Skip to content


ANGELICA ROCCA SU CHRONOS

Angelica Rocca
Esercizi di decentramento
Recensione a Chronos. Scritti di storia della filosofia 

in Fata Morgana
11 dicembre 2023
Pagine 1-4

«Il leitmotiv è la critica all’umanismo che non si traduce, però, nel suo rovescio, cioè in un anti-umanismo, in un disprezzo dell’umano e in un suo superamento ascetico in vista di un orizzonte trascendente. Tutt’altro: si tratta semmai di ritracciare i confini, di ricollocare l’uomo, spostarlo dal centro, di soffiare via tutte quelle nuvole di onnipotenza divina cui si è aggrappato per riancorarlo alla terra, a quel piano immanente di cui è solo una piccola parte. Una critica all’umanismo parte innanzitutto da un tributo alla filosofia greca, cosciente del limite (πέρας) invalicabile dell’umano, che è figlio di Chronos, del tempo. […]
Il bersaglio dell’idealismo, a cui la lettura di Biuso contrappone l’alternativa lucreziana di un materialismo ontologico, è l’oggettivismo greco che l’avvento del Cristianesimo, al pari di quanto fa con le religioni naturalistiche, scalza dalla storia del pensiero.  Non è forse la figura di Cristo, ancor prima dell’uomo vitruviano, a spostare l’uomo al centro del cerchio, a renderlo padrone della natura, misura di tutte le cose, ad estendere la sua area fino al punto in cui in essa si dispiega l’intero? […]
In un percorso che parte dal mondo greco sino ad avventurarsi lungo vie più recenti  e spesso poco esplorate – del pensiero contemporaneo, Chronos attraversa più di mille anni di storia della filosofia occidentale, restituendo un’immagine di quest’ultima forse più affine alla saggezza orientale intesa come esercizio».

[Foto di Bryan Goff su Unsplash; l’immagine raffigura la Nebulosa di Orione]

Erodoto

Breve è la vita umana, provvisorio ogni suo risultato, instabile ogni dominio, transeunte ogni vita. Lo intuisce Serse alla vista dell’immenso esercito che aveva condotto sull’Ellesponto. Guardando i suoi soldati e i popoli sui quali domina piange e interrogato perché mai lo faccia così risponde: «S’è insinuato in me riflettendo un senso di compassione, quanto è breve tutta la vita umana, dal momento che di costoro, che pure son tanti, nessuno fra cento anni sopravviverà» 1 .
Anche per questo Erodoto scrive. Scrive affinché «le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate» (Proemio). Lo fa raccogliendo quante più testimonianze possibili di chi ha vissuto gli eventi o ne ha sentito il racconto o comunque ha delle notizie da riportare. E però questo non significa che Erodoto creda a tutto ciò che riferisce e che racconta. Semplicemente e invece dichiara di essere «tenuto a riferire quel che si dice, ma non a prestar fede a tutto e queste parole valgano per ogni mia trattazione» (VII, 152, 3; p. 711).

Sono in questo modo delineati gli obiettivi, i metodi, il significato e il limite della scienza che chiamiamo storia, vale a dire una descrizione degli eventi umani come si dispiegano nello spazio e nel tempo, nella geografia. Lo spazio è lo stare degli umani al mondo, è l’insieme non soltanto dei luoghi ma anche e specialmente dei modi nei quali i luoghi vengono abitati e vissuti. Ciò che Erodoto scrive a proposito dei Greci vale in questo senso per qualunque altro popolo, comunità, identità: «La grecità, lo stesso sangue e la stessa lingua, e i comuni templi degli dèi e i riti sacri e gli analoghi costumi» (VIII, 144, 2; p. 824).
Per questo ogni popolo è per natura e necessità ‘etnocentrico’. Lo sono gli Egizi, molto ammirati da Erodoto come i più sani, i più pronti davanti alla morte, i «sapientissimi fra gli uomini» (II, 160, 1; p. 297). Infatti questo popolo così sapiente chiama «barbari tutti quelli che non hanno la loro lingua» (II, 158, 5; p. 297), come poi faranno anche i Greci e ogni altra comunità umana. «Infatti, se uno facesse a tutti gli uomini una proposta invitandoli a scegliere le usanze migliori di tutte, dopo aver ben considerato ognuno sceglierebbe le proprie: a tal punto ciascuno è convinto che le sue proprie usanze sono di gran lunga le migliori di tutte» (III, 38, 1; p. 336).
Integralmente etnocentrica (quando non pericolosamente incline al razzismo) è nel nostro tempo la pretesa del liberalismo occidentale di costituire non soltanto l’unica forma legittima di costituzione politica presente sul pianeta Terra (tutte le altre forme sarebbero delle ‘dittature’) ma di rappresentare anche e soprattutto l’incarnazione dei valori morali più alti in assoluto, indiscutibili, da imporre in tutti i modi (guerre comprese) a chi non li condivide e da zittire quanti in Occidente li criticano.
Questi valori/atteggiamenti sono ad esempio: il disprezzo per la difesa di ogni tradizione e identità culturale circoscritte rispetto alla globalizzazione; l’eguaglianza puramente formale che non protegge affatto dalle discriminazioni reali; la convinzione metafisica che il biologico (il sesso) non conti nulla rispetto al volontarismo (il genere); la fantasiosa convinzione che l’Occidente sia dominato dal patriarcato; l’idolatria del ‘mercato’ come regolatore della vita economica. Ritenere assoluti questi ‘valori’ storici è una forma molto pesante di etnocentrismo. Uno dei grandi contributi di Erodoto alla comprensione delle comunità umane consiste nell’invitare a parlare di ‘civiltà’ sempre al plurale e mai al singolare. Le civiltà, le pluralità, costituiscono una garanzia di autentica eguaglianza e di accoglimento dell’altro, delle sue differenze, anche di quelle che a noi non piacciono.
La saggezza non consiste dunque in un impossibile universalismo, come alcune correnti cristiane e illuministiche hanno preteso che fosse, ma nella consapevolezza che ogni civiltà e cultura è limitata a un certo spaziotempo senza pretendere di essere la migliore in assoluto o addirittura l’eletta, come le culture della ὕβρις quali l’ebraismo e il capitalismo imperialistico si sono vantate e si vantano di essere.
Saggezza è invece comprendere che «c’è un ciclo delle vicende umane, che col suo volgersi non permette che sempre gli stessi siano fortunati» (I, 207, 2; p. 190); comprendere che «il dio suole stroncare tutto ciò che si innalza» (VII, 10, β; p. 647); comprendere che questo dio è il divenire: «tutto però può succedere nel lungo corso del tempo» (V, 9, 3; p. 506).

Se Erodoto giudica i Greci una stirpe libera da ingenuità e più accorta di altre, è molto probabilmente perché essi sono del tutto consapevoli della insignificanza dell’umano rispetto all’immenso tempo e all’enigma del cosmo. Un umano in balia degli eventi e di Ἀνάγκη, poiché «sfuggire al fato è cosa impossibile anche per un dio» (I, 91, 1; p. 125), tanto più «non è possibile alla natura umana evitare quel che deve avvenire» (III, 65, 3; p. 353). Soltanto il più sapiente degli dèi, inferiore tuttavia anch’egli alle Parche e alla Necessità, può dire di se stesso: «Io conosco il numero dei granelli di sabbia e le dimensioni del mare e il muto comprendo e chi non parla odo» (I, 47, 3; p. 97). Questo dice Apollo, questo sanno coloro che sono intrisi non di una razionalità piccina e antropocentrica ma quanti osservano la perfezione della materia e degli astri e ne deducono la forza inemendabile dei confini, il limite dei viventi e dell’umano che dei viventi è parte. Quando una madre orgogliosa dei propri figli chiede alla dea Era di donare loro il meglio che un umano possa ottenere, la dea li fa morire serenamente nel sonno, mostrando in questo modo «che meglio è per l’uomo morire piuttosto che vivere» (I, 31, 3; p. 89).
Il culmine di tale saggezza sono i Trausi, il popolo dalle usanze più ‘strane’ tra tutti i popoli – alcuni stranissimi – dei quali Erodoto racconta vicende e abitudini. Essi infatti piangono di fronte al neonato «deplorando tutti i mali che egli dovrà soffrire una volta nato» e invece sono lieti di fronte al defunto «dicendo come spiegazione che, liberato da tanti mali, egli è in completa felicità» (V, 4, 1-2; p. 504).

La storia non è altro che la conferma di quanta saggezza abiti in tale consapevolezza del limite. La storia che mostra, al tempo di Erodoto e nel nostro, come i (pre)potenti trovino i più singolari pretesti per attaccare e distruggere i popoli e le comunità meno armate e più deboli, inventando inverosimili minacce da parte loro. A chi gli consigliava prudenza e di lasciar perdere il piccolo e insignificante popolo greco, Serse risponde che intende punire gli Ateniesi di ciò che avevano fatto a suo padre e che quindi non desisterà «prima di aver conquistato e incendiato la città degli Ateniesi, che per primi compirono contro me e mio padre azioni inique» (VII, 7, β 2; p. 643). Sembra di sentire Nixon e Kissinger parlare del pericolo che il Vietnam (il Vietnam!) rappresentava per la superpotenza degli Stati Uniti d’America o Colin Powell brandire all’ONU la fialetta con le ‘armi chimiche di distruzione di massa’ dell’Iraq di Saddam Hussein, alleato degli USA sino a qualche mese prima contro l’Iran. Ebbe ragione Pausania, il vincitore della battaglia di Platea, a rivolgersi ai suoi compatrioti dicendo: «O Greci, per questo io vi ho radunati, per mostrarvi la stoltezza del Medo, che avendo un tale tenore di vita è venuto contro di noi che lo abbiamo tanto misero per togliercelo» (IX, 82, 3; p. 868).
Anche perché più esposto a tali pericoli, i pericoli della tracotanza, Erodoto si dice avverso al sistema monarchico e ricorda che non è costume dei Greci «prosternarsi dinanzi a un essere umano» anche se costui è assai potente (VII, 136, 1; p. 701). Interessante è comunque un’altra motivazione della guerra che l’impero persiano condusse contro l’Ellade, e quindi contro l’Europa. Quest’ultima «è una regione assai bella e produce ogni sorta di alberi fruttiferi, è molto fertile e degna d’esser posseduta, fra i mortali, solo dal Gran Re» (VII, 5, 3; p. 641).
La storia umana mostra costantemente qualcosa di ancora più devastante: una ferocia pervasiva, una crudeltà  senza limiti, una violenza patologica. Solo qualche esempio tra i tanti riferiti da Erodoto, uno relativo ai Greci e l’altro ai Persiani. I Lemni avevano le loro legittime donne (e figli) e possedevano anche delle donne attiche che avevano rapito e con le quali avevano generato altri figli. Temendo le reazioni di questi ultimi una volta cresciuti, «decisero di uccidere i figli avuti dalle donne attiche, e così fecero, uccidendo inoltre anche le madri» (VI, 138, 4; p. 637). I Persiani avevano come costume di «sotterrare persone vive» (VII, 114, 2; p. 692).
Ho evitato di soffermarmi su questi elementi ed episodi, molto numerosi, e ho solo accennato al racconto delle guerre di ogni popolo contro un altro. Un racconto che pervade i nove libri dell’opera quasi a ogni pagina. Sembra, allora come oggi, che la specie umana abbia una qualche percezione del danno che essa costituisce per il mondo e operi alacremente per sterminarsi da sola.


Nota

1. Erodoto, Storie, trad. di Augusta Izzo D’Accinni, note di Daniela Fausti, saggio introduttivo di Domenico Musti, Rizzoli 2021, VII, 46, 2; p. 666.

Cristianesimo, tempo, sacralità

Alain de Benoist – Thomas Molnar
L’eclisse del sacro
(L’éclipse du sacré, La Table Ronde 1986)
Traduzione e saggio introduttivo di Giuseppe Del Ninno
Edizioni Settecolori, 1992
Pagine XVIII-225

Questo confronto tra un cattolico ultratradizionalista e un intellettuale senza dogmi risulta emblematico e straniante. Emblematico della incommensurabilità tra una prospettiva aperta all’intero e al molteplice, come quella di de Benoist, e una invece rigidamente chiusa in un recinto di sicurezza e di grettezza, in un confine tranquillo e assai delimitato. Straniante per l’evidente differenza di livello in cui si pongono i due discorsi.
Thomas Molnar vede nel cattolicesimo il baluardo contro ogni male. Ma non il cattolicesimo come di fatto è  oggi bensì un cattolicesimo rimpianto. Molnar si pronuncia infatti in modo deciso contro la Chiesa conciliare e contro Paolo VI, «impegnat[i] in un processo di autodistruzione» (p. 29) e in una vera e propria «campagna di oppressione nei confronti dei credenti» (43). Di tale autodistruzione è parte la riduzione della Chiesa cattolica a un’agenzia filantropica e sociale, come è già accaduto alle chiese protestanti, i cui luoghi di culto sono infatti vuoti. E questo è vero. Meno accettabile, anche se del tutto coerente, è l’esplicito rifiuto delle libertà in nome della verità, poiché secondo Molnar «vi sono interessi che non sono in concorrenza con altri, ma li schiacciano, in nome del pluralismo. E per essi non c’è posto in una società ben ordinata» (79-80). Il grande nemico ripetutamente indicato da Molnar è lo Gnosticismo, come è sempre stato per la Grande Chiesa.

C’è un solo elemento nel quale le opinioni dei due interlocutori sembrano concordare: il riconoscimento che il cristianesimo sta all’origine della desacralizzazione. «Il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» (21) scrive Molnar. E de Benoist conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (115).
Per il resto le posizioni risultano inconciliabili per la fondamentale ragione che i due autori partono da concezioni del sacro assai diverse tra di loro. Per de Benoist lo statuto del sacro è da distinguere con molta cura rispetto a quello della religione: «Se, in effetti, ogni religione implica il sacro (ma non un dio), non è vero il contrario. Divino e sacro, sacro e religioso non sono sinonimi» (87). Gli dèi, il divino, abitano dentro il sacro  poiché gli dèi e il divino abitano dentro il mondo, sono una sua parte. Non si dà quindi né un’illogica creazione dal nulla (nihil ex nihilo) né un dualismo ontologico tra il cosmo e il divino. Dualismo che invece è la vera cifra del monoteismo biblico, il quale si origina e si conclude nella separazione assoluta tra un’entità che crea e un’entità che viene creata. Essendo il cosmo creato, esso non ha nulla di sacro.
È da qui che si genera la visione del mondo ebraica e cristiana, da questa natura totalmente altra del divino che, proprio per non svanire nella distanza e nell’insignificanza, ha poi bisogno di postulare un ulteriore elemento che per le civiltà politeistiche risulta bizzarro: il diventare ‘perfettamente uomo’ di qualcosa che all’origine è ‘perfettamente dio’. Soltanto dove umano e divino vengono pensati come inconciliabili può essere poi postulato un dogma come l’incarnazione. Dove invece umano e divino sono parte di un insieme che li (r)accoglie senza confonderli né separarli, un simile postulato non può nascere, non ha ragione di nascere.

Il politeismo tiene uniti identità e differenza. Il monoteismo elimina la differenza a favore di un’identità rigida e insieme contraddittoria, nella quale l’elemento umano è nello stesso tempo del tutto diverso rispetto al divino e superiore a ogni altro nell’ambito mondano. Segnale efficace e pervasivo di tale struttura è la centralità di due diversi strumenti percettivi, di due differenti sensi. Il monoteismo ebraico privilegia l’udito, il politeismo greco privilegia il vedere. E questo significa che «la vista fa posare lo sguardo sullo spettacolo del mondo, dove l’unità si lascia cogliere soltanto come riunificazione di una pluralità sempre cangiante. L’udito rinvia più direttamente all’invisibile, ponendo, al di fuori di ogni mediazione, all’ascolto di una parola che si pretende unica» (120-121).
Identità escludente, antropocentrismo, desacralizzazione e devastazione costituiscono dunque un solo processo poiché «essendo desacralizzato, [il mondo] diventa oggetto inanimato, materia integralmente assumibile e praticabile da parte dell’uomo» (131). Ulteriore conseguenza di un radicale antropocentrismo è la riduzione dell’elemento cosmico a quello etico, la superfetazione della morale. Questa moralizzazione dell’intero priva la vita della sua innocenza, della sua lievità, in quanto «la serenità (Gelassenheit) che gli derivava dal sentimento di un’appartenenza all’essere che si dispiegava nella sua pienezza è svanita. La credenza in un ‘altro mondo’ bisogna ormai pagarla al prezzo della propria colpevolezza» (132).
Rispetto a tali pericoli, la filosofia di Martin Heidegger costituisce anche la rimemorazione di ciò che è invece possibile pensare e conseguire se si evita di privilegiare una parte, compreso il dio, rispetto all’intero, con cui coincide il sacro. La ‘differenza ontologica’ appare in questa luce come la possibilità di «pensare l’essere dell’ente nella sua differenza dall’ente: compito fondamentale di un pensiero fedele che, nel suo stesso disegno, si ordina necessariamente intorno alla coscienza di quel che è il sacro» (113).

Dal sacro riceve luce lo statuto del tempo e, viceversa, la temporalità permette di avere rispetto della sacralità di un mondo che è sempre diveniente/diverso e sempre costante/identico. La ciclicità ‘pagana’ non vuol dire infatti immutabilità o irrilevanza del tempo ma, al contrario, è una conferma della sua centralità. Il tempo ciclico, infatti, «non è sterile ripetizione, ma regolare ridispiegamento degli esseri e delle cose» (103); l’eterno ritorno non rende sacro l’immutabile ma afferma invece la possibilità di ogni forma del mutamento e del movimento, compresa la forma del ritorno. Tutto infatti può tornare nel preciso senso che «risalire alle origini significa riaffermare la possibilità di un nuovo inizio» (224).
Il fondamento e la spiegazione di tali dinamiche di identità/differenza stanno nel fatto che «al principio del tempo storico vi è la differenza ontologica fra l’essere e l’ente; tale differenza è l’Evento (Ereignis) che instaura tutta la storia. In tal modo, il principio storico viene introdotto nel cuore dell’ontologia. […] Il tempo è il senso dell’essere. L’essere diviene storicamente» (204-205).
L’oblio dell’essere è esattamente l’oblio della sua temporalità, della struttura che raccoglie l’ora, il già e il non ancora nella pienezza del divenire che è anche il divenire che splende adesso e che sempre ritorna, il καιρός.

Poesia e filosofia

Poesia, filosofia, americanismo
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
15 settembre 2023
pagine 1-4

Non il ‘vero’, il ‘bene’, il ‘bello’, concetti intesi come ‘valori’ e quindi del tutto moderni, che in Platone significano tutt’altro e che con i Greci e con la filosofia non c’entrano nulla, ma gli enti come ciò che sorge da sé e l’essere come φύσις, vale a dire come sorgenza. Questo è l’ambito della filosofia e della poesia, della grande poesia, la cui ‘grandezza’ consiste nel cogliere e nel dire, nel tentare di dire, l’essere.

Lavoro / schiavitù

After Work
di Erik Gandini
Svezia, 2023
Trailer del film

Quasi clandestini sono in Italia i film di Erik Gandini. Pochi hanno visto Videocracy. Basta apparire (2009), dedicato all’immonda finzione berlusconiana, al suo fondamento antropologico, ai suoi effetti devastanti. La RAI rifiutò di mandarlo in onda con tre motivazioni censorie.
Anche After Work si colloca nel nucleo attivo della contemporaneità, con una indagine sulla realtà del lavoro ma soprattutto sulla sua idea, sulla concezione che le persone se ne fanno, su come lo vivono. Il cuore dell’indagine sono naturalmente gli Stati Uniti d’America, la loro origine dal Calvinismo (i puritani, i Padri Pellegrini) il quale ha inventato un’«etica del lavoro» che produce ritmi tali da indurre un corriere di Amazon a consegnare ogni giorno 300 pacchi, a mangiare mentre guida e a urinare in una bottiglia «per non perdere tempo». Etica che si è ampliata ai luoghi dell’impero americano, primo dei quali la Corea del Sud, il cui governo ha persino lanciato delle campagne volte a convincere i cittadini a lavorare di meno – tale è diventata l’ossessione produttivistica – e nelle cui aziende i computer si disattivano alle 18.00 per impedire agli impiegati di rimanere ancora a lavorare.
A questo mondo di ‘macchine umane per produrre’ si contrappone quello di società nelle quali molta parte delle persone nel pieno della loro energia (i «giovani») appartiene alla categoria che i sociologi definiscono NEET: Not [engaged] in Education, Employment or Training, vale a dire che non fanno nulla, proprio nulla, in gran parte per scelta volontaria. Nel 2021 in Italia NEET sarebbero state il 26% delle persone tra i 15 e i 29 anni. Persone che possono (soprav)vivere soltanto perché finanziate dalla famiglia.
Struttura peculiare è quella di un Paese come il Kuwait, la cui (enorme) ricchezza rispetto al numero dei cittadini induce il governo a dare loro impieghi del tutto fittizi; questi ‘lavoratori’ si recano negli uffici tutti i giorni ma non hanno alcun incarico, giocano con i cellulari, guardano film, nei casi migliori leggono.
Dell’ambito del non lavoro fa parte poi una piccolissima cerchia di persone molto ricche, che vivono di grandi rendite – una delle intervistate è presentata con la formula «ereditiera» – e che cercano di inventarsi ogni giorno qualcosa da fare: interessi, hobby, pratiche.
E infine il futuro che è già presente: grandi fabbriche dove non c’è più un operaio e a lavorare non sono gli umani ma dei robot guidati da algoritmi assai perfezionati: hardware e software che vanno sempre più celermente sostituendo lavoratori umani, persone vive.
Il film di Gandini descrive con efficacia queste realtà. I brevi interventi di un filosofo anarchico come Chomsky, di un imprenditore visionario come Musk, dell’ex ministro greco delle finanze Varoufakīs,  di un transumanista come Harari, sembrano piuttosto esornative, non aggiungono molto alla sostanza del documento.
Quale sostanza? Come si può analizzare ciò che questo film descrive?
Il punto di partenza è, come sempre, la nostra natura animale. Come tutti gli altri mammiferi, Homo sapiens ha bisogno di mangiare, di coprirsi, di avere un rifugio. Per questo tutti gli animali ‘lavorano’, vale a dire cercano il cibo e il benessere quotidiano. Dopo aver raggiunto l’obiettivo, gli altri animali non fanno più niente, in attesa di avere di nuovo fame. Ma non solo gli altri animali. Gli studi di Marshall Sahlins e di Pierre Clastres sulle «società selvagge» mostrano come il modo di produzione domestico (Mpd) «assicuri in realtà una completa soddisfazione dei bisogni materiali della società, a fronte di un tempo limitato dedicato alle attività di produzione e della bassa intensità con cui sono espletate. […] Le società primitive, sia di cacciatori nomadi sia di agricoltori stanziali, sono in realtà, considerando il poco tempo destinato alla produzione, vere e proprie società del tempo libero” e “società dell’abbondanza”» (Clastres, L’anarchia selvaggia. Le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re, Elèuthera 2013, pp. 46 e 97).
Lo sguardo va dunque radicalmente mutato: le società ‘primitive’ sia nel tempo sia nello spazio sono di fatto più ricche di quelle successive. Ricche anche di tempo da dedicare ad attività non direttamente legate alla produzione. Nelle società protestanti-capitalistiche (da questo punto di vista i due aggettivi indicano lo stesso fenomeno), vale a dire in tutto l’Occidente contemporaneo – comprese molte società asiatiche – ‘non lavorare’ instilla un profondo senso di colpa o una evidente riprovazione sociale.
Nel mondo non cristiano, e segnatamente tra i Greci e i Romani, una delle caratteristiche dell’uomo libero è invece esattamente il non lavorare, il non averne bisogno. E potersi così dedicare ad altre attività, tra le quali rientrano anche e specialmente l’attività politica e quella creativa, la vita intellettuale, ciò che noi definiamo oggi «cultura». Diversamente dalle società selvagge, nel mondo antico tutto questo era possibile perché altri producevano. E sta qui il fondamento della proposta platonica della Repubblica che distingue i produttori, i soldati e i governanti/filosofi. Essere liberi dalle esigenze immediatamente produttive è condizione necessaria per ritenersi ed essere liberi. Il resto è schiavitù.
Alla fine di After Work viene chiesto ad alcuni dei lavoratori di rispondere a un’ultima domanda: che cosa farebbero se si offrisse loro uno stipendio senza che debbano fare più nulla? È un interrogativo ovviamente legato alla automazione che si estende ed estenderà sempre più, rendendo inutile la presenza umana rispetto a macchine ed algoritmi capaci di lavorare senza posa 24 su 24, sempre. Gli sguardi e le non-risposte degli intervistati dicono che da molti secoli ormai la più parte delle società umane sono composte da persone che fuori dal lavoro «produttivo di qualcosa» non sanno concepirsi; persone per le quali vivere è immergersi nell’etica del lavoro; persone che – nella prospettiva delle società mediterranee sino alla caduta dell’Impero Romano – sono semplicemente degli «schiavi».
Una schiavitù che conferma l’ipotesi di Pascal per la quale gli umani hanno bisogno di impiegare il loro tempo in qualche attività, anche perché questo li aiuta a non pensare alla loro miserabile condizione.
La grandezza di una vita dedicata allo studio, ai libri, al sapere consiste invece nell’impiegare il tempo avendo sempre davanti la condizione assai triste dell’umano e tuttavia essendo capaci di gioia, la gioia della conoscenza.

Psiche / Ade

Enrico Palma
L’anima. Ψυχή
vol. 12 della collana Greco. Lingua, storia, cultura di una grande civiltà
Corriere della Sera, 2022
Pagine 160

Ventiquattro volumi, ventiquattro parole, ventiquattro modi per accostarsi a «un archetipo di vita intramontabile, nell’orizzonte del quale ancora ci muoviamo, agiamo, pensiamo e in grazia di cui attribuiamo un senso al nostro esistere al mondo» (p. 63), per accostarci ai Greci. Parole quali πόλεμος, la guerra; τέχνη, la tecnica; λόγος, la filosofia; νόμος, la legge; μῦθος, il mito; ἀρχὴ, il potere, e altre parole/mondi costitutivi dell’identità europea, delle sue lingue.
Tra questi concetti c’è quello che dà titolo al dodicesimo volume della collana: ψυχή. Tradotta con il tradizionale «anima», questa parola si mostra nell’argomentare di Enrico Palma assai più sfuggente, ricca, complessa. È un nucleo intorno al quale si addensa un intero mondo di significati, credenze, concetti: ψυχή è «vita spirituale», «vibrazione del corpo che si manifesta nell’istante del suo abbandono», «mente» e «corpomente» (pp. 15-17) ed è ancora altro nel variare dei tempi, dei generi letterari, dei contesti quotidiani, teoretici, religiosi.
Questo volume è anche una sintetica storia della filosofia antica; una storia che comincia con Omero e si conclude con l’ellenismo. Storia che ha due dei suoi protagonisti in Dioniso «che sprigiona le energie occulte e libera nella gioia coloro che scelgono di votarsi a lui» (39) e in Platone, «evocare [il quale] significa affermare la grandezza del pensiero e la fiducia nella razionalità, intraprendere un cammino luminoso e numinoso di trasformazione di se stessi in luce e divinità» (55).
Dentro, accanto e sopra la parola ψυχή abita e vive un’altra parola fondante: ἀλήθεια, verità, che Palma traduce e spiega in un modo heideggeriano, vale a dire profondo e universale: «Ma cos’è la verità? È l’apertura di ciò che si mostra e che emerge dal non nascosto, il taglio di luce in cui avviene la giusta e illuminata visione del mondo» (54).
Ψυχή appare in questo libro parola fortemente prassica, legata al mondo dei riti mortuari e delle credenze relative alla fine; una delle fonti è giustamente Erwin Rohde, con il suo Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci.  Ma è parola legata anche al mondo dei vivi e delle loro passioni; un’altra fonte è Dodds, I Greci e l’irrazionale.
Che sia vita o che sia morte, vale a dire che sia tempo, la potenza di ψυχή è unita a quella di Ἅιδης, l’invisibile, l’oscuro, il vero regno della moltitudine, il regno dei morti; «Ade è un nome del Niente», come scrivono (a p. 10) i curatori della collana Monica Centanni e Paolo B. Cipolla.
Una continuità tra l’essere e il nulla che Palma sa bene mostrare e alla quale affida la conclusione del suo testo: «E allora quando l’alito della morte chiederà il nostro soffio di vita, lo daremo. Senza amaramente piangere, ma gioiosamente sorridendo» (65). Anche di questo i Greci sono capaci.

Politeisti semantici

Il mito è conoscenza ma non è solo conoscenza. Il mito è teologia ma non è solo teologia. Il mito è specialmente racconto, è l’arte del racconto, è il racconto che produce mondi, credenze, significati.
Anche per questo «qualsiasi esposizione della mitologia è una interpretazione»1, poiché è il mito in se stesso – e non soltanto nei suoi lettori e inventori – a essere un oggetto cangiante, metamorfico, ermeneutico.
Di ogni dio si raccontano storie diverse, anche molto diverse. Di ogni nome del dio si danno differenti origini, interpretazioni, significati. Di ogni racconto esistono una molteplicità di versioni, sviluppi, soluzioni. Un esempio è Marsia, il satiro che sfidò Apollo nella musica e che, sconfitto, venne scuoiato dal dio a causa della sua ὕβρις. In un saggio assai bello Elvia Giudice ipotizza e descrive «una storia diversa, in cui Marsia, sconfitto da Apollo nell’agone auletico e risparmiato dal dio per intercessione di Athena (?), avrebbe riconosciuto le ragioni del rivale, assumendone lo strumento e sposandone la causa: la supremazia della citarodia su tutte le altre forme d’arte musicale»2.
Nel mito vive una molteplicità ermeneutica che lascia ammirati e stupefatti. Perché i Greci erano davvero dei politeisti semantici, credevano che nulla potesse fermarsi, avere un solo volto, diventare verità per sempre uguale, dogma.

Il Mare, la Notte, la Terra stanno all’origine di tutto. In principio – questo afferma il colto narratore greco al quale Kerényi dà voce e presta erudizione – «esisteva la Notte: nella nostra lingua essa si chiamava Nyx, una delle più grandi dee anche secondo Omero, una dea davanti alla quale perfino Zeus provava un sacro timore» (p. 26, con riferimento a Iliade, XIV, 261). Da questa notte sconfinata e potente si generarono il Cielo e la Terra; dalla loro unione il Tempo; e dal Tempo la Luce, Zeus, il dio la cui potenza, i cui figli, le cui sapienti alleanze garantirono il trionfo contro le forze più antiche e più oscure, l’avvento di un ordine comunque sempre precario, violento e cangiante, poiché precaria, violenta e cangiante è la vita stessa delle cose e della materia.
La Morte, che su tutto domina e ogni cosa aspetta, seppe darsi la figura più lieta, più desiderata, più potente: l’Amore. Soltanto perché la passione amorosa vince sui mortali, essi generano enti simili a sé, altre cose destinate e morire. «Le Sirene servivano la morte» (58). Afrodite, nata nel Mare dallo sperma insanguinato del Cielo, è una divinità d’amore e una divinità di morte. E anche per questo «l’Afrodite nera può stare altrettanto bene a lato delle Erinni, tra le quali essa viene pure contata» (73-74). Afrodite domina su tutti gli animali (umani compresi) e su tutti gli dèi (tranne Atena, Artemide ed Estia). Essa costringe persino Zeus a desiderare donne mortali, ad amare anche la propria sposa-sorella Era e poi una miriade di donne, di enti, di forze, con le quali si unisce nei modi più impensati e fantasiosi e dalle quali genera altre forze, eroi, dèi.
Le Erinni e Afrodite limitano e compiono il potere di Zeus, della Luce. Le Erinni anch’esse generate dalle gocce di sangue di Urano. Le Erinni figlie della Notte, della Terra, dell’Oscuro.

Il politeismo narrativo, le continue metamorfosi, le trasformazioni, il diventare e il tempo generano racconti vorticosi, producono nomi, celebrano matrimoni, fioriscono figli, si trasformano in stelle, nel continuo catasterismo della religione greca che colloca nella notte stellata molti personaggi rendendoli così immortali e insieme visibili.
Una delle più belle costellazioni invernali, Orione, è appunto un catasterismo, insieme al suo cane, allo scorpione che lo ha punto, agli altri animali dei quali il cacciatore primordiale va sempre all’inseguimento, ogni notte.
Il politeismo narrativo inventa la vergine madre ben prima che lo facesse la saga biblica; la storia delle nozze di Atena narra infatti che la dea «non perdette la sua verginità, ma dopo le quali [nozze] affida ugualmente un bambino alle figlie di Cecrope, re della sua amata città di Atene» (107).
Il politeismo antropologico attribuisce a disgrazia la donna (come accade anche in Genesi), tanto da definire Pandora, plasmata da Zeus per punire Prometeo e gli umani, con la formula di un «bel male […] insidia pericolosa, di fronte alla quale gli uomini sono inermi. Da essa discende la generazione delle donne. Un male di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia» (182).
Il vortice narrativo arriva al suo culmine nell’unione di Zeus con Persefone, figlia sua e di sua madre Rea o forse di Demetra (Diodoro Siculo, 3, 64. 1); unendosi alla figlia Zeus generò Dioniso, nella prima delle tre nascite del dio; «entrambi gli dèi, Zeus, il seduttore di Persefone, e Dioniso, figlio dei due, portavano anche il nome Zagreo» (101).

Dioniso è il culmine, è il fascino, è il dio smembrato e divorato dalle forze oscure ancora potenti, punite e rese fumo da Zeus. Da tale caligine fummo generati noi, gli umani, che dunque siamo tenebra titanica e luce dionisiaca.
I racconti di Dioniso che rende vani gli sforzi dei pirati di rapirlo, trasformando la loro nave in una vite e loro in delfini; di Dioniso che punisce tremendamente Penteo facendolo sbranare dalla sua stessa madre; di Dioniso che nasce ancora due volte da Semele e dal proprio cuore/fallo bollito, tutto questo è la meraviglia ironica, serissima e cosmica che fa del mito greco la spiegazione più profonda e cangiante del mondo profondo e cangiante nel quale abitiamo e che siamo.

Note
1. Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia (1951-1958), trad. di Vanda Tedeschi, il Saggiatore 1963, p. 17. Indicherò tra parentesi nel testo i numeri di pagina delle successive citazioni.
2. Elvia Giudice, Il Cratere del Pittore di Cadmo 1093: pittura vascolare e società, in Ostraka. Rivista di antichità, anno XXX. Numero 21, 2021, p. 72.

Vai alla barra degli strumenti