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Cosmologia e Metafisica

Vorrei indicare brevemente qual è il fondamento fisico della prospettiva metafisica che in vari libri e saggi cerco di formulare. Si tratta di un fondamento cosmologico che rende assai evidente la completa insignificanza del nostro pianeta nell’universo e quindi l’inessenzialità della nostra e delle altre specie viventi.
Tale realtà è descritta in modo semplice e chiaro in un articolo del numero 60 (aprile 2025) del mensile Cosmo2050. L’articolo si intitola Il respiro dell’universo, l’autore è Marco Sergio Erculiani. Ne riporto qui l’incipit (p. 28), particolarmente efficace. Invito a porre attenzione al significato dei numeri che si utilizzano in questo testo e ricordo che la luce viaggia alla velocità di quasi 300.000 km al secondo; già immaginare quindi che cosa sia un solo anno luce è per la nostra mente un’impresa improba:

Se ci limitiamo alla materia ordinaria, l’universo è un insieme di centinaia (o migliaia) di miliardi di galassie, tutte connesse fra di loro dalla forza di gravità. Come una immensa rete neurale che respira e si espande alla velocità che aumenta all’aumentare della distanza a cui si osserva: circa 73,2 km al secondo per ogni megaparsec (Mpc), dove 1 Mpc equivale a 3,26 milioni di anni luce.
Non è semplice comprendere l’Universo. Sia dal lato fisico che dal lato esperienziale. Basti pensare alla unità di misura delle distanze che si usa in astronomia: l’anno luce, la distanza che la luce può percorrere in un anno. Stiamo parlando di 9460 miliardi di chilometri, equivalenti al percorso che compie la Terra intorno al Sole in 10.000 anni. Nonostante le grandi dimensioni di questa unità, le misure dell’Universo richiedono dei numeri giganteschi. La nostra Galassia ha un diametro di 100mila anni luce, la galassia di Andromeda, la più vicina a noi, dista 2,45 milioni di anni luce. Il raggio dell’Universo osservabile è stimato in circa 46,5 miliardi di anni luce…
Queste cifre sono utili come strumenti matematici ma sono inafferrabili dalla nostra coscienza.

L’articolo prosegue inserendo il nostro sistema solare all’interno della Via Lattea, la quale è soltanto una delle miliardi di galassie che compongono il Superammasso della Vergine, che fa parte a sua volta di una immensa e impensabile struttura chiamata Laniakea (in hawaiano: ‘Paradiso infinito’). Ma anche Laniakea è parte di una realtà più ampia denominata Superammasso di Shapley.

Per capire ancora meglio, consiglio anche la lettura di un breve testo pubblicato sul sito della rivista: Dalla Terra ai confini dell’Universo.
Di fronte a tali dati e all’impensabile (alla lettera) vastità dell’Universo, ritengo che l’unico atteggiamento metafisico e scientifico sensato sia l’antropodecentrismo.
Prospettiva che era già assai chiara nei Dialoghi di Giordano Bruno, in particolare nella Cena de le Ceneri, nel De la causa, principio e uno, nel De l’infinito, universo e mondi. Prospettiva che fonda anche una filosofia assai diversa da quello di Bruno, la Teodicea di Leibniz, il quale pensa correttamente che la Terra

n’est qu’une planète, c’est-à-dire un des six satellites principaux de notre soleil ; et comme toutes les fixes sont des soleils aussi, l’on voit combien notre terre est peu de chose par rapport aux choses visibles, puisqu’elle n’est qu’un appendice de l’un d’entre eux. […] Que ce soit le ciel empyrée ou non, toujours cet espace immense qui environne toute cette région pourra être rempli de bonheur et de gloire. […] Que deviendra la considération de notre globe et de ses habitants ? Ne sera-ce pas quelque chose d’incomparablement moindre qu’un point physique, puisque notre terre est comme un point au prix de la distance de quelques fixes ?

 

La Terra è soltanto un pianeta, vale a dire uno dei sei principali satelliti del nostro Sole; e come tutte le stelle fisse sono anch’esse dei soli, si vede come la nostra Terra sia poca cosa in confronto all’insieme delle cose visibili, poiché non è altro che un’appendice di una di tali stelle. […] Che si tratti o meno dell’Empireo, questo immenso spazio che circonda l’intera regione [visibile] potrebbe essere colmo di felicità e di gloria. […] Che cosa diventerà la considerazione del nostro globo e di chi lo abita? Non sarà qualcosa di incomparabilmente inferiore a un punto fisico, poiché la nostra Terra è come un punto rispetto alla distanza delle [stelle] fisse? (Théodicée, I, § 19).

Di fronte alla potenza e alla densità del cosmo appaiono inoltre veramente bizzarri la pretesa di negare la realtà fisica del tempo (che invece con l’universo coincide) e di attribuire alla nostra specie una qualche funzione produttiva del reale (il Geist, lo Spirito), come fanno le diverse forme di idealismo e di trascendentalismo.
La critica marxiana all’idealismo della Heilige Familie, della sacra famiglia degli idealisti, per essere completa deve diventare una critica anche e specialmente dell’antropocentrica famiglia, della quale fanno parte, insieme agli idealisti, anche e soprattutto i monoteismi religiosi e le filosofie del soggetto umano sovrano.
La misura, il senso e la funzione di Homo sapiens sono ciò che la cosmologia indica con implacabile chiarezza: un nulla.

La perfezione, la pura energia senza dolore, la luce, il divino.
Essere questo, non un umano, essere il Sole, essere stella.

Il Sole in una foto di Salvo Lauricella

Statue

Vasco Ascolini. De Statua
Galleria 70 – Milano
Sino al 15 giugno 2025

Una piccola ma nota galleria milanese, la Galleria 70 di Eugenio Bitetti, non si è mai piegata a ciò che Giuseppe Frazzetto ha definito il sistema dell’arte, basando invece ogni propria scelta, tematica e artista sulla necessità del bello. Una necessità plurale, vasta, che può toccare le epoche e gli spazi più diversi.
Le trenta immagini nelle quali sino al 15 giugno sarà possibile entrare costituiscono una prova di tale modo di intendere l’arte e la funzione del gallerista. L’autore è Vasco Ascolini, artista noto in tutto il mondo e che ha fotografato delle statue in varie città d’Europa. Fotografato? No, Ascolini le ha rese vive, le ha fatte dialogare tra di loro e con chi guarda, le ha fatte emergere dal buio, le ha rivestite di una luce che è insieme pacata, inquietante e profonda.
Le sue sculture non sono mai separate e astratte ma appaiono sempre poste in continuità con lo spazio. E questo accade che si tratti di musei, di chiese, di laboratori di restauro, di piazze e persino di magazzini dove le statue aspettano di essere curate o esposte. Lo spazio e la luce sono i veri elementi di un dialogo con il marmo che rende il marmo luminoso pur essendo fotografato sempre nel bianco, nel nero e nel grigio. Fotografato in una gamma di sfumature del grigio davvero speciale, frutto anche del fatto che Ascolini sviluppa personalmente nella camera oscura le proprie immagini. Tanto da aver smesso di fotografare quando per ragioni di salute non gli è stato più possibile operare sui suoi negativi. Perché, scrive Bitetti nel catalogo, «essendo per lui la fase della stampa inseparabile dall’intero processo di creazione dell’immagine, aveva preferito smettere. Un ragionamento forse inconcepibile per i criteri della logica contemporanea».
Eleonora d’Aragona emerge dall’ombra, somigliante a una statua asiatica. Un busto del Musée Rodin è circondato dalle luci, riflesse probabilmente da un lampadario. Riflesso che moltiplica i cenni in un profilo dell’Altes Museum di Berlino nel quale due figure che sono la stessa statua sembrano entrare e uscire nello spazio silenzioso della stanza, sullo sfondo di una grande finestra. Da una colonna del Duomo di San Giovanni in Persiceto l’aquila guarda in alto verso il Quarto vangelo ma di essa si scorge soltanto il busto e del libro solo il frammento di una pagina. Da un altro Duomo, quello di Mantova, una figura emerge come ierofania dallo spazio buio. Nella luce di Trieste, invece, una statua su un piedistallo guarda il mare, perfettamente al centro di una costruzione prospettica fatta di alberi, di vasi, di siepi. Di uno dei tesori del Museo Archeologico Nazionale di Atene rimane la linea d’ombra e di luce, una curva di materia cosmica (immagine di apertura).
Queste e altre opere sono trasfigurate, diventano tutte contemporanee e soprattutto sono vive, veramente vive. «Di rado si rinviene in arte una qualità dinamica tanto vera, un senso di movimento così naturale come nelle statue di Ascolini», scrive ancora Bitetti. Il quale ha posto le immagini in dialogo con alcune opere di arte africana che rendono così prezioso il suo spazio.
E allora comprendiamo il segreto di tutto questo: l’animismo. Come le sculture d’Africa, anche le statue di Ascolini sono vive e totali poiché sono sacre, perché in esse accade, si incarna e splende la luce della materia plasmata dalle forze divine del mondo, dalla potenza quieta della natura dio. 

Paesaggi / Luce

PAESAGGI. Realtà Impressione Simbolo
Da Migliara a Pellizza da Volpedo

Castello di Novara
A cura di Elisabetta Chiodini
Sino al 6 aprile 2025

La luce, la luce ovunque. I paesaggi in mostra a Novara sono paesaggi di pianura, di città, di lago, di montagna. Ma essi non sono fatti soltanto di pietra, di acque, di aria tersa o di nebbia. Sono fatti di luce. Perché è questo che la pittura, la grande pittura, da sempre disegna, da sempre trasmette: la luce. E questo dentro e al di là della differenza di stile e di epoca tra i vari pittori.
A emergere è la luce potente e malinconica della Laguna di Venezia, un giallo e un rosso che si stagliano sulla tela come una scultura; la luce quasi inquietante nella sera di altre acque, quelle del Lago di Varese, luce che sembra emergere non dall’aria, non dall’alto ma dal basso, dalle acque stesse; la luce dei campi in estate, che appare più forte delle nuvole, come se esse non ci fossero o la luce non tenesse conto della loro presenza (immagine di apertura: Nei campi, di Giorgio Belloni, 1899); la luce fatta del grigio su grigio che il fumo di una locomotiva dipinge sul pomeriggio oscuro, su montagne accennate nello sfondo, sul prato dal treno attraversato; la luce dell’officina di un maniscalco ad Ancona, che pur confinata in un angolo del quadro è capace di trasmettere le proprie scintille ai ponti, alle acque, all’Arco di Traiano; la luce che avvolge di se stessa Milano e il Naviglio che la bagnava a San Marco. Un quadro, quest’ultimo di Segantini, nel quale la nettezza dei contorni, la rigorosa plausibilità di ogni particolare, la pulizia del mondo e la gioia di attraversarlo restituiscono sorriso al tempo, a ogni tempo.
Questa è la gioia che per millenni e da millenni l’arte figurativa ha trasmesso ai suoi fruitori, ai suoi autori. E che il Novecento ha forse con troppa leggerezza in gran parte ripudiato.
Perché il mondo non è «scritto in lingua matematica», come si legge in una celebre pagina del Saggiatore di Galilei, non è scritto soltanto in quella lingua ma in una varietà di lessici, grammatiche e alfabeti, che il riduzionismo galileiano tende a ignorare.
Anche Platone nutriva un sogno matematico di freddezza e perfezione ma Platone saggiava questo sogno al fuoco della luce metafisica, della luce di un mondo reale fatto di materia che esiste e di materia che la mente trasfigura, senza mai confondere la sostanza ontologica del reale con la sua conoscenza epistemologica. La  fatale confusione tra il linguaggio matematico e la sostanza della materia è dei moderni, compresi i moderni che hanno trasformato in sola e pura proporzione aritmetica il fare artistico.
Nei dipinti esposti al Castello di Novara la proporzione della figure e degli spazi è del tutto evidente e possiede, ovviamente, un fondamento matematico-geometrico, ma esso è funzionale alla realtà autonoma della luce, che l’artista cerca di cogliere come meglio può e di restituire sulla tela.
Luce intrisa di vento, della trasparenza degli elementi, di colori netti e potenti, di vibrazioni interiori, di forme oggettive.

Migliara, Esterno di città (1829)
Canella, Laguna di Venezia presa dal Campo di Marte (1838)
Luxoro, La via ferrata (1870)
Befani (Formis), Ritorno da una refezione sul Lago di Varese (1873)
Segantini, Naviglio a Ponte San Marco (1880)

 

Un lupo di mare

A Salty Dog
Procul Harum (1972)

L’Art Rock trova in questo brano il suo capolavoro. La ballata del vecchio marinaio di Coleridge diventa una sinfonia che nella versione dal vivo eseguita nel 2006 in Danimarca ha proprio le dimensioni e l’aspetto di un concerto di musica classica.
È un brano che nella sua ampiezza abbracciante il cosmo ha qualcosa di profondamente malinconico, come un rimpianto per ciò che di bello e grande la vita avrebbe potuto offrire e che invece non ha dato. Il testo esprime una delle più antiche metafore dell’umana esistenza, un viaggio nell’ignoto, dal nulla verso il nulla, o anche dalla luce verso la luce.

All hands on deck, we’ve run afloat,
I heard the Captain cry.
Explore the ship, replace the cook,
Let no one leave alive.
Across the straits, around the horn,
How far can sailors fly?
A twisted path, our tortured course
And no one left alive.

We sailed for parts unknown to man,
Where ships come home to die.
No lofty peak, nor fortress bold,
Could match our captain’s eye.
Upon the seventh seasick day,
We made our port of call.
A sand so white, and sea so blue,
No mortal place at all.

We fired the guns, and burned the mast,
And rowed from ship to shore.
The captain cried, we sailors wept,
Our tears were tears of joy!
Now many moons and many Junes,
Have passed since we made land.
A Salty Dog, the seaman’s log,
Your witness, my own hand.

***************

Tutti sul ponte, siamo riusciti a stare a galla,
Ho sentito il Capitano piangere.
Setaccia la nave, rimpiazza il cuoco,
Che nessuno se ne vada vivo.
Oltre lo stretto, oltre il Capo,
Quanto lontano possono volare i marinai?
Un percorso tortuoso, il nostro percorso tormentato,
E nessuno è rimasto vivo.

Abbiamo navigato verso luoghi sconosciuti all’uomo,
Dove le navi tornano a casa per morire.
Nessuna vetta alta, né fortezza ardita
Potrebbe eguagliare l’occhio del nostro capitano.
Nel settimo giorno di mal di mare,
Abbiamo fatto scalo.
Una sabbia così bianca e un mare così azzurro,
Nessun luogo mortale.

Abbiamo sparato con i cannoni e bruciato l’albero maestro,
E remato dalla nave alla riva.
Il capitano piangeva, noi marinai piangevamo,
Le nostre lacrime erano lacrime di gioia!
Ora molte lune e molti mesi di Giugno,
Sono passati da quando abbiamo toccato terra.
Un Lupo di Mare, il diario di bordo del marinaio,
Il tuo testimone, la mia mano.

(Traduzione di Guido Carosella)

Astronomia

Massimo Capaccioli
L’incanto di Urania
Venticinque secoli di esplorazione del cielo
Carocci, Roma 2020
«Sfere / 157»
Pagine 531

Urania è la musa dell’astronomia, l’unica scienza dura ad avere una propria musa. Una scienza del tutto particolare, nella quale non sono possibili i comuni esperimenti da laboratorio ed è invece richiesto un grande talento ermeneutico/teorico nella interpretazione dei dati, che per millenni sono stati raccolti con il semplice ausilio degli occhi e da quattro secoli con quello di strumenti all’inizio ancora soltanto ottici e ora multimessaggeri, vale a dire capaci di conservare e far interagire tra loro fonti diverse di informazione sulla materia, come fotoni (la luce, appunto), raggi cosmici, neutrini, onde radio, onde gravitazionali.
L’astronomia è stata anche uno dei grandi ingressi alla civiltà postmedioevale. Fu essa infatti a mettere in crisi il paradigma antropocentrico – sostenuto per millenni dalla cosmologia tolemaica e aristotelica – e poi ad ampliare gli spazi della mente e della materia verso misure impreviste e impensabili. Se l’astronomia antica dava conforto alla mortalità umana ponendo la nostra specie in ogni caso al centro del cosmo, la scienza contemporanea ha aperto agli astronomi e a tutti gli umani «il regno delle galassie e relegato la Via Lattea a semplice esemplare di un universo isola» (p. 278).
Una ‘contemporaneità’ assai recente – un secolo circa – nella quale le misure lineari si sono dilatate tanto da richiedere un nuovo criterio che non è più lo spazio statico ma uno strumento dinamico e temporale quale la velocità della luce. Come tutto ciò che esiste, anche le stelle hanno mostrato una natura temporale, iniziando la loro esistenza «con un collasso gravitazionale di una nube di gas che scalda il cuore della protostella, completandosi con l’accensione di una fornace centrale. Qui la fusione dell’idrogeno in elio procura l’energia con cui vengono rimpiazzate le perdite per irraggiamento» (437). Un’esistenza che può durare più o meno a lungo ma sempre su tempi per l’umano immensi.

Il valore dell’energia che è in gioco nelle stelle è diventato inimmaginabile, come hanno confermato la scoperta (nel 1934) delle supernovae, «astri ipertesi, con una massa come quella del Sole e grandi come una città» (362) a dimostrazione di quanto estrema possa diventare la densità della materia, e poi la scoperta (nel 1964) delle sorgenti radio quasi stellari, quasar e ancora (nel 1968) la scoperta delle pulsar, sorgenti radio capaci di variare più volte al secondo i propri valori. E su tutto sta il duplice enigma dei buchi neri e della materia oscura, la conoscenza della cui natura è lenta e difficile.
I black holes costituiscono delle singolarità, vale a dire fenomeni per i quali non valgono le leggi fisiche conosciute e che rimangono inaccessibili all’esperienza, «oggetti talmente compatti da essere contenuti entro il proprio orizzonte, ossia entro un ideale guscio che demarca il confine tra lo spazio-tempo reale e quel non mondo dal quale nemmeno la luce può fuggire» (435).
Della dark matter si conosce ancor meno. Sostanzialmente si sa che si tratta di materia «relativamente fredda, cioè animata da velocità modeste rispetto alla luce (il che implica particelle ‘oscure’ con masse individuali relativamente grandi) e non collisionale, ossia che non interagisce né con sé stessa né con la materia ordinaria, gravità a parte» (442). Una presenza pervasiva, dagli effetti decisivi sulla costituzione della materia visibile, della luce e del vuoto. Quasi il 75% della materia/energia sarebbe infatti oscura e la luce rappresenterebbe soltanto una parte piuttosto piccola del cosmo, «un ingrediente marginale dell’universo» (440).
E questo significa che «il vuoto non è affatto vuoto e anzi possiede risorse che crescono proporzionalmente alla dilatazione dello spazio. […] Ci sono invece molte e diverse osservazioni a conferma di un paradigma di universo dove la materia ordinaria è ormai poco più che una traccia spersa in un mare di componenti oscure» (447).
Il lungo percorso – reso da questo libro avvincente – che dall’osservazione dei cieli babilonesi e greci perviene all’astrofisica del XXI secolo è molto differenziato ma è anche segnato da costanti teoretiche, sociologiche e psicologiche.

La prima e più importante riguarda l’indissolubilità del legame tra astronomia e temporalità. Studiare gli astri vuol dire analizzare lo spaziotempo in qualche modo infinito, in qualche modo eterno, in qualche modo costante e insieme dinamico. Se le ipotesi di Wright, Kant, Laplace mettevano «la parola fine al lungo capitolo dell’universo sidereo immutabile e perfetto, introducendo nella filosofia naturale quel concetto di evoluzione che avrebbe avuto come prima conseguenza la nascita della termodinamica in fisica, e nella genetica l’esplosione della rivoluzione darwiniana e lamarckiana» (180), al tempo si piega anche la fisica relativistica, la quale nonostante le tendenze eleatiche e spinoziste del suo fondatore – che da «grande estimatore di Baruch Spinoza, proprio dal filosofo sefardita bandito dalla sua comunità per le temerarie riflessioni sulla religione aveva tratto il convincimento che Dio e natura fossero in qualche misura sinonimi, e che pertanto il cosmo dovesse godere del medesimo attributo della divinità: un’eternità immobile e senza tempo» (289) – ha contribuito alla scoperta e alla comprensione di molti fenomeni che confermano la natura pulsante ed evolutiva della materia, tanto che da una ventina d’anni ormai sembra accertato che «l’età dell’universo [sia di] 13,72 miliardi di anni, con un’incertezza di un centinaio di milioni d’anni. Oramai il modello stazionario di Hoyle, Bondi e Gold era stato ampiamente falsificato dall’accidentale scoperta della radiazione cosmica di fondo (Cosmic Microwave Background Radiation – CMBR)» (392).

La costante sociologica si esprime nella inseparabilità delle vicende di una scienza in qualche modo assoluta qual è l’astronomia rispetto alle vicende storiche e sociologiche alle quali il libro dedica riferimenti sintetici ma sistematici. E si esprime soprattutto in un fattore tutto interno al lavoro scientifico, il quale è sempre sottoposto alle forze d’inerzia della tradizione, del potere accademico, delle strumentalizzazioni e dei finanziamenti da parte del potere politico. «Un esempio recente e clamoroso di questo condizionamento psicologico è il modello statico cui Albert Einstein fu indotto dalla sua adesione al panteismo spinoziano che pretendeva l’immutabilità del tutto; una pregiudiziale visione del mondo che il genio tedesco riconobbe essere stato il ‘più grande errore’ della sua vita» (34) e un altro esempio riguarda sempre Einstein attraverso il sostegno datogli da uno dei maggiori astronomi del Novecento, Arthur Eddington, il quale arrivò a misure che collimavano perfettamente con le previsioni einsteiniane ma che successivamente vennero dimostrate false: «Forse, nel cercare una risposta commise qualche errore o forse, abbagliato dal desiderio di poter provare la veridicità di una teoria che lo aveva completamente sedotto, forzò la mano ai dati. Buon per Einstein, che di punto in bianco diventò un’autentica star» (289).

La costante psicologica è data dalla presentazione sempre vivace, disincantata e persino divertita dei caratteri degli astronomi, delle loro passioni, idiosincrasie, gelosie, cecità, miserie. Tra i più spregiudicati e scorretti scienziati di ogni tempo vi è certamente Newton, il quale giunse «persino a far distruggere una tela che rappresentava il suo nemico [Robert Hooke] nelle sale della Royal Society. Meschino ma anche pavido: non osò infatti pubblicare il suo trattato di ottica (Opticks, 1704) sin quando Hooke, piegato dagli acciacchi, non si spense. Forse il contorto genio del Trinity College temeva l’insorgere di altre accuse di plagio, come quella rivoltagli dal tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz in merito alla teoria delle flussioni. Una disputa internazionale nella quale Newton diede nuovamente prova della sua totale mancanza di scrupoli» (135). Tendenza al plagio che caratterizzò anche alcuni momenti della carriera di Edwin Hubble (313).

Storia dunque di umani e di macchine, di astrazioni e di tecnologie – dettagliatissima la storia dei telescopi –, di paradigmi e di rompicapo che mettendo in crisi le verità conducono a nuove risposte perché fanno sorgere rinnovate domande. Emblematico il caso della cosiddetta ‘costante di Hubble’ che dovrebbe indicare l’età dell’universo e che è caratterizzata da una radicale incostanza, mutando valore con una certa frequenza. Essa infatti non soltanto «assume valori differenti a seconda del metodo impiegato» ma diventa un elemento «patologico qualora le misure siano molto precise e tuttavia in disaccordo tra di loro. Se confermata, questa anomalia richiederà un drastico ripensamento della teoria che ne prevede la costanza» (447).
In ogni caso, l’astronomia conferma di costituire insieme alla matematica la più filosofica delle scienze poiché per sua natura la cosmologia è «la scienza che studia il tutto nel suo insieme con l’intento di spiegarne l’origine e la trasformazione» (444), uno degli obiettivi costanti della filosofia.

Brassaï

Brassaï . L’occhio di Parigi
Palazzo Reale – Milano
A cura di Philippe Ribeyrolles
Sino al 2 giugno 2024

Brassaï, pseudonimo dell’ungherese Gyula Halász (1899-1984), è stato uno dei grandi fotografi che in Francia hanno documentato la pienezza della vita, dell’eros, degli spazi, di Paris città-mondo, e in tutto questo hanno percepito con lucidità, rassegnazione, forza, malinconia, che stavano fotografando e descrivendo «le ultime vestigia un mondo che stava scomparendo», come Brassaï sinceramente dirà.
Il suo metodo per scoprire, alla lettera, il reale, per dargli significato e dunque trasformarlo restandogli fedele, è ciò che definiva «ubbidire alla dittatura dell’occhio». E l’occhio di Brassaï vede tutto, di tutto è curioso, tutto documenta, tutto cerca di ricordare, a tutto vuole offrire la pienezza della forma. L’acciottolato delle strade nelle notte riverbera di luce lo spazio. Un rigagnolo lungo la strada ha la sinuosità di un grande fiume.

Brassaï. Rigagnolo, strada

Una patata e delle gocce d’acqua sulle foglie diventano sculture e volumi sferici in uno spazio astratto. Dei vetri frantumati scandiscono il ritmo musicale del pieno e del vuoto. Il banale è trasformato in paradosso.
Una lunga galleria di ritratti di pittori e scrittori del Novecento (tra i quali Picasso, Braque, Léger, Giacometti, Cocteau, Beckett, Ionesco, Nin, Dalí, Breton…) si alterna a immagini che descrivono ambienti sociali e circostanze tra loro molto diversi: proletari, bande di piccoli delinquenti, prostitute, feste e personaggi dell’alta società e del mondo della moda. Una curiosità antropologica inesauribile anima infatti questo artista.
Due sezioni sono dedicate ai graffiti di Parigi e di altri luoghi – nei quali Brassaï scorgeva forme espressive di grande significato e valore – e alle sculture e ai disegni. Soprattutto le sculture sono di grande pulizia e suggestione formale. E poi i luoghi proustiani, il Bois de Boulogne, i ponti, le chiatte, la Senna, le balere, le trattorie, i bordelli, i bistrot, le ballerine, un bacio sulla ruota vorticosa di un luna park, bacio reso immobile dalla tecnica raffinata del fotografo. Il quale nella camera oscura operava sulle lastre creando ciò che chiamava «la seconda realtà», e invocando attraverso il proprio sguardo, mediante l’occhio e la sua ‘dittatura’, con l’ausilio di ogni possibile strumento tecnico, invocando il tempo. Brassaï scrive esplicitamente che la sua opera è un tentativo di andare «alla ricerca della poesia del tempo». Per restituirne la musica, il segreto, la potenza.
L’immagine di apertura si intitola Les Escaliers à Montmartre (1932) e (durante una conferenza tenuta a Boston nel 1977) di essa Brassaï disse che «prima di essere colpito dal soggetto, l’occhio dello spettatore deve essere catturato dalla sua forma, dalla struttura dell’immagine […] Solo le immagini rigorosamente costruite possono entrare nella memoria e diventare indimenticabili. La composizione di questa fotografia deve risultare istintiva e non studiata». Parole e immagine dove c’è per intero Brassaï, dove emerge la struttura dello spaziotempo come ombra e come luce.

Brassaï. Strada, acciottolato, hotel

Morandi

Giorgio Morandi
1890-1964

Palazzo Reale – Milano
A cura di Maria Cristina Bandera
Sino al 4 febbraio 2024

Un rigore formale che attinge alle geometrie di Piero della Francesca ma con la tonalità tutta novecentesca di un immanentismo che si fa anch’esso distanza dagli eventi e dalla morte, come accade allo slancio verticale di Piero. Una prospettiva stratificata su più piani, attraverso forme e pennellate che all’inizio sembravano vicini alla Metafisica e al Realismo magico e poi divennero altro, divennero il sacro che dalle tele di Morandi spira.
Una luminosità fredda e antica si fa forma nelle fronde immobili, in un dolore oggettivo, nelle conchiglie, nei fossili, negli oggetti che si raggrumano e producono nel loro tacere luce. È un mondo fatto di geometrie, di parallelepipedi, di paesaggi «inameni», come li definì Roberto Longhi. Un mondo abitato da una forza di gravità interiore che stringe sempre più gli oggetti gli uni con gli altri, rendendo fermo lo spazio.
Giustamente la curatrice della mostra milanese afferma che in Morandi «la  luce ha un’incidenza metafisica. Lo spazio non è misurabile né percepibile» e nelle opere ultime la sua è «una materia che sta scomparendo». Una materia che si dissolve nella pienezza dell’essere. Morandi lo intuì e scrisse che «quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose».

Morandi. Natura morta, 1918-1919

L’arte di Morandi mostra tale essenza, dispiega la potenza della materia e del silenzio. Nessun umano appare nei suoi quadri. Anche per questo offrono la pace della materia che in un suo intervallo sarà stata anche protoplasmatica, vegetale e animale, sarà stata materia artificiale e macchinica. Ma a rimanere sarà la materia minerale e cosmica, la sua potenza. Rimarrà la materia e basta. Non più gli umani, materia miserrima dentro il cosmo, e neppure soltanto gli altri animali, vertebrati o invertebrati, di terra o di mare, volatili e insetti. Nemmeno le piante, i fiori, il grano. Rimarrà soltanto la materia, le rocce, le lave. E le stelle. La pura luce, la loro luce. Le trasformazioni elettromagnetiche che invadono di fulgore lo spazio silenzioso e perfetto nel quale di tanto in tanto la materia si raggruma in polvere, pianeti, astri. Qui non c’è sofferenza. Non c’è mai stata. Nulla nasce e nulla muore. E il tempo accade senza posa nel movimento delle masse e nella potenza dell’energia.

Morandi. La strada bianca, 1941

[L’immagine di apertura è una Natura morta del 1957. Le ultime righe di questo testo sono già state utilizzate da me in altre pagine del sito, parlando della musica di Jean-Philippe Rameau, di un film di fantascienza (Life, 2017), di una lezione alla Scuola Superiore di Catania. Si tratta infatti di una concezione della materia/luce del tutto affrancata da ogni antropocentrismo, una tesi per me fondamentale]

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