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La La La

La La Land
di Damien Chazelle
USA, 2016
Con: Emma Stone (Mia), Ryan Gosling (Sebastian)
Trailer del film

Il film inizia con un vertiginoso piano sequenza, nel quale gli automobilisti bloccati in coda su una delle autostrade di Los Angeles cominciano a cantare e a danzare. Tra di loro ci sono Mia, che vorrebbe fare l’attrice ma intanto fa la barista, e Sebastian, il quale ama il jazz «che sta morendo», quello dei grandi maestri, e che invece è costretto a suonare insulsi motivetti dove capita. Dopo un primo incontro non proprio positivo, Mia e Sebastian si innamorano, condividono i loro sogni, il tempo, la casa, la mente. Il successo arriva ma con esso giunge anche la distanza.
Un musical totalmente anni Cinquanta, anche se girato con le tecnologie del XXI secolo. E che dunque del musical condivide il destino, l’essere una versione dimidiata e banale del melodramma europeo. Neppure La La Land sfugge all’incoercibile noia di questo tipo di spettacolo, che Damien Chazelle affronta senza un briciolo di ironia e al quale non fa mancare nulla di tipico del genere, compreso questo scambio di battute tra i due protagonisti: Mia «Ti amerò per sempre», Sebastian «Ti amerò per sempre anch’io», una delle affermazioni più provvisorie che si possano enunciare.
Rispetto a un’opera geometrica, spietata e radicale come Whiplash, Chazelle precipita qui in una melassa prevedibile, superficiale e inutile. La La Land è il già visto in forma canterina.

Bruciare

Whiplash
di Damien Chazelle
USA, 2014
Con: Miles Teller (Andrew Neyman), J.K. Simmons (Terence Fletcher), Paul Reiser (il padre di Andrew)
Trailer del film

La batteria, il jazz, i padri, le sfide, l’iniziazione alla vita e all’arte. Vivere e non vegetare, creare e non ripetere. Il primo padre di Andrew, quello biologico, si accontenta di esserci e di spiegare ciò che altri hanno scritto. Il secondo padre, tiranno alla Scuola di musica, lavora per trovare un artista assoluto. Quando intuisce il talento del ragazzo gli fa sputare lacrime e sangue (alla lettera) e lo pone dinanzi a un modo insostenibile di esistere, quello che non si volta dalla stella della musica e a essa tutto è pronto a sacrificare. Tutto. La vita stessa.
Un film dove educazione e formazione si pongono al di là di ogni teoria pedagogica, nel trionfo della volontà del maestro che vuole essere superato dal proprio allievo. E per questo è disposto a ucciderlo.
Un film fisico e iniziatico, nel quale il jazz intride le immagini, le colora, le trasforma in suono ripetuto, ossessivo, tribale. Il finale incrocio degli occhi sancisce il patto faustiano, perché davvero ciò che conta non è la durata dell’esserci ma che si abbia un altare sul quale bruciare la propria sostanza.

Strade sonore

Yo-Yo Ma e i musicisti della via della seta
(The Music of Strangers: Yo-yo ma and the Silk Road Ensemble)
di Morgan Neville
USA, 2015
Con: Yo-Yo Ma, Kinan Azmeh, Cristina Pato, Kayhan Kalhor
Trailer del film

L’esistenza umana è così poca cosa rispetto all’intero che qualunque sia l’itinerario che in essa percorriamo rimangono strade senza fine intorno a noi e dentro di noi. Un artista, un filosofo, uno scienziato, sono persone che cercano di esplorare quante più vie possibili al proprio cammino.
Il violoncellista Yo-Yo Ma è stato un bambino prodigio e ha ottenuto un successo planetario ma non ha cessato di incuriosirsi, saggiare nuove forme, percorrere sentieri inediti. L’esperimento forse più riuscito è il Silk Road Ensemble, un gruppo di musicisti dalle provenienze più disparate e dagli strumenti più inconsueti -la pipa e lo sheng cinesi, la cornamusa galiziana, il kamancheh persiano, oltre e insieme agli archi e ai fiati europei-, i quali si ritrovano periodicamente in diversi luoghi del pianeta e suonano ovunque. Il risultato è la Bellezza. Una bellezza che va oltre le divisioni politiche, oltre il dolore, l’esilio, la solitudine che molti di questi artisti hanno subìto nelle loro esistenze. Una bellezza che come una goccia di olio buono lenisce le ferite del mondo e trasmette ancora e sempre la danza dionisiaca della vita.
Il film di Morgan Neville non è un documentario, è un racconto coinvolgente che con maestria stilistica mostra le forme e il significato del Silk Road Ensemble, è un’opera che penetra nel cuore sempre pulsante della musica umana.

Corruzione

Piccolo Teatro Strehler – Milano
L’opera da tre soldi
(Die Dreingroschenoper, 1928)
di Bertolt Brecht e Kurt Weill
Traduzione di Roberto Menin
Con: Giandomenico Cupaiuolo (Un cantastorie), Marco Foschi (Mackie Messer), Peppe Servillo (Jonathan Jeremiah Peachum), Maria Roveran (Polly Peachum),  Margherita Di Rauso (Celia Peachum); Sergio Leone (Jackie “Tiger” Brown), Rossy De Palma (Jenny delle spelonche), Stella Piccioni (Lucy )
Orchestra sinfonica di Milano Giuseppe Verdi – Direttore d’orchestra Giuseppe Grazioli
Regia di Damiano Michieletto
Sino al’11 giugno 2016
Trailer dello spettacolo

Opera_tre_soldi_2016Dalla Beggar’s Opera di John Gay (1728) Brecht, la traduttrice Elisabeth Hauptmann e il compositore Kurt Weill presero molto ma molto anche trasformarono. Nel mondo e nella scena «i poliziotti se la fanno con i delinquenti, i delinquenti vogliono fare gli imprenditori, gli imprenditori organizzano bande di mendicanti» (R. Menin, Programma di sala, p. 30). Si comincia infatti con l’imprenditore Jonathan Jeremiah Peachum, che esalta la propria capacità di organizzare con metodo i mendicanti londinesi affinché riescano a indurre il prossimo «a fare la cosa più innaturale di questo mondo: dare il proprio danaro ad altri». Appare poi il bandito Mackie Messer, che innamora la figlia di Peachum e la induce a sposarlo. E tuttavia la passione ‘fimminara’ di Mackie per le donne in genere e per le prostitute in particolare non si placa e induce Peachum a denunciarlo e a sperare che la forca lo tolga di torno a lui e alla figlia. In realtà, il capo della polizia è amico fraterno del bandito e quindi l’impresa non è facile. Peachum convince le prostitute a tradire per denaro Mackie Messer, il quale viene infine catturato e sta per essere impiccato. Ma il denaro -molto denaro- fa ancora una volta il miracolo e il condannato riceve la grazia regale. Non solo: il ladro e assassino diventa anche nobile e gli vengono assegnati rendita e castello. Lo spettacolo si chiude su una pioggia di banconote e di umani impegnati ad arraffarle.
«Signori il mondo è misero e cinico, è perfido / Ma certo l’uomo è misero, è cinico è perfido». Questo affermano i Peachum, marito e moglie. Un disincanto antropologico che si fa denuncia politica. Ladri e poliziotti, estortori e imprenditori, assassini e magistrati, si comportano alla stessa maniera. La corruzione è pervasiva del corpo sociale.
Efficace ed eloquente dunque l’idea di ambientare tutta la vicenda in un tribunale/carcere, nel quale i delinquenti diventano di volta in volta giudici. E viceversa. Il regista lo dice in modo esplicito: «Tutti siamo il giudice, tutti siamo corrotti e corruttori» (Programma di sala, p. 24). Dalla scenografia e dalla struttura generale dello spettacolo emerge in modo plastico la natura criminale dello Stato e della finanza. Nell’incipit e nel finale viene infatti ripetuta un’affermazione di Brecht diventata famosa: «È più grave svaligiare una banca o fondare una banca?».
Michieletto e Grazioli hanno scelto degli attori che cantano e non dei cantanti che recitano. Hanno fatto bene. Die Dreingroschenoper non è infatti un’opera lirica e neppure un musical. È un’opera di teatro nella quale la musica di Kurt Weill sembra incarnare l’antico Coro delle tragedie greche, a sottolineare il senso e l’abisso di ciò che sulla scena accade.
Peppe Servillo è un Peachum eccellente nel rendere l’inseparabilità di cinismo e affari. Il Mackie Messer di Marco Foschi sembra ispirarsi alle movenze sincopate, dilatate e finte di Carmelo Bene. L’intera messa in scena sta sotto il segno dei versi che Brecht aveva inserito nella versione cinematografica dell’opera e che qui la chiudono: «Chi vince fa la storia / E chi perde tacerà». A meno che l’arte e la poesia diano ai perdenti voce.

Paladini

22 novembre 2015 –  Centro Zo – Catania
Camurria
di e con Gaspare Balsamo
Con Giorgio Maltese e Giancarlo Parisi

La storia dei Reali di Francia e dei loro Paladini ha attraversato per secoli la cultura siciliana. Spettacolo per tutti, regolamentazione della guerra, identità cristiana, etica dell’amicizia e dell’onore, passione amorosa, il teatro dei pupi ha catalizzato ed espresso alcuni degli elementi più perenni e profondi della visione che l’Isola ha del mondo. Una tradizione che sembra essersi smarrita sino a finire, come con amarezza si afferma in questo spettacolo. Ma la concezione e l’esistenza stessa di Camurria nega tale infausta conclusione.
Gaspare Balsamo e i suoi compagni musicisti riescono infatti a rendere ben presente e vivo l’archetipo che i pupi rappresentano. Le voci e le testimonianze di quanti da bambini furono attratti da questa forma d’arte si  mescolano ai suoni molteplici della tradizione musicale siciliana. Su tale sfondo Balsamo dipana il suo racconto. E davvero sembra di vedere e di sentire intere comunità che si dividevano tra ‘orlandisti’ e ‘rinaldisti’, tutti accomunati però dall’odio verso l’infame traditore Gano di Magonza, al cui solo apparire in scena si scatenavano urla, insulti, fischi.
Un’antropologia comunitaria, fisica e condivisa è stata distrutta -come viene esplicitamente detto- «da quella minchia della televisione». Ed è stata ulteriormente ferita da luoghi che si pongono sotto il segno di una cupa identità che tende a cancellare la ricchezza delle differenze umane, storiche, estetiche. Che questi luoghi siano fisici (come McDonald’s) o virtuali (come facebook), si tratta sempre della stessa camurria, dello stesso gesto fastidioso, impoverente, squallido, venale, che attraverso il dispositivo della facilità a buon mercato deruba individui e collettività della loro forza rendendoli proni all’impero, senza che neppure capiscano che un impero c’è.
Se le comunità non si rendono paladine di se stesse, il Gano globalizzatore fa e farà il suo mestiere: uccidere.

Casanova come artista

Il Casanova di Fellini
di Federico Fellini
Italia, 1976
Con Donald Sutherland

Casanova_FelliniRivolgendosi a Giacomo Casanova una donna chiede: «Non riesci a parlare d’amore senza immagini funebri, senza parlare di morte?». È anche per esorcizzare la morte che Casanova/Fellini (questo il trasparente significato del titolo) dispiega la gloria dei colori, l’invenzione degli spazi, il frastuono del movimento, la festa.
La festa percorre per intero questo film: dall’incipit veneziano del Carnevale ai teatri  e alle corti d’Europa dove Casanova viene ospitato, lavora, seduce.  Ovunque la musica (magnifico Nino Rota) e particolarmente nella scena dell’organo suonato con furore da vari esecutori alla corte di Wittenberg. A Dresda alla fine della serata calano i lampadari, che vengono spenti uno a uno. Ed è come se il silenzio parlasse.
Dopo l’incontro con la madre comincia la decadenza del colto avventuriero, inizia il ritorno alla materia, al ventre della terra. L’artista appassionato e candido recita ancora i versi della follia di Orlando ma una donnetta comincia a ridere e lo offende di fronte all’intera corte.
È il destino dell’artista baudeleriano, dell’Albatros. Meglio allora, molto meglio, il coito con il bell’automa femminile. E quindi con se stesso. Come sempre. Mentre un uccello meccanico con le sue ali si alza e si abbassa -accompagnando le gesta amorose di Giacomo- la festa, la malinconia e la donna sorgono e tramontano nel sogno intimo e pubblico in cui consiste questo capolavoro.

 

Anche i musicisti piangono

Una fragile armonia
(A Late Quartet)
di Yaron Zilberman
USA, 2013
Con: Philip Seymour Hoffman (Robert), Christopher Walken (Peter), Catherine Keener (Juliette), Mark Ivanir (Daniel), Imogen Poots (Alexandra), Liraz Charhi (la ballerina)
Trailer del film

a_late_quartetIl quartetto d’archi The Fugue si esibisce da venticinque anni in tutto il mondo con risultati eccellenti. Durante le prove dell’Opera 131 di Beethoven il violoncellista Peter comunica che è affetto dal morbo di Parkinson e che dunque bisogna sostituirlo. Alla notizia i suoi colleghi reagiscono in modi diversi. La violista Juliette è affranta e rifiuta l’idea stessa di una sostituzione; il primo violino Daniel è preoccupato soprattutto della perfezione esecutiva che non deve venire meno; il secondo violino Robert chiede che si dia un nuovo inizio al Quartetto con l’alternarsi nel ruolo di primo violino di lui e di Daniel. Si scatenano, naturalmente, gelosie, rancori, ricordi. Anche perché Juliette e Robert sono marito e moglie e tra di loro non va molto bene. Hanno una figlia anch’essa violinista, che si sente molto attratta da Daniel. È quindi in gioco tutto: sentimenti, legami, carriere, arte. Ciascuno dovrà compiere le proprie scelte, cercando di soffrire il meno possibile.
Un film patinato e un’occasione per l’ascolto di Beethoven. Ma un’opera anche prevedibile e artificiosa, che deve tutto all’interpretazione neppure troppo convinta e a volte un po’ ingessata del quartetto di interpreti.

 

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