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L’antropologia di Verga

Verga, la letteratura come antropologia
in Dialoghi Mediterranei
Numero 54, marzo-aprile 2022
Pagine 151-157

Indice
-Premessa da allievo
-Letteratura e antropologia
-La potenza della terra, del mare, degli elementi
-La Sicilia, il sacro

Questo testo è nato dalla lettura del più recente libro di Giuseppe Savoca: Verga cristiano dal privato al vero (Olschki 2021). Lettura che mi ha permesso di vivere alcuni giorni in compagnia di Giovanni Verga, della sua famiglia, dei miti e dei fantasmi, di un amore totale verso la scrittura e la bellezza che la scrittura sa creare. In compagnia e dentro il mondo arcaico, disincantato e complesso da cui Verga e la sua arte sono germinate.
Ogni scrittore, tutti i romanzieri, ovunque vivano e qualunque sia la loro epoca offrono anche e fondamentalmente una testimonianza antropologico-esistenziale del loro tempo, oltre che del proprio ambiente e di se stessi. Nel caso di scrittori siciliani le differenze di stile, di ideologia, di immediato contesto storico non cancellano, anzi mettono ancor più in risalto, alcune costanti, che sono dell’Isola ma sono di tutti. La Sicilia è infatti simbolo, emblema, sineddoche dell’intera umanità.
Il romanzo nel quale l’epica fa tutt’uno con lo stile, la tenacia con la sconfitta, il progetto con il nulla è Mastro-don Gesualdo, un testo nel quale pullula e si muove un’umanità famelica, miserabile, buia. La vita di Gesualdo Motta si fa metafora del mondo, della vita, dell’essere tutti contro tutti dentro una società rurale, rassegnata e colma di rancore; scossa di tanto in tanto dall’illusione di un’impossibile giustizia. Si squaderna davanti a noi l’Isola di tripudi e di sfacelo, intrisa di segreta magia e di quotidiana fatica. Mastro-don Gesualdo è un romanzo ancestrale, una sintesi della Sicilia, delle sue maledizioni, della grandezza. «Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là. Al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza», Gesualdo è la solitudine stessa. Dei siciliani, certo, ma anche di ogni umano che non si voglia ingannare sulla propria condizione.
Per un siciliano questo è «il terribile: la quiete della non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui» (Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia). Perdersi nella storia, nel paesaggio, e quindi nello spazio e nel tempo. Ma dentro questo mondo perduto, dentro la perdita che è il mondo, riuscire anche a fare della vita un tripudio di colori, di suoni, di gaiezza e di forza. Questo è il sacro, questo è la condizione per sopportare l’esistenza, per farsene carico e vincerla.

Vizzini

L’accoglienza che i siciliani riservano al mondo è colma di passione e disincanto. Essendo nati, cercano di attingere dai giorni ogni possibile pienezza, sapendo però che l’orizzonte del vivere è il morire; un Sein zum Tode declinato nei gangli stessi della civiltà contadina.
Morte che i siciliani celebrano in varie forme. Come quella nella quale un San Lorenzo dal colore ormai spento rimane in ogni caso l’unica luce che riverbera nel buio insieme al rosso delle braci. L’autore del dipinto è Filippo Paladini, un toscano che venne a lavorare e morire nell’Isola. Il quadro si trova in una chiesa fortezza, l’imponente Chiesa Madre di Vizzini, dedicata al patrono San Gregorio Magno.
È iniziato da questo edificio il percorso che l’accoglienza appassionata e disincantata di Enrico Palma e Pietro La Rocca ha reso un viaggio nel profondo della nostra storia. Abbiamo attraversato strade intitolate ad ‘Aristotile’ e ad Atene; abbiamo sostato davanti alle facciate di chiese barocche pronte a volare e di piccoli edifici religiosi immobili come scogli del mare; abbiamo sentito le parole e visto i gesti ambigui di Lola, Santuzza e compare Turiddu, che i racconti di Verga hanno reso perenni.
Giovanni Verga. Il suo nome e la sua opera abitano ovunque, qui. In particolare nel Palazzo nobiliare dei Ventimiglia, diventati i Trao con i quali Mastro-Don Gesualdo Motta volle imparentarsi. Loro erano i discendenti della nobiltà più arrogante, lui era un uomo venuto dal nulla e diventato ricco con il lavoro incessante dei giorni. In questo Palazzo l’ambizione di un’impossibile mescolanza sociale sembra scandire stanza dopo stanza il delirio dei Trao decaduti, l’amarezza costante di Gesualdo.
Stanze ora diventate la sede di un centro culturale che raccoglie un Museo etnoantropologico, ricco della cultura materiale di queste terre; uno spazio dedicato ai libri e agli strumenti del medico e politico Gesualdo Costa, personaggio tanto competente nella sua arte chirurgica quanto magnetico nella sua persona; e soprattutto il Museo dell’immaginario verghiano, un percorso dentro la storia, le opere, le relazioni, i personaggi, le fotografie dello scrittore vizzinese e catanese.
E poi i paesaggi, la notte, la pioggia, l’antropologia, la cucina. Lo scrigno di Vizzini gustato sino a non accorgerci quasi del mancato spettacolo teatrale (a causa appunto della pioggia) che era stata l’occasione del nostro viaggio. Ogni strada di questa terra coniuga intimamente materia e storia, ogni luogo diventa naturacultura.

Verga

Giovanni Verga
in Vita pensata, numero 21, gennaio 2020
pagine 80-81

Ho tentato di leggere l’opera di Giovanni Verga come una testimonianza antropologica capace di pervenire al fondo della natura umana e siciliana, di enti costituiti dagli elementi primordiali del mondo: l’acqua del mare, la durezza della terra, la solitudine dell’aria, la potenza del fuoco. Si squaderna davanti a noi l’Isola di tripudi e di sfacelo, intrisa di segreta magia e di quotidiana fatica.
«Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristemente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: — Qui di chi è? — sentiva rispondersi: — Di Mazzarò. […] Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra».
Qualcosa di cosmico e di veramente antico.

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