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Marta Mancini su Ždanov

Marta Mancini
Ždanov o della superiorità (im)morale
Aldous
3 luglio 2024
pagine 1-4

«La chiave per comprendere la sottocultura che va sotto il nome di politically correct, con gli annessi dispositivi della cancel culture e del wokismo, è senz’altro la sudditanza all’egemonia culturale d’oltreoceano, sostenuta da una forte matrice identitaria radicata nel puritanesimo protestante e nel più profondo calvinismo. Nonostante la crisi in cui versa il progetto economico-finanziario della globalizzazione, gli effetti che ha generato nelle mode culturali sono ancora tangibili e più stringenti che in passato, anche se il compito di conservare la supremazia statunitense ha passato la mano allo sforzo bellicista, naturalmente a spese di altri paesi e lontano dalla geografia fisica della democraticissima nazione che ha sempre molto da insegnare, specialmente in superiorità etica.
Da una simile prospettiva prende avvio l’ultimo libro di Alberto Giovanni Biuso, da poco uscito per Algra Editore, Ždanov. Sul politicamente corretto nel quale l’autore percorre i tratti di tale contesto culturale mostrandone con critica passione i sintomi, i presupposti impliciti, la pervasività, le sostanziali contraddizioni ma anche la possibilità di uscirne attraverso un atto coraggioso di libertà che è prima di tutto libertà di pensiero e di parola. Con la scelta della globalizzazione come sfondo naturale del politicamente corretto, Biuso ne esplicita anche la connotazione ideologicamente trasversale, rappresentata da “un bizzarro miscuglio di alcune espressioni della cultura ‘di destra’ nelle sue componenti individualistiche e liberiste e della ‘cultura di sinistra’ nelle sue componenti altrettanto individualistiche che tendono a trasformare semanticamente e giuridicamente alcuni legittimi ‘desideri’ individuali, figli di ben precisi contesti storici, in dei ‘diritti naturali’»

La Valle del Caos

Friedrich Dürrenmatt
La Valle del Caos
(Durcheinandertal, 1989)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Giovanna Agabio
Einaudi-Gallimard, 1993
Pagine 587-681

Sfrenata, imprevedibile, feconda, allucinata, implacabile è la fantasia che in questo libro si scatena. Credo di non aver mai letto un testo nel quale a ogni pagina, in qualunque momento, a ogni riga può succedere di tutto come in questo romanzo dove accade veramente qualsiasi cosa. Ne vengono coinvolti, descritti e travolti i contadini di una irraggiungibile vallata svizzera, la Valle del Caos appunto il cui titolo originale potrebbe essere più letteralmente tradotto come valle del guazzabuglio, del disordine, della confusione.
E la confusione regna infatti dappertutto. Confusione tra gli ambienti, che passano dalla costa atlantica degli Stati Uniti d’America – con i suoi gangster più famosi, più gelidi e più rozzi – alle crociere sul Nilo; dalle sedi senza patria delle grandi multinazionali alla Svizzera, «il paese più impenetrabile della terra. Nessuno sa chi è padrone di qualcosa, chi gioca con chi, chi ha le carte in tavola e chi le ha mescolate» (p. 635).
Confusione tra i personaggi, che cambiano volto, alla lettera, attraverso la chirurgia estetica ma anche e specialmente nella sostanza delle loro identità, del loro numero, della loro funzione.
Confusione tra quadri perfettamente falsi venduti come autentici e dipinti autentici spacciati per falsi.
Confusione tra le forze dell’ordine – vigili urbani, polizia, esercito – che dispiegano un enorme apparato di repressione con il solo intento di giustiziare un cane.
Confusione tra la morale e il crimine che appaiono quali sono, vale a dire due aspetti della stessa ferocia, com’è evidente nella Boston Society for Morality che dà vita alla Swiss Society for Morality, entrambe «qualcosa di vago, esattamente come la maggior parte delle associazioni con nobili scopi» (603). Associazioni che edificano in uno sperduto villaggio svizzero una casa di riposo stagionale chiamata Casa della povertà, riservata a gente ricchissima che per alcuni mesi vive in estrema povertà, salvo poi tornare al proprio lusso: «Una vera e propria fissazione di vivere poveramente colse i milionari e le vedove dei milionari, c’erano direttori generali che facevano i letti, banchieri privati che passavano l’aspirapolvere, grossi industriali che apparecchiavano i tavoli in sala da pranzo, manager di prim’ordine che pelavano patate, vedove di multimilionari che cucinavano e si occupavano della lavanderia, sceicchi e magnati del petrolio che falciavano l’erba, sarchiavano, vangavano, segavano, martellavano, piallavano, verniciavano e per questo pagavano prezzi favolosi» (618).

A dare redenzione e conforto a tali milionari è un pastore di nome Moses Melker, uomo di rara bruttezza, «uno schiavo negro fuggiasco grasso e di pelle bianca, con un abito da cresimando e una valigetta in mano»  (664), una specie di parente dei neandertaliani e anche assassino seriale delle sue mogli, ma ora dedito alla missione di convertire i ricchi e che per questo elabora una teologia il cui testo fondatore (in fieri) ha per titolo Prezzo della grazia (Preis der Gnade). Melker costruisce una teologia per la quale i poveri sono di per sé meritevoli della salvezza mentre i ricchi devono tutto alla misericordia del «Grande Vecchio» e per questo i ricchi sono i veri destinatari del perdono e della Grazia. E non soltanto i ricchi ma anche gli umani più crudeli, i delinquenti più accaniti, i farabutti, i sadici, i criminali. In loro e soltanto in loro splende la potenza del Signore.

Infatti, se la grazia fosse meritata non sarebbe più grazia bensì ricompensa. La grazia era la cruna dell’ago attraverso la quale non soltanto un cammello, bensì tutti loro potevano passare, loro che erano riuniti lì a lamentarsi della maledizione della ricchezza. Davanti al Grande Vecchio gli ultimi erano i primi e i poveri erano i ricchi, i poveri erano in possesso della grazia e i ricchi maledetti. Ma chi possedeva la grazia non ne aveva bisogno poiché la grazia era già in lui, e quindi la grazia era riservata a loro, i ricchi, i maledetti, i sazi, la grazia con cui venivano incoronati come la sola feccia dell’umanità che ne aveva bisogno (617).

La Grazia essendo del tutto arbitraria, il cuore della teologia di Melker consiste pertanto «nel riconoscimento che nulla potesse giustificare la grazia» (595-596).
Come si vede, si tratta di una teologia anch’essa sfrenata; insieme evangelica e machiavellica, gesuitica e luterana. Teologia di un Dio talmente onnipotente e universale da includere nella propria stessa identità la miseria e il male, un Dio del tutto volontaristico (al modo di Ockham e oltre Ockham), che «avrebbe saputo creare una pietra che non riusciva a sollevare, oppure ritrasformare le cose accadute in non accadute» (590), che poteva fabbricare orologi «con quindici ore, in cui ogni ora durava trecento minuti e ogni minuto quarantacinque secondi, ma anche i secondi non erano uguali; alcuni secondi duravano tre quarti di secondo, altri sette minuti» (608). Un Dio il quale riusciva dunque certamente anche a conciliare la propria essenza di Grazia con quella di «Dio senza barba» vale a dire del più infame tra i malviventi.
Se chiediamo infatti «perché il buon Dio è così ingiusto, se appunto è un buon Dio […] se tutto è così ingiusto con gli uomini e con la natura» (656) è perché «il Grande Vecchio è pensabile solo come criminale» (676), il quale nella sua versione cristiana è «ancora più astratto del padre, ma anche qualcosa di lezioso, un redentore di marzapane sulla croce. […] Un Dio che si lascia crocifiggere fa la commedia» (679).
Un romanzo teologico e grottesco, un romanzo dunque barocco e gaddiano nei contenuti anche se non nella lingua, che è sempre classica e ironicamente perfetta. Il finale è epico; davvero ‘una risata vi estinguerà’ sembra dire il Grande Vecchio alla nostra specie.

Enrico Palma su Ždanov

Enrico Palma
Tra identità e differenza si giocano libertà e pluralità
Recensione a:
Ždanov. Sul politicamente corretto
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
11 giugno 2024
pagine 1-6

«È un libro coraggioso, come dovrebbe esserlo ogni tentativo di pensiero che si rispetti e non asservito a ideologie dominanti, a potentati finanziari e all’etica dei valori, la quale è anzi oggetto di una dura contestazione non in quanto modo sensato e meditato di stare al mondo, per dirla con l’Aristotele della Nicomachea, ma come fiera di valori impoverenti, putridi e segno di una stanchezza fisica e intellettuale che alla fine risulta tutt’altro che salutare, bensì altamente nociva e perniciosa. Valori di cui Biuso coglie tutte le pericolose propaggini nel vivere collettivo, ovvero quando diventano fanatiche estremizzazioni che violano il principio metafisico di fondo che intride l’essere. Il pregio di questo libro, e della prospettiva che propone, risiede dunque nel fondarsi non nell’etica, che semmai è successiva al pensiero, ma nella metafisica, che diviene allora il vero discrimine delle cose, la lente attraverso cui osservare con giustezza le cose umane, per assicurare il meglio e prevenire la barbarie»

Transizioni

Transizioni
Aldous, 27 gennaio 2024
Pagine 1-2

A partire dal caso della città dove abito, Milano, ho cercato in questo articolo di analizzare il significato, le contraddizioni e la forte spinta transumanista di alcune recenti tendenze alla “transizione”: transizione digitale, transizione ecologica, transizione di genere.
Tali transizioni sono fondate su un moralismo estremo che intende sostituire (per usare le categorie platoniche) il Vero con il Buono, dove che cosa sia Buono è naturalmente stabilito da chi ha il potere e le risorse economiche per convincere le masse degli spettatori.
Tutto questo è espressione di una posizione storico-politica ancora più ampia: l’occidentalismo. Esso consiste nella certezza che i valori dell’Occidente anglosassone (e non dell’Europa) siano valori universali, indiscutibili e santi. Un occidentalismo molto aggressivo, manicheo e sostanzialmente suicida visto che l’Occidente rappresenta una minoranza sul pianeta, sia dal punto di vista economico sia da quello demografico e in relazione alle risorse naturali.
Il rischio per un’Europa asservita all’ideologia occidentalista è di cadere nella spirale di una transizione verso la propria fine.

[L’articolo è uscito anche su Sinistrainrete]

Come tutti

Gustave Flaubert
Dizionario dei luoghi comuni – Album della marchesa – Catalogo delle idee chic
(Dictionnaire des idées reçues)
Trad. di J. Rodolfo Wilcock
Adelphi, 1988
Pagine 190

Lavorando a Bouvard et Pécuchet – romanzo, enciclopedia, immondezzaio – Flaubert raccolse una mole imponente di documenti, citazioni, appunti, note, da cui trasse il Dictionnaire des idées reçues. Al Dizionario questa traduzione Adelphi aggiunge altri due testi dello scrittore: un breve catalogo/riassunto delle idee chic e un terrificante Album che raccoglie numerose citazioni dolciastre e patetiche di alcuni anche ammirati scrittori francesi: da Michelet a George Sand, da Balzac a Sainte-Beuve, da Cousin ai fratelli Goncourt. Di Alfred Assolant è una delle citazioni più banali: «La bellezza era il minore dei suoi incanti; ella univa il canto dell’usignolo alla flessibilità del boa constrictor» (p. 124).
Il Dizionario di Flaubert aiuta a comprendere come e perché Emma Bovary  costituisca il suicidio del Romanticismo. L’eccesso del sentimento ci rende infatti sciocchi, incapaci di capire e di ragionare. Per Emma «pensare» – come recita la voce del Dizionario – è «increscioso. Le cose che ci costringono a farlo vengono di solito accantonate» (91).
Se Bouvard et Pécuchet costituisce il romanzo del sapere impossibile è anche perché i due scrivani sono vittime e insieme protagonisti attivi del più integrale conformismo, del luogo comune elevato a metodo, dell’omologazione al pensiero e all’etica dominanti, della rassicurazione che dà il parlare come parlano tutti, il condividere i valori sostenuti dalla maggioranza del corpo collettivo. Vale a dire di ciò che oggi trionfa  in televisione, sui giornali, nella quasi totalità delle pagine di Internet e nel moralismo totalitario che attraversa il corpo sociale.
Per contrasto e paradosso, la libertà che traspare dal Dizionario di Flaubert è invece persino lancinante. Negli sparsi frammenti vince la potenza dell’idiozia ma emerge anche la via d’uscita più immediata: la riflessione, la critica, la sobrietà, il silenzio, la distanza.
«Vedere la stupidità umana e non poter più tollerarla» (Bouvard e Pécuchet, Einaudi, p. 182) è l’impressione che a volte afferra osservando la vita, semplicemente la vita. Bisogna ammettere, con un uomo assai equilibrato e da Nietzsche sino all’ultimo venerato, che «sulla terra è la volgarità che è immortale» (Jacob Burckhardt, Sullo studio della storia, Boringhieri 1958, p. 214).
Una volgarità interiore che è l’altro nome, il nome gemello, il vero nome, della stupidità.

Woke

Sul fenomeno Woke
Aldous, 28 novembre 2023
Pagine 1-2

Politically correct, cancel culture e wokismo (stadio estremo del politicamente corretto, apparso dal 2012-2013) sono accomunati dal rifiuto programmatico della logica argomentativa alla quale sostituiscono l’attingimento a valori ritenuti superiori a ogni critica e a ogni discussione, di fatto diventati degli assoluti. Ogni ragionare deve essere sostituito da un aderire a credenze di natura morale e a pratiche di struttura fideistica, allo scopo di cancellare ogni ‘discriminazione’ reale o presunta, salvo e inevitabilmente generare discriminazioni e violenze ancora più nette e pervasive.
In questo breve testo ho cercato di delineare le radici religiose e le principali espressioni di questo fenomeno, concentrandomi sul safetyism, vale e dire sull’atteggiamento che potremmo tradurre con ‘protezionite’. Le persone, soprattutto appartenenti alle classi agiate, che da bambine non vengono mai lasciate sole a dirimere i loro conflitti cercano poi anche da adulte la protezione di una autorità superiore, non più familiare ma ad esempio universitaria, che le difenda da ogni pur minimo contrasto e conflitto con i diversi. Contrasti e conflitti che rappresentano in realtà un elemento costante delle vite e delle psicologie sane, non patologiche, e saper affrontare i quali, senza piagnucolare indicando ‘l’altro’ come ‘cattivo’, è indice dell’essere diventati davvero adulti. Una protezionite rispetto a ogni pur minimo conflitto che poi passa dalle famiglie alle istituzioni universitarie e alla burocrazia accademica.

[Foto di Zachary Kadolph su Unsplash]

Wokismo

Wokismo e Decostruzione
Aldous, 28 maggio 2023
Pagine 1-3

Il wokismo è uno dei più significativi esiti sociali e culturali del postmoderno e del decostruzionismo. Due posizioni filosofiche, queste ultime, che si sono affermate soprattutto negli Stati Uniti d’America. Nato anche dalla volgarizzazione che Jacques Derrida ha compiuto della raffinata lettura heideggeriana di Nietzsche, il decostruzionismo ha tra gli altri ‘padri’ europei Deleuze e in parte Foucault. Queste prospettive filosofiche sono complesse e articolate ma nella lettura politica semplicistica che hanno ricevuto negli States (e, di rimbalzo, in Europa) sono diventate delle filosofie organiche al liberalismo woke.
Espressione e forma del decostruzionismo, nella sua applicazione woke, sono la dissonanza cognitiva, l’oscurantismo antibiologico, l’eliminazione delle differenze, l’ipermoralismo di impronta religiosa. In questo testo ho cercato di analizzarle una per una, seppur sinteticamente.
In particolare, la forma più clamorosa di oscurantismo antibiologico è la negazione dell’esistenza reale e innata del maschile e del femminile, ricondotti e ridotti a una pura costruzione sociale e culturale che bisogna in ogni modo smontare, a partire dai primi anni di formazione scolastica.
Non sarebbe neppure il caso di soffermarsi su questa evidente patologia – ritenere che maschi e femmine non esistano – se non fosse seriamente sostenuta in varie sedi. Si tratta di una patologia che costituisce l’ulteriore prova del rifiuto decostruzionista e woke della differenza in nome dell’uno, di una identità che deve eliminare ogni diversità ontologica, etica, politica, in nome di un’eguaglianza ridotta a pura uniformità dell’identico.
Uno dei teorici di tali tendenze è Paul B. Preciado, militante neofemminista spagnolo, autore di un manifesto contro ogni ‘stereotipo di genere’, che costituisce un’apologia dell’ano, «zona erogena comune a tutti gli umani senza differenze di sesso, orifizio che non discrimina ed è invece segno d’eguaglianza», che «si pone come il nuovo ‘centro controsessuale universale’. […] Elogio decostruzionista dell’ano, fondamento di un universalismo finalmente liberato dalla costrizione delle norme eterosessuali. […] Situarsi al di là del pene e della vagina, organi della differenza tra i sessi, dei quali va tuttavia sottolineato che si tratta solo di ‘costruzioni sociali’» (Pierre-André Taguieff).
Tale versione analocentrica del mondo dice davvero molto sulla totale assenza di umorismo che è un altro dei limiti della visione woke della società.

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