Skip to content


Giuliano

Sine ira et studio Maria Carmen De Vita cerca di presentare una figura poliedrica, sfuggente, molteplice e complessa come l’imperatore Giuliano, che governò Roma dal dicembre del 361 al giugno del 363. Diciotto mesi soltanto, che però sono rimasti nella storia politica e in quella della filosofia assai più di quelli di tanti altri nomi della vicenda imperiale latina. Posto esattamente a metà tra l’epoca di Marco Aurelio e quella di Giustiniano, Giuliano costituisce infatti per molti versi un enigma della storia tardoantica.
Di una personalità così complessa, la cui azione ha suscitato passioni opposte e feroci, è difficile dire chi veramente sia stato e che cosa abbia rappresentato dentro un’istituzione e un mondo che andavano lentamente sgretolandosi. Forse Giuliano capì assai meglio di tanti altri una delle ragioni che contribuivano dall’interno alla dissoluzione della Romanità e cercò di fermarne l’espansione con i mezzi che la cultura e il potere gli mettevano a disposizione. Stratega capace e lettore onnivoro, sacerdote pagano e filosofo neoplatonico, imperatore austero e autore pungente di satire, Giuliano è forse davvero l’ultimo grande politico romano.

L’ampio saggio introduttivo alle sue opere – una vera e propria monografia di 300 pagine – delinea in modo articolato un’azione prima di tutto politica e poi teoretica. Nonostante «la sconcertante varietà e contraddittorietà di stimoli forniti dalla sua persona politica, dalle sue scelte, dalla sua filosofia»1, «i diversi aspetti dell’azione giulianea si rivelano strettamente connessi» (p. LII). Essi vanno sempre collocati sullo sfondo e dentro le complesse dinamiche comunicativo/retoriche e interreligiose che caratterizzano il mondo tardoantico. Giuliano fu infatti anche un formidabile retore, educato sin da ragazzo alle più raffinate tecniche comunicative che la cultura greca sviluppava da secoli. E fin da ragazzo fu anche educato alle arti militari tanto che, prima come Cesare delle Gallie e poi come sovrano di tutto l’impero, Giuliano non venne mai sconfitto in battaglia. La lancia che nel 363 gli tolse la vita sembra che fosse stata scagliata da mano romana, forse da un soldato cristiano che – come tanti altri suoi correligionari – vedeva nell’imperatore il fantasma di un ritorno del politeismo.
La stessa mano cristiana, stavolta di un altro imperatore (Valentiniano III) e dei suoi collaboratori,  decretò nel 448 il rogo del libro che Giuliano aveva scritto Contra Galilaeos, vale a dire conto i cristiani. Libro che – come molti altri testi pagani distrutti dai cristiani – ci rimane in forma di frammenti citati in questo caso dal vescovo di Alessandria Cirillo allo scopo di confutare i contenuti di quel testo. Ed è anche a questo rogo del Contra Galilaeos – e di migliaia di altri documenti culturali, di opere, di capolavori del pensiero e della letteratura antica – che bisogna pensare quando si rimprovera Giuliano di aver voluto impedire ai professori cristiani di insegnare i miti e la filosofia pagani nelle scuole, senza in nulla toccare non soltanto le loro vite ma neppure la loro professione, invitandoli semplicemente a insegnare le Scritture cristiane. 

La realtà dei fatti è che il regno di Giuliano e la sua persona furono caratterizzati da un atteggiamento di profonda tolleranza religiosa e persino di non-violenza, per ragioni anche culturali che affondano nelle posizioni filosofiche dell’imperatore. Nonostante le continue calunnie di Gregorio Nazianzeno (personaggio davvero ossessionato da Giuliano) e di altri cristiani, è infatti «certo che Giuliano non rovesciò l’editto di Costantino, non proclamò il cristianesimo religio illecita, né ricorse a mezzi drastici per vietare ai credenti la celebrazione dei loro riti» (LXXXIV). In generale, e questo è uno dei risultati più importanti delle indagini di De Vita, «l’impegno a favore dell’Ellenismo non sfociò mai, comunque, in una vera e propria persecuzione anticristiana; appena divenuto imperatore, Giuliano promulgò un’amnistia, concedendo il ritorno nelle loro sedi ai vescovi che erano stati precedentemente esiliati; nei mesi successivi mirò sostanzialmente all’abolizione dei privilegi concessi al clero e alla Chiesa da Costantino e Costanzo» (XXX). E questo perché quella incarnata da Giuliano fu «una filosofia-religione che aveva nel risanamento etico, nella fiducia nel logos e nella non-violenza (perfino contro gli avversari Galilei) i suoi cardini teorici» (CCLXIV).
Nonostante l’ambiente cristiano nel quale venne educato, Giuliano si immerse nella παιδεία ellenica, da lui vissuta come una integrale esperienza di saggezza/φρόνησις e di libertà/ελευθερία sia individuale sia collettiva. Il suo amore per i libri, per la conoscenza, per la lettura fu profondo e contribuì a farne un autentico filosofo, oltre che un politico e un militare. La filosofia di Giuliano è una complessa articolazione delle varie correnti del neoplatonismo, volta soprattutto a mantenere la natura e la struttura razionali del pensiero classico, evitando di dare troppo spazio alle correnti e alle pratiche teurgiche di Giamblico e di altri neoplatonici, nonostante la grande ammirazione da Giuliano nutrita verso il filosofo di Calcide. Agli amici Eumenio e Fariano, ad esempio, raccomanda che «tutti gli sforzi siano per la conoscenza delle dottrine di Aristotele e di Platone» (sezione Lettere scritte in Gallia, lettera 8, 441c, p. 5)
La ricca teologia solare di Giuliano è anche un tentativo di mantenere le differenze interne al divino, tipiche della religione greca, e insieme di coniugarle con le tendenze verso un forte principio unitario che caratterizzano non soltanto il monoteismo cristiano ma anche il pensiero plotinano dell’Uno. Giuliano trasforma «di fatto il pantheon greco-romano in una catena di divinità eliache, un sistema gerarchico di divinità subordinate all’entità suprema, che anticipa gli sviluppi della speculazione metafisico-teologica dei neoplatonici del V secolo» (CCXXI). Questa filosofia aveva anche lo scopo di rispondere alle esigenze religiose profondamente sentite dalla società del IV secolo, preservando comunque i cittadini romani dall’irrazionalismo e quindi anche «dalle tenebre dell’ignoranza galilea» (CCXXVI).

Il lavoro culturale contro la teologia cristiana deve molto agli scritti di Celso e di Porfirio ma possiede elementi di originalità che affondano appunto nel primato del culto solare e nel complesso significato che per Giuliano caratterizza il ‘paganesimo’. Questo concetto è utilizzato dall’imperatore 

per esprimere una pluralità di nozioni diverse, fra loro collegate: una realtà storico-geografica (la Grecia e soprattutto l’Atene dei tempi di Temistocle e Pericle, di Socrate e di Platone); un’etnia e una cultura considerate superiori a quelle degli altri popoli; infine, alcune qualità intellettuali e morali d’eccezione, che consentono persino a un Celta come Salustio o a un Tracio come Giuliano di definirsi Elleni nei costumi e nell’indole, e rendono i Romani, a distanza di tanti secoli, gli eredi più degni del patrimonio ellenico (L).

Giuliano coniuga dunque le tendenze mistiche dell’ultimo neoplatonismo con un solido realismo politico. Il suo obiettivo primario, che è insieme filosofico e sociale, consiste nella salvaguardia dell’identità greca del Mediterraneo e dell’Impero e nel mantenimento dell’unità degli Elleni, ai quali cercò di restituire lo «spazio culturale e linguistico usurpato dai nuovi teologi cristiani» (CCCVIII).
L’azione dell’imperatore Giuliano fu permeata di profonde convinzioni cosmologiche e teologiche, sempre vissute però in una «scelta di realismo» (CCXCII) che cerca di salvaguardare l’unità del mondo greco-romano e di ampliarne i confini. «Lungi dall’essere in fuga dalla sua realtà, l’Apostata appare profondamente immerso in essa» (CCXCVII). L’unità di teoresi e di prassi è in lui ancora un’eredità della Grecia.

Nota
1. Maria Carmen De Vita, Flavio Giuliano Claudio: l’autore, l’opera, saggio introduttivo a: Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, Bompiani 2022, p. CCLXV. I numeri di pagina delle successive citazioni compaiono tra parentesi nel testo.

Euskadi

Ogro
di Gillo Pontecorvo
Italia, Spagna, Francia, 1979
Con: Gian Maria Volontè (Ezarra), Féodor Atkine (Txikia), Angela Molina (Amaiura), Saverio Marconi (Iken), José Sacristan (Luke), Eusebio Poncela (Txabi), Nicole Garcia (Carmen)
Trailer del film

Ogro vuol dire Orco. E un regime di orchi fu in effetti quello scaturito dalla vittoria delle forze franchiste nella Guerra civile spagnola (1936-1939). Da allora e sino alla morte di Francisco Franco (1975) la Spagna subì una dittatura sempre più chiusa, feroce, clericale. Collaboratore, delfino, complice di Franco fu l’ammiraglio Luis Carrero Blanco, nominato capo del governo e che assai probabilmente sarebbe stato il successore di Franco alla morte del dittatore. Ma uno dei movimenti nazionalisti e rivoluzionari più organizzati dell’Europa del Novecento – Euskadi Ta Askatasuna ETA, ’Paese basco e libertà’ – uccise Carrero Blanco con un attentato dinamitardo il 20 dicembre 1973.
Il film di Pontecorvo racconta la vicenda partendo dal 1978, quando l’ETA stava accettando la transizione politica in corso in Spagna, nonostante alcuni dei suoi membri proseguissero la lotta armata. L’incontro tra un membro irriducibile dell’organizzazione e sua moglie è l’occasione per ricordare la preparazione dell’attentato (successiva all’iniziale progetto di un rapimento), i rischi, i conflitti, la fatica, la realizzazione. Su tutto aleggia il disincanto di chi sa che darà morte e probabilmente riceverà morte ma è mosso nell’agire da una necessità più forte di ogni incertezza, sentimento, morale. La forza della libertà rispetto a situazioni e condizioni non più accettabili di violenza da parte delle istituzioni dominanti. 

Non sorgerà mai nessun sole dell’avvenire, radioso e senza conflitti, per le comunità umane. Mai. E tuttavia tale consapevolezza non è un buona ragione per non fare di tutto allo scopo di ottenere, difendere, ampliare gli spazi della libertà politica e ideologica senza i quali la vita umana è ancora meno degna di essere vissuta di quanto non lo sia di per sé. E questo vale nonostante il rischio che i rivoluzionari di oggi diventino i tiranni di domani. La libertà vale anche questo rischio perché di fronte alle tendenze conformiste, omologanti, repressive e violente delle autorità istituite – e dei cittadini che se ne fanno complici – le libertà non saranno mai troppe. Mai.

«Si regna infatti in modo assai violento là dove sono considerate un crimine le opinioni che appartengono al diritto di ciascuno, diritto al quale nessuno può rinunciare»; «sarà dunque violentissimo quello Stato nel quale si nega a ciascuno la libertà di dire e di insegnare ciò che pensa, e, al contrario, sarà moderato quello nel quale a ciascuno è concessa questa stessa libertà»
(Baruch Spinoza, Tractatus theologico-politicus, trad. di A. Dini, in «Tutte le opere», Bompiani 2011; cap. 18, § 6, p. 1081 e cap. 20, § 4, p. 1111).

E questo vale sempre: che si tratti di opinioni religiose, filosofiche, politiche, etiche, sanitarie. L’orco del dispotismo travestito da «senso civico», mascherato da «bene», disegnato da «solidarietà per i deboli e i fragili» e così via, questo Leviatano è sempre vivo e per questo bisogna sempre tentare di ucciderlo.

Gillo Pontecorvo racconta la vicenda dell’ETA e del franchismo in modo sobrio e insieme partecipe, lucido e malinconico. La Bilbao degli anni Settanta – città mineraria e industriale – è assai diversa dalla Bilbao che ho visitato nel 2018, città splendida e libera.
Se tale è diventata, come tutta la Spagna, lo si deve anche al fatto che l’attentato contro l’Orco fece capire ai decisori politici spagnoli che dopo Franco quel Paese doveva cambiare. Lo si deve dunque al coraggio e alla determinazione di chi quell’attentato seppe compiere.

Scienza e Covid

Scienza e Covid
in Vita pensata
n. 28, aprile 2023
pagine 15-20

Indice
-Epistemologie
-Feyerabend
-Scienze e storia
-Miti e razionalità
-In difesa della scienza

In questo saggio ho riassunto alcune delle tesi di Disvelamento. Nella luce di un virus ma ho cercato anche di andare oltre, in particolare nell’analisi del rapporto tra sapere scientifico ed epidemia Covid19.
Le posizioni di vari scienziati, medici, filosofi e storici hanno attinto ai risultati più avanzati dell’epistemologia contemporanea, che è profondamente consapevole della fecondità e dei limiti di ogni approccio al reale, della necessità di avere sempre un atteggiamento critico e prudente ai problemi, ai metodi e ai protocolli, se si vogliono salvaguardare i risultati della conoscenza razionale del mondo. Una conoscenza che non può essere dogmatica, pregiudiziale, superficiale, autoritaria. Vale a dire non deve avere i caratteri del senso comune e delle religioni ma deve mettere in atto una serie di pratiche all’altezza della complessità dei problemi.
Come nel libro del 2022, ho cercato quindi di difendere le scienze e la razionalità dalla loro dissipatio, dal loro svanire nei meandri della politica e dello spettacolo. Paul Feyerabend sostiene che «l’unanimità di opinione può essere adatta per una chiesa, per le vittime atterrite o bramose di qualche mito (antico o moderno), e per i seguaci deboli e pronti di qualche tiranno. Per una conoscenza obiettiva è necessaria la varietà di opinione. E un metodo che incoraggi la varietà è anche l’unico metodo che sia compatibile con una visione umanitaria» (Contro il metodo, pp. 38-39). E questo anche perché le scienze hanno a fondamento:
-il rifiuto di ogni fanatismo
-la diffidenza verso il principio di autorità
-la necessità di verifiche accurate e pubbliche di tutto ciò che si sostiene
-la ripetibilità delle procedure
-il ragionamento oggettivo su dei dati quanto più possibile accurati, estesi, condivisi.
E invece la vicenda dell’epidemia Sars-Cov2 è un esempio di oscurantismo culturale, che ha cercato di trasformare la scienza in una superstizione, pratica e atteggiamento da sempre utilizzato da parte di chi comanda, capace di trasformare gli scienziati in maghi al servizio dell’autorità politica. Tutto questo costituisce un grave regresso dello spirito scientifico nelle società occidentali, rappresenta la cancellazione o l’oblio delle più raffinate e argomentate tesi dell’epistemologia, alle quali si è sostituito un rozzo positivismo, come se da Auguste Comte al XXI secolo nulla fosse accaduto.
Nei confronti delle scienze (al plurale) non si deve nutrire fede ma argomentazione, critica, falsificazione, superamento, interrogativi. Nei confronti delle scienze si deve esercitare ciò che un dispotico regime ambulatoriale sta cercando di negare. Senza riuscirci, per fortuna, grazie anche all’atteggiamento scientifico di alcuni dei suoi oppositori.
Nello stesso numero 28 di Vita pensata – dedicato appunto alle Scienze con interventi qualificati e rigorosi di filosofi affermati e di giovani studiosi – è stata pubblicata un’analisi assai chiara dell’anarchismo metodologico, formulata da una delle più competenti studiose europee di Feyerabend, Roberta Corvi, professore ordinario di Filosofia teoretica alla Cattolica di Milano. Consiglio senz’altro la lettura del suo testo dal titolo Complessità della conoscenza: spunti da Feyerabend (in rete e alle pagine 21-26 di questo numero della rivista).

Le Scienze

Da qualche giorno è uscito il numero 28 (XIII anno) di Vita pensata.
Il tema monografico è Le Scienze e questi sono alcuni degli argomenti: l’epistemologia e le prospettive di filosofi come Rawls, Husserl, Gentile, Feyerabend, Leibniz, Proust, Merleau-Ponty; i rapporti tra scienza, epidemia e principio di autorità;  il taglio drastico dei fondi destinati alle Edizioni Nazionali di scienziati che hanno fatto la storia della filosofia e delle scienze in Italia; la neurofenomenologia, la cognizione delle piante, le intelligenze artificiali, compresa ChatGPT; le modalità di controllo della vita e del sapere dalle esotiche denominazioni quali evidence-based practices o evidence-based policies.
L’intenzione è descrivere e difendere la procedura scientifica che è pubblica, ripetibile, controllabile. In caso contrario si tratta di magia, di superstizione, di guru, di sette. Il pervasivo diffondersi di una forma mentis settaria e antiscientifica è una delle conseguenze più devastanti dell’utilizzo politico dei dati scientifici e della prostituzione di troppi studiosi all’autorità. Nei confronti delle scienze (al plurale) non si deve nutrire fede ma argomentazione, critica, falsificazione, superamento, interrogativi. In modo che questi magnifici frutti del pensiero europeo abbiano un futuro in un mondo sempre più tentato dalle sirene dell’irrazionalismo, dell’obbedienza, della rassegnazione.

 

 

«Ho eseguito gli ordini»

Il caso Collini
(Der Fall Collini)
di Marco Kreuzpaintner
Germania, 2019
Con: Elyas M’Barek (Caspar Leinen), Franco Nero (Fabrizio Collini), Alexandra Maria Lara (Johanna Meyer), Manfred Zapatka (Hans Meyer), Sandro Di Stefano (II) (Claudio Lucchesi)
Trailer del film

Un anziano magnate dell’industria tedesca, Hans Meyer, viene ucciso a sangue freddo e con violenza in un albergo di Berlino. L’assassino si fa arrestare senza opporre alcuna resistenza. È un uomo di origine italiana che si chiude in un mutismo ostinato e completo. Gli viene assegnato un giovane avvocato d’ufficio che è stato amico della vittima e della sua famiglia. Anche se titubante, l’avvocato Caspar Leinen accetta l’incarico e ha come controparte quello che in Italia si definirebbe «un principe del Foro», che è stato anche suo professore. E tuttavia la determinazione e l’intelligenza dell’avvocato Leinen conducono alla scoperta e alla messa in pubblico di una parte della vita di Meyer che era stata accuratamente nascosta. A Fabrizio Collini, l’assassino, basta questo per riscattare la morte di suo padre, vittima senza ragione di una rappresaglia delle SS nel 1944 in Toscana, ordinata ed eseguita dall’allora SS Meyer.
Mῆνις – il rancore, la vendetta, l’ira – non va infatti mai in prescrizione.
Come viene difesa la memoria di Hans Meyer dal suo avvocato, dalla nipote, persino dalla legge? In che modo viene giustificata la fucilazione di venti civili come rappresaglia per la morte di due soldati tedeschi? Con la formula: «Ha eseguito gli ordini». La stessa formula di tanti ufficiali delle SS, la stessa formula di Adolf Eichmann, la stessa formula dei burocrati che ovunque e sempre si fanno portatori «innocenti e neutri» di ingiustizia.
Allo stesso modo, infatti, si giustificano in questo nostro tempo i tanti burocrati che «obbedendo» alle norme sull’epidemia hanno privato altri cittadini del posto di lavoro, dello stipendio, dell’integrità sociale; allo stesso modo si giustificano i tanti funzionari che hanno firmato dei vergognosi decreti di sospensione. La differenza con i burocrati nazionalsocialisti è quantitativa, è di grado, non è di sostanza. È facile infatti intuire che in altre circostanze i nostri contemporanei si sarebbero comportati allo stesso modo, da buoni funzionari, obbedendo sempre alla legge.
Ma la formula universale «è la legge che lo stabilisce» non legittima l’iniquità della legge e di chi a essa obbedisce, facendosene complice, assumendosi responsabilità molto gravi. Come, appunto, Eichmann, Meyer e tanti altri «esecutori» del passato e del presente.

Hieronymus Bosch

Bosch & un altro Rinascimento
Palazzo Reale – Milano
A cura di  Bernard Aikema, Fernando Checa Cremades e Claudio Salsi
Sino al 12 marzo 2023

L’esistenza di Hieronymus Bosch si scandisce dal 1453 al 1516. Nel pieno della storia d’Europa che da Jacob Burckhardt in poi chiamiamo «Rinascimento». Caratterizzata da forme razionali, geometriche, classiche, sobrie, prospettiche.
Bosch è però altro, Bosch è l’altrove di architetture infuocate, di particolari a migliaia sulla tela e che pullulano in un movimento imprendibile che sembra non finire. L’altrove di una stupefacente e continua ibridazione tra le forme umane, quelle di altri animali, di strumenti musicali, di armi da taglio, di elmi e di uova, di umani crocifissi sopra un’arpa, di rettili e di fragole, di chiese, torri, campi, cieli, prospettive…
Una sfrenata antologia del mondo che sembra scaturire come eiaculata da una mente incapace di fermarsi, divertita e sarcastica, imbottita di droghe, riempita di elementi minuscoli e di grandi campiture di colore sulla tela.

Le tentazioni di Sant’Antonio, 1510-1515 Madrid Prado

La mostra a Palazzo Reale è divisa tra un terzo di dipinti di Bosch e poi due terzi di opere della sua scuola, degli imitatori e prosecutori: su ogni altro Pieter Brueghel il Vecchio e Arcimboldo e poi Pieter Huys, Battista Dossi, Marcantonio Raimondi, Pieter Stevens, Dürer, il Garofalo, il Civetta, Jacob van Swanenburg. Opere anche dei contemporanei, tra i quali Leonardo da Vinci.
Dal confronto tra il Maestro di ’s-Hertogenbosch e tutti gli altri emerge in modo assai limpido come non basti il mostruoso, non basti la fantasia. Bosch ė l’intuizione dell’orrore che bisogna attraversare, espresso in un modo imitato da folle di artisti ma che rimane inimitabile. Bosch è visionario nel preciso senso dell’aver visto, espresso, pensato e dipinto il dolore che intride la materia viva e la deforma nel momento della nascita e nel parallelo istante della morte.
In lui vince anche la natura ludica dell’arte, un’immensa Wunderkammer sparsa in ogni dove nel mondo, in città, edifici, chiese, templi, camere private, laboratori, biblioteche. E vince ed emerge in lui la molteplicità che nessun pensiero, nessuna formula, equazione o filosofia può ricondurre all’identità, all’uno, al monocorde canto dell’etica. Bosch è jenseits von Gut und Böse, al di ogni bene, al di là del male.
Bosch è la libertà dell’arte da ogni morale, da ogni principio, da ogni valore, da ciò a cui «i solidali, i linguisticamente corretti, gli inclusivi» vorrebbero ridurre ogni umana espressione. Bosch è il delirio disincantato e dionisiaco, è il genio e l’altezza rispetto ai nani che si credono buoni.

Tentazioni_Sant’Antonio, Lisboa

Vai alla barra degli strumenti