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Randazzo

Da ragazzo ho molto frequentato e vissuto questa città normanna e in essa torno sempre volentieri. Città fortezza fatta di pietra lavica (il cratere centrale del vulcano dista soltanto 15 chilometri), di chiese la cui materia è nera, la cui forma è gotico-rinascimentale, le cui pale, altari, affreschi, soffitti, le rendono musei per tutti.
A San Nicolò (a destra) si giunge attraversando Via degli Archi, un pezzo di Medioevo ancora intatto con i suoi archi a sesto acuto, le bifore, lo spazio ristretto tra le mura. In fondo alla Via si arriva a un lato della chiesa, girando intorno al quale si apre una facciata che sembra un funerale pronto per la festa.

San Martino (a sinistra) ha un magnifico campanile puntato verso la luna, i sogni, le nuvole. Vicino alla chiesa si trova l’unica torre della cinta muraria (voluta da Federico II Hohenstaufen) sopravvissuta alle vicende della storia, il «Castello svevo», che fu prima dimora di signori e poi carcere e adesso è sede di un Museo archeologico purtroppo aperto soltanto di mattina.

Tornando indietro verso il centro del borgo si trova il Municipio, un piccolo monastero con il suo bel chiostro, sempre tutto nero.
E poi si incontra il capolavoro della città, la Chiesa Basilica di Santa Maria, costruita nella prima metà del Duecento quasi a picco sulla valle dell’Alcantara, con un magnifico portale gotico, con imponenti strutture che sembrano pronte a sostenere l’invasione di mille diavoli, con un interno scandito da colonne tutte in pietra lavica (immagine di apertura).
Il nero su nero di Randazzo è circondato a sud dalle alture dell’Etna, a nord-ovest, oltre il fiume, dalle colline d’argilla dei Nebrodi, che si perdono e diramano a est verso Taormina. Lo spazio e il tempo diventano e sono qui davvero inseparabili. La forma urbis così regolare e così antica dà ragione a Giambattista Vico sulla possibilità che gli umani hanno di conoscere alla fine soltanto ciò che essi stessi fanno, costruiscono e immaginano: le case, le strade, la storia. «Questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana» (Scienza nuova, libro I, sezione 3).

Kalaat-al Bian

Era un rudere. Ma in quella rocca sono transitati popoli e civiltà. Dai Greci agli Spagnoli, come spesso accade in Sicilia, passando per i poteri che hanno sottomesso questa terra e l’hanno plasmata nel suo orgoglio, nella sua ferita. Ora è tornato a essere un luogo abitabile, che non difende più religioni, signori e sovrani ma ospita concerti, visitatori, artisti, convegni.
Posto tra l’Etna, lo Jonio e il fiume Alcantara, il Castello arabo-normanno di Calatabiano mostra tutta la forza dell’occhio umano, capace di spaziare sin dove la sfera terrestre dissolve il mare, le colline si aggiungono a colline e il vulcano si fa nube, cenere, triangolo.
Un luogo magnifico dal quale si osservano le brutture della valle -un insensato campo da golf in costruzione che drenerà ancor di più le risorse del fiume, un albergone per volgari parvenu e per amministratori rapaci, squallide case estive- ma che la lungimiranza di qualche sindaco, architetto e cittadino ha restituito allo sguardo dei siciliani e di tutti coloro che in quest’Isola vogliono capire.

Federico II. Un imperatore medievale

di David Abulafia
(Frederick II. A medieval emperor, 1988)
Traduzione di G. Mainardi
Einaudi, 2006
Pagine XII-401

La lettura che David Abulafia traccia dell’Impero e del Regno svevo in Sicilia è controcorrente rispetto alla caratterizzazione più diffusa della figura di Federico II. In esplicita contrapposizione a Kantorowicz e a tutta la storiografia che ha accolto un’immagine dell’Imperatore quale despota illuminato e anticipatore dello Stato moderno, Abulafia descrive Federico come un «uomo del suo tempo» (pag. 364), molto meno spregiudicato dal punto di vista ideologico, meno tollerante con le fedi non cristiane, meno energico nella lotta contro i papi. I provvedimenti giuridici dell’Imperatore a partire dalle Costituzioni di Melfi (1231) sarebbero stati in linea con la tradizione normanna o puntarono a riconoscere dei diritti consuetudinari già acquisiti. Anche nel campo culturale e ideologico l’azione di Federico fu secondo Abulafia meno incisiva di quanto si ritenga, a causa delle forti spese di guerra, e poco innovatrice nella sostanza, a parte la passione ornitologica e naturalistica e il decisivo contributo alla creazione della lirica italiana.

Particolare attenzione viene posta alla distanza fra le ambizioni proclamate nelle dichiarazioni e nei testi della Cancelleria imperiale e le effettive realizzazioni, certo più modeste e inclini al compromesso. La burocrazia meridionale viveva di corruzione e privilegi, comuni a ogni ufficio medioevale (e non solo…); la coesistenza fra cristiani, musulmani ed ebrei fu più effettiva in Castiglia che nel Regnum Siciliae tanto che «il regno di Federico II segna la fine, non la rinascita, della convivencia» (367); la stessa rivendicazione dell’identità universale dell’Impero è il risultato della confluenza di tradizioni sveve e normanne. Ecco la parola chiave: tradizione. Abulafia identifica le cose migliori del governo di Federico in ciò che esso seppe assimilare dalla tradizione, in particolare normanna. Precisamente, furono eredità degli Altavilla «il fiscalismo e la concezione del re come erede del princeps romano» (34).

Abulafia sintetizza il senso della politica di Federico nell’aggettivo «dinastica» (365): l’orgoglio del potere pervenuto tramite i nonni Barbarossa e Ruggero II e la preoccupazione di trasmetterlo intatto e accresciuto agli eredi Hohenstaufen. Un’intenzione, come si vede, coerentemente medioevale.
Al centro del libro vi è, naturalmente, il rapporto di Federico con i papi. Moderazione, compromesso, collaborazione -per quanto guardinga e diffidente- caratterizzarono l’intesa fra l’Imperatore e Onorio III. L’obiettivo di entrambi, e quello di Federico in particolare finché non venne attaccato con grande violenza, fu «una concordia interdipendente tra le due massime autorità terrene: collaborazione nel nome della pace» (243). Dopo la morte di Onorio, i rapporti con Gregorio IX e Innocenzo IV furono sempre più conflittuali fino al clamore della deposizione di Federico da ogni titolo, carica e possesso, pronunciata a Lione nel 1245 da Innocenzo IV.

Se l’Autore ridimensiona la figura dell’Imperatore “moderno e libero pensatore”, l’immagine dei Papi ne esce in ogni caso molto male. Gli intenti teocratici e la violenza dei metodi sono descritti con efficacia. Innocenzo III «non aveva dubbi che la funzione “correttiva” del papato potesse estrinsecarsi attraverso atti autorizzati di violenza» (81); con l’ascesa al soglio di Gregorio IX «la cooperazione tra papa e imperatore cedette il passo all’idea della subordinazione dell’imperatore al papa» (137); i canonisti guelfi e curiali teorizzarono la necessità della violenza contro chiunque non accettasse l’autorità della Chiesa; «i pontefici del XIII secolo gratificarono gli Hohenstaufen di un linguaggio di violenza estrema» (264) e, in generale, nella guerra contro Federico «sovversione e menzogna furono i metodi adottati dal Vicario di Cristo» (164).

Notevole merito di questa ampia e appassionata disamina è il mostrare evidenti le differenze fra la concezione e la pratica del potere nel Medioevo e quella dei secoli successivi. Rispetto a qualunque sovrano nazionale e territoriale dell’Europa moderna e contemporanea, rispetto al potere di controllo degli esecutivi repubblicani e democratici, l’autorità di un Imperatore pur ricchissimo di carisma -quale Federico fu- si riduce a ben poca cosa. Essa è infatti formalmente vastissima, di fatto limitata, esautorata, annullata da una miriade di poteri locali a volte collaboranti in vista di esenzioni e privilegi, più spesso operanti al fine di ottenere la più ampia autonomia amministrativa e indipendenza politica. Dove il libro invece risulta più debole è nell’analisi economica, limitata perlopiù alla descrizione dei rapporti di Federico con i grandi finanziatori delle sue imprese e alla analisi delle conseguenze che un sistema fiscale esoso e oppressivo apportò nei suoi territori e in particolare nell’isola.

Certo, rimane difficile sottrarsi al fascino e all’ammirazione per una figura forse unica e per il confluire in essa di tante aspirazioni e tradizioni. Per i contemporanei Federico a volte costituì l’Anticristo, altre fu il «il flagello di un corpo ecclesiastico empio e peccaminoso» (359), per moltissimi rappresentò in ogni caso lo Stupor mundi. Non è facile sfuggire a tanta suggestione ma forse è doveroso e l’opera di Abulafia dà un importante contributo alla comprensione del mito di un Imperatore quale «non vi è stato né vi sarà» (361) per cogliere la realtà storica di un regno sottoposto a fortissime tensioni e condizionamenti -fino a soccomberne- e di un uomo che «non fu un siciliano, né un romano, né un tedesco, né un mélange di teutonico e latino, ancor meno un quasi-musulmano: fu un Hohenstaufen e un Altavilla» (367).

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