima casa costruita fu la tomba
Tumulo fossa monumento
Costruire fu memoria, ammonimento
(Eugenio Mazzarella, Cerimoniale, Crocetti editore 2023, p. 51)

Qualche anno fa avevo ricordato Gli avi, la festa. Gli avi che venivano a trovare me e le mie sorelle nella notte tra il primo e il due di novembre, i regali che lasciavano – rammento un trenino elettrico e un fucile -, la festa che questi doni creavano in casa, la gioia nei bambini, il sorriso compiaciuto dei genitori. E noi a non chiederci come facessero i morti a essere ancora vivi, a tornare tra noi come un parente lontano fa da un lungo viaggio. Perché la continuità tra i vivi e i morti è un dato antropologico che tutte le culture conosciute (almeno quelle che io conosco) hanno non soltanto affermato ma anche posto come uno dei fondamenti della propria identità.
Perché non siamo atomi irrelati nel vuoto della materia ma parte di una materia indistruttibile, come le leggi della termodinamica ci mostrano. Perché non siamo individui senza radici e vaganti in un mondo ridotto a mercato ma persone che germinano dalle comunità che ci hanno generati e accolti, che ci hanno trasmesso una lingua, un tratto somatico, un colore della pelle, un insieme di abitudini quotidiane e di cadenze collettive. Soltanto la superficiale barbarie di un capitalismo senza terra – o meglio, la cui patria sono i fantastilioni di Disney – può pensare seriamente che esistano soltanto corpimente nel qui e ora e non flussi di vite nei millenni geologici, biologici, storici.
Basta quindi uno dei racconti di Giambattista Basile (1566-1632) per far tornare in vita le sorelle, i genitori, gli zii che la profondità di un vecchio rammemora mentre ormai da solo in una casa vuota ricorda i suoi affetti. E queste nove persone lo accompagnano, lo aiutano, lo disorientano e lo indirizzano mentre tenta di plasmare un pupo di zucchero da offrire ai morti che ritornano, da condividere con loro. «Durante il rituale, in quella notte, era come se mangiando quei dolci ci si cibasse delle anime dei defunti» (Programma di sala, p. 4) in una continuità materica senza la quale rimane soltanto l’orrore.
Ed è infatti solo questo che va rimanendo in una civiltà che ha uno dei propri emblemi nella paura della morte diventata patologica, universale e insensata. Una paura che spinge alla servitù volontaria, all’imprudenza sanitaria, a un feroce conformismo sociale. I ritornanti del XXI secolo sono gli zombi della saga di George Romero, le vittime banalizzate della cronaca nera che infesta l’informazione, i rimossi dal tessuto quotidiano. La morte trasformata in orrore, in tabù, in banalità è davvero un segno di declino.
E invece «nello spettacolo, sono presenti dieci sculture create da Cesare Inzerillo che mostrano il corpo osceno della morte. In Pupo di zucchero la morte non è un tabù, non è scandalosa: ciò che il vecchio vede e ci mostra è una parte inscindibile della sua vita. La cosa non può che intenerirci. La stanza arredata dai ricordi diventa una sala da ballo, dove i morti, ritrovando le loro abitudini, festeggiano la vita» (Ivi, p. 7).
Una festa che Emma Dante declina nelle modalità verso le quali da tempo è avviata: non più soltanto teatro di parola ma una Gesamtkunstwerke, un’opera d’arte totale, nella quale a prevalere sono le musiche e i corpi che danzano o che in ogni caso scandiscono nel ritmo i loro gesti.
In Pupo di zucchero non c’è forse la tonalità straniante e ribelle di altre opere di Emma Dante ma c’è uno struggente affetto verso i legami che ci intessono.

[foto di apertura di Ivan Nocera]

Narciso

Piccolo Teatro Studio – Milano
Carbonio
Scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano
Con Federica Fracassi e Mario Pirrello
Scene di Marco Rossi
Sino al 3 luglio 2022

Il carbonio – C – si trova dappertutto nell’universo ma qui è assunto come sinonimo di vita terrestre. La vita degli animali, la vita delle piante, la vita degli elementi atmosferici, la vita insomma. Ma per la prima volta un essere umano ha un contatto (di due minuti ma ce l’ha) con qualcosa che non è fatto di carbonio. E diventa quindi impossibile spiegare che cosa sia «perché non abbiamo termini di paragone». Un’esperta -non si sa se psicologa, chimica, spia, magistrato- gli pone domande su domande per tentare di comprendere di che cosa si sia trattato e quali potrebbero essere le conseguenze di quell’incontro, che pure è stato ripreso da moltissimi video. Ma nulla si riesce a capire e a sapere.
Scavando scavando tuttavia emergono possibilità e spiegazioni chiaramente ispirate all’ipotesi del multiverso formulata dal fisico Hugh Everett, della quale un altro fisico, Lee Smolin, dice giustamente che «non potrà mai essere verificata o falsificata, il che pone questa fantasia al di là dei confini della scienza. Ciò nonostante, non pochi fisici e matematici stimati difendono questa idea» (La rivoluzione incompiuta di Einstein. La ricerca di ciò che c’è al di là dei quanti, trad. di S. Frediani, Einaudi 2020, p. XVII). Si tratta infatti di una «interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica» per la quale gli eventi hanno tutti dei sviluppi diversi e alternativi rispetto a quelli che vediamo nella nostra realtà, e tali sviluppi creano un numero infinito di mondi; «affinché la cosa funzioni, ciascuna versione di un osservatore non deve avere modo di comunicare con gli altri: i rami devono essere autonomi» (Ivi, p. 122). Il desiderio del protagonista che un preciso evento abbia avuto sviluppi e conseguenze diverse da quelle che ha avuto sembra coniugarsi all’incontro con l’alieno, producendo una frattura nel reale che è l’inevitabile premessa dell’assurdo. Scrive infatti ancora Smolin che «la conseguenza più provocatoria e, per me, sgradevole dell’ipotesi di Everett è che dobbiamo credere che ognuno di noi abbia un numero infinito di copie, ciascuna viva e cosciente esattamente come noi. Fa pensare alla fantascienza più che alla scienza, ma sembra proprio che sia una conseguenza diretta dell’ipotesi di Everett» (Ivi, p. 144). In questo modo infatti siamo noi a nostra volta una delle tante copie. La realtà si dissolve.
A tale insensatezza fisico-chimica, Pier Lorenzo Pisano aggiunge riferimenti politici (uno, che tra qualche tempo diventerà incomprensibile, anche a Trump), drammi familiari, tracimazioni psicologiche. Insomma un minestrone drammaturgico che alla fine rende non soltanto incoerente il risultato ma a tratti lo fa anche noioso.
Lo spettacolo ha una struttura duplice: al dialogo serrato tra Lui e Lei si alterna la presenza dello stesso autore che fa vedere e spiega alcune delle immagini e dei simboli inviati nello spazio interplanetario (e  si prevede poi anche oltre) con le due sonde Voyager nel 1977. Pisano fa giustamente notare con ironia la bruttezza e l’incomprensibilità di molte di queste immagini, il cui scopo dovrebbe consistere nel comunicare a una ipotetica civiltà aliena il modo in cui siamo fatti ed esistiamo. Ancora una volta presupponendo che a tali civiltà importi sapere qualcosa di noi e che adottino dei codici compatibili con i nostri. «Vanitas vanitatum homo» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, «Opere» IV/3, Adelphi 1967, af. 12, p. 141). Si potrebbe definire così Homo sapiens: mammifero di grossa taglia, quasi interamente glabro, caratterizzato da un complesso apparato fonatorio-linguistico e con tendenze fortemente narcisistiche.
Per cercare di temperare il narcisismo del ‘carbonio’ umano – un poco patetico e un poco patologico – si può ricordare un’altra saggia osservazione nietzscheana, secondo la quale «Hüten wir uns, zu sagen, dass Tod dem Leben entgegengesetzt sei. Das Lebende ist nur eine Art des Todten, und eine sehr seltene Art (Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara)» (La gaia scienza, trad. di F. Masini, «Opere» V/2, af. 109, p. 118).
Si può aggiungere, una varietà alquanto malaticcia.

Infinito

Piccolo Teatro Studio – Milano
De infinito universo
Testo, ideazione visiva e regia Filippo Ferraresi
Scene Guido Buganza
Luci Claudio De Pace
Musiche Lucio Leonardi (PLUHM)
con Gabriele Portoghese, Elena Rivoltini, Jérémy Juan Willi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
coproduzione Théâtre National Wallonie – Bruxelles
Sino al 13 febbraio 2022

«Non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente, luogo e cielo». Lo scrive Giordano Bruno in De l’infinito, universo e mondi, un dialogo del 1684 (Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici, a cura di G. Gentile e G. Aquilecchia, Sansoni 1985, I volume, p. 463).
Lo spettacolo in scena al Piccolo di Milano assume di Bruno la prospettiva e il coraggio. La prospettiva è infatti quella dell’infinità del tempo, dello spazio e della materia. E dunque l’infinità degli enti, degli eventi e dei processi. Il coraggio è l’elemento più proprio di questo tentativo di tradurre il pensiero in gesti. Filippo Ferraresi cerca infatti di far recitare gli oggetti, far recitare i concetti. Lo fa attraverso fili che si tendono, sfere e cerchi che danzano, maschere apotropaiche, luci generate dai moti, e mediante i movimenti atletici e di danza di Jérémy Juan Willi, che veramente sembra volteggiare nell’aria, muoversi con la leggerezza di un uccello, comporre geroglifici con il corpo.
De infinito universo ha una struttura triadica. Inizia con una lezione di astrofisica chiara e coinvolgente, durante la quale a poco a poco emerge la smisurata misura della materia cosmica e l’essere nulla della Terra in essa. Appare poi un pastore che sente, pensa e recita il Canto notturno di Leopardi, dall’iniziale interrogativo  «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi che fai / Silenziosa luna?», transitando per il nascere dell’uomo a fatica, «ed è rischio di morte il nascimento», attraversando la «stanza smisurata e superba» dell’universo, sino al conclusivo ed esatto «è funesto a chi nasce il dì natale». Si chiude con un’attrice che canta note gelide e antiche, trasformandosi poi nella collaboratrice di un potente personaggio politico -l’attuale e infausta presidente della Commissione Europea- al quale chiede se ci si possa accontentare dei bilanci finanziari trimestrali e della crescita o meno del PIL o se si debba cercare un significato diverso al nostro stare al mondo. Alla signora che dirige assai male il governo dell’UE vengono rivolte altre critiche che mi ha sorpreso ascoltare in uno spettacolo messo in scena in uno dei luoghi più istituzionali di Milano.
I tre monologhi sono intersecati dai movimenti atletici del danzatore e da un insieme bellissimo e necessario di luci che fendono lo spazio, che sorgono dalla terra, che indicano e insieme si dissolvono, esattamente come fa ogni luce nel mondo.
Nella lezione dell’astrofisico, nell’interrogare di Leopardi, nella lettera ai potenti, si percepisce tutta la forza della materia e del tempo, dell’entropia e della dissoluzione. Un «teatro transdisciplinare», come lo definisce l’autore/regista, fatto di testo, immagini, energia dei corpi.
Al centro e ovunque l’infinito della materia, uno dei concetti fondamentali della filosofia e delle scienze che vennero dopo Giordano Bruno. Fu infatti in gran parte il concetto bruniano di infinito a mettere in crisi il paradigma antropocentrico – confermato per millenni dalla cosmologia tolemaica e aristotelica – e poi ad ampliare gli spazi della mente e della materia verso misure impreviste e impensabili.
Se l’astronomia antica dava conforto alla mortalità umana ponendo la nostra specie in ogni caso al centro del cosmo, la scienza contemporanea ha aperto agli astronomi e a tutti gli umani «il regno delle galassie e relegato la Via Lattea a semplice esemplare di un universo isola» (Massimo Capaccioli, L’incanto di Urania. Venticinque secoli di esplorazione del cielo, Carocci 2020, p. 278), dentro il quale l’esistenza e il millenario lavoro delle menti coscienti non hanno più peso e significato del rotolare di un sasso sulla Luna.
Pervenire a tale consapevolezza, essere lieti dei propri limiti dentro la perfezione del cosmo, anche questo e credo soprattutto questo sia la filosofia.

Un comico niente

Piccolo Teatro Studio – Milano
Edificio 3
Storia di un intento assurdo

Scritto e diretto da Claudio Tolcachir
Traduzione di Rosaria Ruffini
Con: Rosario Lisma (Ettore), Stella Piccioni (Sofia), Valentina Picello (Moni), Giorgia Senesi (Sandra), Emanuele Turetta (Manuel)
Ottobre-Novembre 2021

L’Edificio 3 è quasi del tutto vuoto, i suoi uffici si sono trasferiti altrove. Luci e telefoni non sempre funzionano. Rimangono soltanto tre impiegati a svolgere il loro lavoro, ad arrivare a volte in ritardo (Sandra), a decidere di viverci non avendo più una casa (Moni), a presentarsi di nuovo dopo la morte della madre ottantenne (Ettore).
Moni si occupa freneticamente delle vite degli altri; Sandra desidera a tutti i costi un bambino, con il marito che forse ha o in ogni caso con chiunque serva allo scopo; Ettore appare molto timido ma vive relazioni assai forti, la cui natura emerge mano a mano. I tre personaggi reciprocamente si fidano, diffidano, hanno bisogno l’uno dell’altro e tengono sempre l’altro a distanza.
L’edificio è condiviso da una giovane coppia. Lei (Sofia) perdutamente innamorata, lui (Manuel) oppresso da tanto amore e in cerca di altro.
Sulla scena i tre impiegati e la coppia condividono gli stessi spazi senza vedersi e senza incrociarsi. Spazi che a volte si aprono a bar, a ristoranti, a studi medici. Arriva il momento in cui queste cinque vite si incontrano, convergono, scandiscono le voci, le storie, i dolori e le rabbie, in una partitura che diventa sempre più una sola, la stessa, e che tuttavia conferma il fatto che ciascuno sta solo sul cuor della terra.
Tolcachir attinge alla vita quotidiana degli umani per cogliere la dimensione insieme tragica e comica dell’esistenza individuale e collettiva. Edificio 3 è una commedia spassosa ed è un dramma dai risvolti anche feroci. Davvero notevole è che queste due dimensioni risultino inseparabili. Lo stesso autore-regista afferma di essere «molto contento quando di un lavoro come Edificio 3 uno spettatore mi dice ‘sono morto dal ridere’, e un altro, appena dietro di lui, ‘è tristissimo’ perché entrambe le cose sono vere» (Programma di sala, p. 12). Lo confermo non soltanto come spettatore ma per aver sentito le medesime affermazioni alla fine dello spettacolo, mentre si usciva dal Teatro Studio.
La drammaturgia argentina contemporanea è capace di reinventare il teatro rimanendo fedele al passato e traendo dal presente l’assurdo e le contraddizioni. Le due opere di Rafael Spregelburd che ho visto anni fa sempre al Piccolo – La modestia e Il panico – hanno la capacità di collocare su un piano universale e persino esoterico il tessuto quotidiano delle vite. Tolcachir mostra e tocca l’insignificanza, sfiora il niente della vita, trasfigurandolo in un profondo per quanto amaro sorriso. Entrambi richiedono la partecipazione attenta e attiva da parte dello spettatore, al quale viene affidato il compito di costruire il proprio percorso dentro il testo e in ciò che vede.
Se Edificio 3 sfiora appunto il nulla è perché lo sa fare con il talento dei suoi cinque interpreti, le cui battute e voci devono incastrarsi perfettamente le une con le altre, pena la cacofonia. E invece tutto appare ed è plausibile poiché ingiudicabile, alla fine, è il lutto della vita.
Lo spettacolo era già pronto nell’autunno del 2020. Fu proibito metterlo in scena, come per tutte le altre opere teatrali, musicali, cinematografiche. Fu proibito da soggetti e situazioni molto più fittizi e più assurdi di quelli che danno vita a Edificio 3.
Rispondendo a una domanda sulla natura del teatro, l’autore così risponde: «Il teatro, per quello che è, per i motivi per cui ci piace farlo, è insostituibile. Io non riesco a vedere uno spettacolo in video: lo faccio per motivi di studio, perché si tratta magari di un classico del repertorio che non potrei a approcciare diversamente, ma in altri contesti mi rifiuto.[…] Per noi gente di teatro, non poter fare lo spettacolo ascoltando il respiro del pubblico è disperante» (Programma di sala, p. 10). La messa in scena del testo fa comprendere ancor meglio tali parole. Che condivido e che confermo anche per la mia professione. Una lezione «a distanza», una lezione telematica, è uno strumento informativo e nozionistico. Non è una lezione. Una delle ragioni è quella che indicai in un articolo pubblicato nel 2008 dalla rivista di pedagogia Nuova Secondaria, il cui titolo è -appunto- Il docente come attore.

«Plaudite, amici»

Piccolo Teatro Studio – Milano
Mangiafoco
Drammaturgia e regia di Roberto Latini
Elementi scenici: Marco Rossi
Con: Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Compagnia Lombardi-Tiezzi, Fondazione Matera Basilicata 2019, Associazione Basilicata 1799

«Acta est fabula, plaudite!». Queste le parole che Svetonio fa dire a Ottaviano Augusto morente. Alla conclusione della fabula, della commedia dell’esistenza, possiamo applaudire chi l’ha recitata.
Del teatro Roberto Latini afferma che «qui è dove fingiamo veramente e le bugie son tutte vere» (Programma di sala, p. 12). Qui. Ora. Sempre. Con i loro volti estremamente mobili, con gli occhi espressivi, con le mani nell’aria, con il naso e le dita a percepire l’ambiente, gli esseri umani sono tutti e sin dall’inizio attori.
È un’ovvietà sociologica che se fossimo sinceri, se davvero dicessimo sempre ciò che pensiamo degli altri e delle situazioni, ci saremmo estinti da tempo in una guerra di tutti contro tutti ancor più feroce di quella che ogni giorno viviamo. Chi invoca la trasparenza fra gli umani (Rousseau, ad esempio) o non sa quel che dice o è particolarmente maligno. Siamo opachi per fortuna, capaci di nascondere i nostri pensieri dietro la fronte delle nostre recite sociali, affettive, intellettuali. Le forme ci salvano, ci salva la mente e la sua costante menzogna sul mondo.
Anche per questo il teatro va al di là dell’immagine ed è sempre immaginazione; è costruzione, al di là della percezione; oltre l’empiria si apre all’αλήϑεια, al disvelamento freddo e luminoso del mondo. Mangiafoco è assai più che metateatro, è l’intreccio di racconti, storie, autobiografie, momenti testuali, movimenti appresi e movimenti restituiti. Il naso di Pinocchio è un segno dell’intera vita individuale e collettiva. A nessuno, infatti, mentiamo con tanta convinzione quanto a noi stessi. Per poter vivere ancora il teatro del mondo.
La freddezza che caratterizzava il precedente spettacolo di Roberto Latini – Il Teatro comico di Goldoni – acquista qui il calore delle vere vite degli attori che raccontano di come sono arrivati al teatro. Vere vite? La verità si cristallizza nei blocchi di ghiaccio che rimangono in scena, si scioglie nel flusso irreversibile della materia e del tempo.

Return

Piccolo Teatro Studio – Milano
In case of loss please return to…
Creazione Kóka & Panú (Konstandina Efthimiadou & Panagiotis Manouilidis)
Coreografia Kóka Music
Composizioni Panú
Interpretato da Kóka & Panú

È nel cuore dei Greci il tempo. Che siano antichi o viventi. Konstandina Efthimiadou & Panagiotis Manouilidis attingono alla storia della loro terra per generare il movimento della mente; attingono allo squadernarsi del divenire per costruire luoghi; attingono alle infinite ritornanti narrazioni elleniche per raccontare costrizioni e liberazioni, andate e ritorni, oscurità e illuminazioni. Lo fanno con i mezzi essenziali dei loro corpi dispiegati, arrancanti, costretti, liberati nello spazio. Corpi ai quali aggiungono qualche oggetto, poche testimonianze della vita materiale -corde, stracci, cellophane- con le quali costruiscono nel silenzio relazioni, domini, distanze, senso. Un violoncello elettrico fa da coro alle luci che si muovono nel nero completo della sala. Luci che formano lettere, figure, corridoi, profondità, enigmi. Si libra in tutto questo il corpo minuto e forte della danzatrice.
«Ich würde nur an einen Gott glauben, der zu tanzen verstünde. […] Ich habe gehen gelernt: seitdem lasse ich mich laufen. Ich habe fliegen gelernt: seitdem will ich nicht erst gestossen sein, um von der Stelle zu kommen. Jetzt bin ich leicht, jetzt fliege ich, jetzt sehe ich mich unter mir, jetzt tanzt ein Gott durch mich»1, ‘Potrei credere soltanto a un dio capace di danzare. […] Ho imparato ad andare: da allora sono diventato corsa. Ho imparato a volare: da allora non voglio essere spinto per muovermi. Ora sono lieve, ora volo, ora mi vedo sotto di me, ora tramite me è un dio che danza’.
Anche questo è l’anello del ritorno.

Nota
1. Nietzsche, Also sprach Zarathustra I, «Vom Lesen und Schreiben», ‘Del leggere e scrivere’.

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