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Umanismo e metamorfosi

Recensione a:
Sandro Gorgone
Il trionfo di Proteo
Tecnica e metamorfosi dell’umano
InSchibboleth, 2021
Pagine 260
in Scienza & Filosofia
numero 28 / dicembre 2022
Pagine 257-260

Sandro Gorgone mostra quanto ingiustificate siano le interpretazioni che pongono il pensare heideggeriano in continuità con la tradizione umanistica. E tuttavia disegna poi una caratterizzazione dell’antiumanismo heideggeriano come «iper-umanistica» e posta a difesa della «dignità umana», interpretazione smentita in parte dallo stesso autore quando deplora Heidegger per l’assenza nella sua filosofia di un’etica, assenza testimoniata anche dal suo «pronunciarsi contro i valori umanistici tradizionali e in genere contro ogni tipo di valore».
Un altro limite del libro è la separazione ontologica tra l’umano e l’animale, come se ad “animale” corrispondesse davvero qualcosa e non fosse invece da sempre una parola pensata per il dominio, uno strumento linguistico fondamentale per la pretesa separativa umana.
Eppure le belle pagine dedicate alla metamorfosi in Goethe avrebbero potuto costituire una salvaguardia da tali cadute. Vi si legge infatti della inseparabilità nei viventi e nelle piante di Vis centrifuga – differenza – e Vis centripeta – identità. La metamorfosi non assimila né separa ma trasforma, espressione anch’essa del tempo.

Italia / Europa

GRAND TOUR. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Gallerie d’Italia – Milano
Sino al 27 marzo 2022

[Barberi, Veduta dei Fori romani, 1854; l’immagine di apertura è di Hackert, I Faraglioni di Aci Trezza, 1793]

L’Italia, l’antico, la storia, la bellezza. L’Italia, fonte e antologia dell’Europa, è stata solcata, conquistata, abbandonata, ammirata, dipinta, scolpita. Alcune tracce se ne vedono nella mostra milanese dedicata al  Grand  Tour, al Grande Itinerario che attraversa le capitali -Roma, Venezia, Napoli, Firenze- ma anche centri minori e soprattutto l’Isola del mito, dell’incanto e della morte: la Sicilia.

[Waldmülle, Rovine del Teatro di Taormina, 1844]

Di essa, come è noto, Goethe affermò che «l’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nell’anima. Qui è la chiave di tutto». Meno note ma altrettanto vere sono le parole che il poeta dedicò a Napoli, descritta come «un paradiso; tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di se stessi. A me accade lo stesso; non mi riconosco quasi più, mi sembra d’essere un altr’uomo» . Di Goethe si vedono qui alcuni celebri ritratti, ai quali fanno compagnia un ritratto di Piranesi e due di Winckelmann, uno degli scopritori del mondo greco, dell’arte classica, della sua perennità, misura, splendore. Il mondo greco non fu, naturalmente, solo quella misura ma fu anche vibrazione verso il limite ultimo della potenza, fu violenza, passioni, inquietudine. Una testimonianza è la statua della Artemide Efesia, che apre la mostra è che la domina con la sua sovrabbondanza di sacralità, distanza, implacabilità.

[Ducros, Teatro Greco di Siracusa]

Poi si susseguono, senza un ordine preciso e anche questa è una buona scelta, i luoghi dell’Italia, le città, le rovine -Roma, Pompei-, i vulcani -il Vesuvio e l’Etna-, i teatri -Siracusa, Taormina-, i templi -Agrigento, Paestum-, le feste -Venezia, Napoli-, le tempeste -come un singolare Temporale a Cefalù di Ducros (qui sotto), nel quale una imbarcazione sembra volare sui boschi e Zeus scagliare fuoco e folgori dal cielo.

E insieme al  cielo, i mari, le mura delle città, i palazzi, la vita, le esistenze, il tempo…

Qui l’umana speranza e qui la gioia,
qui’ miseri mortali alzan la testa
e nessun sa quanto si viva o moia.
Veggio or la fuga del mio viver presta,
anzi di tutti, e nel fuggir del sole
la ruina del mondo manifesta.
[…]
Passan vostre grandezze e vostre pompe,
passan le signorie, passano i regni;
ogni cosa mortal Tempo interrompe,
e ritolta a’ men buon, non dà a’ più degni;
e non pur quel di fuori il Tempo solve,
ma le vostre eloquenzie e’ vostri ingegni.
Così fuggendo il mondo seco volve,
né mai si posa né s’arresta o torna,
finché v’ha ricondotti in poca polve.
[…]
Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro;
chiamasi Fama, et è morir secondo;
né più che contra ‘l primo è alcun riparo.
Così ‘l Tempo triunfa i nomi e ‘l mondo.

Francesco Petrarca, Trionfo del Tempo, vv. 64-69; 112-120; 142-145.

Perfezione

Inferno
Scuderie del Quirinale – Roma
A cura di Jean Clair
Sino al 23 gennaio 2022

Percorsa l’ampia spirale che una volta serviva ai cavalli del Re d’Italia al Quirinale, si arriva a un muro sul quale vengono proiettate alcune scene di Inferno, girato nel 1911 da Bertolini, De Liguori e Padovan (è possibile vedere qui l’intero film, dal quale consiglio di eliminare l’audio posticcio). Immagini ingenue e insieme espressioniste, ispirate a Gustave Doré ma colme più che in lui di una fisicità che ha preso alla lettera le invenzioni dantesche del ghiaccio, del fuoco, dei fiumi attraversati da anime del tutto corporee.
Si giunge da qui alla Porta dell’Inferno di Rodin, che cerca di esprimere nel marmo il dolore senza fine dei dannati. Il Giudizio finale di  Beato Angelico, dove persino la dannazione assume l’armonia delle sfere, sta accanto a una ben più terrificante Morte scolpita nel 1522 da Gil de Ronza (qui a destra).
Alcune magnifiche edizioni quattrocentesche del De civitate Dei introducono altri antichi volumi, compresi alcuni manoscritti. Gli Inferi di Monsü Desiderio (1622; immagine qui sotto) descrivono una profonda e terribile architettura che sembra scavare dentro e oltre e prima delle sofferenze umane e animali. Non potevano mancare Hieronymus Bosch con i suoi inferni, i suoi incubi, il suo grottesco, la sua Visione apocalittica, e Albrecht Dürer con Il cavaliere, la morte e il diavolo, una delle immagini più potenti dell’arte universale.

In mezzo a tutto questo la Medusa del 2008 di Ivan Theimer, in realtà eterna, fuori dal tempo, puro orrore. Di rappresentazione in rappresentazione si arriva ai Lussuriosi di Victor Prouvê (1889) (immagine di apertura), una delle opere più inquietanti e perfette di questo viaggio nel dolore: Paolo è carne senza volto che tocca ancora una volta la carne desiderabile di Francesca ma questi corpi e gli altri spinti dalla «bufera infernal, che mai non resta» (Inferno, canto V, v. 31) danno l’impressione di essere tutti in agonia, nel preciso senso della ‘piccola morte’ -l’orgasmo- che è diventata subito, in quell’istante stesso, il momento della fine. Un istante che la dannazione rende eterno. E poi ancora: gli acquarelli di Miguel Barceló (2001) si alternano alle molteplici versioni delle Tentazioni di sant’Antonio, soprattutto quella di Odilon Redon (1896) in cui la Morte dice alla vita «sono io che ti rendo seria».
C’è una grande forza nei versi con i quali Mefistofele dichiara la propria natura redentrice: «Ich bin der Geist, der stets verneint! / Und das mit Recht; denn alles, was entsteht, / Ist wert, daß es zugrunde geht; / Drum besser wärs, daß nichts entstünde. / So ist denn alles, was ihr Sünde, / Zerstörung, kurz das Böse nennt, / Mein eigentliches Element» (Goethe, Faust, vv. 1338-1344); nella traduzione di Franco Fortini: «Sono lo spirito che sempre dice no. / Ed a ragione. Nulla / c’è che nasca e non meriti / di venire disfatto. / Meglio sarebbe che nulla nascesse. / Così tutto quello che dite Peccato / o Distruzione, Male insomma, / è il mio elemento vero» (Meridiani Mondadori 1990, p. 103); bella, e più diretta, la traduzione che compare in mostra: «Sono lo spirito che nega sempre! / E con ragione, perché tutto ciò che nasce / è degno di perire. / Perciò sarebbe meglio se non nascesse nulla. / Insomma, tutto ciò che voi chiamate / peccato, distruzione, in breve, il male / è il mio specifico elemento». A tanta apollinea verità si coniuga e contrappone la grottesca potenza con la quale Alfred Kubin descrive il Concepimento della donna (1905) dallo sperma che il diavolo emette dal suo enorme fallo (a destra).
E poi: l’inferno delle fabbriche, che per Georges-Antoine Rochegrosse hanno ucciso «la porpora», la bellezza (1914; qui sotto); l’inferno della follia; l’inferno della guerra con L’avvoltoio carnivoro di Goya ripreso da Kubin in Europa (1916); l’inferno delle trincee, descritte in modo realistico e insieme simbolico da Percy Delfi Smith e Otto Dix nelle immagini dedicate al Grande Massacro, alla Prima guerra mondiale, oggetto anche dell’Inferno di George Leroux (1921), un impasto di argilla, carne, escrementi, cadaveri, fumo.

Che cosa mai dei diavoli potrebbero inventare di più malvagio di ciò che gli umani sono capaci di fare? Con tranquillo disincanto Schopenhauer afferma appunto che l’inferno non è qualcosa di diverso dalla nostra vita. Dovremmo forse riconoscere che l’origine e la forma del male stanno nel funesto demiurgo (Jehovah/יְהֹוָה) al quale si attribuisce la creazione dell’umano e del vivente.
Lucifero merita invece le parole di Giosuè Carducci e di Anatole France. Il primo così si esprime nel suo Inno a Satana (1863): «A te, de l’essere / Principio immenso, / Materia e spirito, / Ragione e senso. […] E splendi e folgora / Di fiamme cinto; / Materia, inalzati; / Satana ha vinto. […] Salute, o Satana, / O ribellione, / O forza vindice / De la ragione! // Sacri a te salgano / Gl’incensi e i voti! / Hai vinto il Geova / De i sacerdoti» (vv. 1-4 ; 165-168; 193-200). Il secondo, riprendendo tesi da sempre presenti nella vicenda religiosa e filosofica dell’Europa, scrive che il Dio biblico è in realtà Yaldabaoth, il demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele», che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (La révolte des anges [1914], trad. di A. Baldasseroni, La rivolta degli angeli, Lindau, Torino 2017, pp. 99, 216 e 129).

La densa mostra romana si chiude sui versi finali della cantica dantesca: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (XXXIV, 139). A rivedere gli astri, le luci, le galassie, che si fanno movimento ed energia nelle riprese effettuate dal Telescopio Hubble nel 2014, una delle cose più belle e più vere della mostra. Più vere perché una spiegazione del male della vita che voglia rimanere razionale non può che essere spinoziana, materialistica, cosmica.
Per Spinoza il bene e il male non sono enti reali ma enti di ragione, sono relazioni con le quali delle menti particolari valutano ciò che a loro porta vantaggio e ciò che invece fa patire loro danno. Ciascun ente stia dunque «contento al quia», per dirla ancora con Alighieri (anche se in un significato che Dante non avrebbe accolto; Purgatorio, III, v. 37), al quia della propria identità spaziotemporale dentro il tutto, senza ambire a impossibili eternità per il singolo, che è un modo/elemento dell’eternità che nulla può scalfire o diminuire. Con grande chiarezza Spinoza sostiene che «bene e male o peccato non sono che dei modi di pensare e non delle cose aventi una reale esistenza […], poiché tutte le cose e le opere della natura sono perfette» (Breve Trattato su Dio, l’Uomo e la sua felicità, 6,9; trad. di A. Sangiacomo, in Tutte le opere, Bompiani 2011, p. 235).

Perfetto è il cosmo, perfetta la materia, perfetto è l’intero. «La materiatempo è perfezione libera da ogni sensibilità, malattia, angoscia, bisogno, risentimento, dolore. La realtà nella quale siamo radicati è fatta di vita e non vita, in un continuum di esistenze materiche dentro il quale i corpi viventi vengono poi accolti dentro la potenza metabolizzante degli elementi, delle radici vegetali, della terra. Vengono accolti nell’essere in quanto tale, che è energia, che è materia. Una potenza che viene prima e che rimane al di là di ogni parola e di ogni concetto. Tanto che solo un poeta-mistico ha forse potuto dirla con sufficiente chiarezza mostrando l’essere senza perché di una rosa, la quale ‘fiorisce perché fiorisce’. Lo ha detto Silesius. Lui e il suo maestro Eckhart hanno oltrepassato ogni individualità animale e ogni personalità divina, immergendo l’essere e la parola che lo dice nel flusso del tempo e nell’emanazione della luce, senza un perché» (Tempo e materia. Una metafisica, Olschki 2020, p. 146).
L’Inferno è la condizione di sofferenza e insecuritas del vivente ma la comprensione della luce oscura che è l’esserci «l’immersione in essa, redime dal suo niente e fonda la libertà dello gnostico: libertà dal male e dal bene, libertà da ogni autorità, libertà dalla speranza, libertà dal senso, libertà dal niente dentro il niente» (Ivi, p. 98).  

Kaos / Kosmos

Anche se gli inventori della Grecia non sono mai stati in Grecia – tra di loro Winckelmann, Goethe, Hölderlin, Schinkel, Nietzsche – ciò che hanno pensato, immaginato e scoperto di quel mondo corrisponde in gran parte a quello che la Grecia è stata. Le motivazioni sono diverse e numerose. «La prima ragione è che il vero viaggio si svolgeva nello spazio del testo: i Greci si incontravano negli eventi narrati dagli storiografi e nelle convenzioni dei filosofi, nella tensione o nella liberazione del dramma teatrale, nella passioni dipinte dai lirici»1. Al di là di questa e di altre verità, un punto chiave è che per comprendere la Grecia antica bisogna essere antichi Greci e quei personaggi lo sono stati.
La passione dei Greci per il viaggio – pur con tutte le difficoltà e i rischi che viaggiare comportava – è motivata anche dal dinamismo e dalla curiosità in cui consiste ogni vera conoscenza, ogni passione per il sapere. Essa si rivolge – nei Greci e nei loro eredi – agli ambiti e ai temi più diversi ma tutti convergenti nella comprensione del mondo, vale a dire nella filosofia.
Si parte dall’intero, dal cielo, dagli astri, dall’ordine supremo e luminoso, dal κόσμος.
Si attraversano poi boschi, mari, pianure, montagne, tutti luoghi abitati dagli dèi.
Si vive nella città, la grande invenzione della specie umana, che per i Greci era una sola cosa con il corpomente di ciascuno, come confermano anche le parole di Socrate nel Critone, con le quali esprime il suo debito verso Atene anche quando la città lo uccide.
Per difendere e acquisire spazi e città, gli umani hanno inventato dal solco dell’aggressività animale la guerra, alla quale anche i Greci dedicarono sforzi di intelligenza, creatività, ingegno e tenacia davvero totali, e sempre allo scopo di sopravvivere e di distruggere; un solo esempio che è simbolico e dunque particolarmente significativo: il mantello dei soldati spartani era di un colore rosso acceso, che «doveva avere un valore magico ma in battaglia poteva anche avere la funzione di nascondere le macchie di sangue provocate dalle ferite» (A. Cristofori, 462).
Un’altra forma della violenza sono i sacrifici, inseparabili dalle moltissime feste che i Greci celebravano durante l’anno: ad Atene, ad esempio, in età classica i giorni di festa andavano da 120 a 144, un numero inaccettabile per il nostro stile di vita economicista e improntato alla schiavitù del lavoro. «I Greci celebravano la festa come evento comunitario […] e straordinario», un momento di vero e proprio «incontro col sacro» (E. Fontani, 649), nel quale i bambini non andavano a scuola, gli schiavi erano dispensati dal servizio, le altre attività politiche si fermavano poiché era appunto la festa l’attività politica per eccellenza. «Il decoro della festa identificava l’essere greco» (Id., 656), anche nel culto della fecondità e del piacere: tra gli oggetti sacri il fallo ha uno statuto centrale, tanto che in alcune feste le rispettabili matrone gettavano semi su statuette di peni. Il fallo infatti «fungeva da talismano per assicurare la buona crescita dei germogli. Questa pratica rituale, di esclusiva pertinenza femminile, aveva luogo a Eleusi e contemplava l’allestimento di un banchetto in un clima nel quale era ammessa ogni forma di turpiloquio (αἰσχρολογία)» (Id., 686). Delle feste erano protagonisti gli dèi e tra di loro specialmente Dioniso, per la sua vitalità, per la sua gioia. Una Hydria di Polignoto mostra due ragazze che si danno alla ‘danza delle Cariatidi’. La loro grazia appare davanti ai nostri occhi come se accadesse adesso, innocente e insieme sensuale.
In queste feste così gaie si celebrava anche la morte. La morte degli altri animali, in modo che il loro sangue potesse – secondo l’ipotesi del tutto corretta di Gianfranco Mormino – ingraziarsi  gli dèi e permettere che la semina nella terra irrorata dal sangue potesse ancora produrre grano, cibo, vita. Uno dei capitoli più crudi e splendidi dei Dialoghi con Leucò di PaveseL’ospite– testimonia il dato antropologico per il quale all’inizio le vittime di questa offerta alle potenze ctonie erano altri umani, poi sostituiti da creature assai più sottomesse e impotenti di fronte alla violenza umana: gli altri animali. Enrica Fontani conferma che «il momento culminante della festa era il sacrificio (θυσία). […] Sacrificare significava onorare gli dèi per mezzo di oblazioni, per placarli o sollecitarne il favore. […] L’eziologia del sacrificio spiega in chiave di trasgressione, rispetto alla consuetudine originaria di oblazioni incruente (frutti della terra, focacce), l’atto del primo uccisore di buoi (βουτύπος) che inaugurò il regime alimentare carnivoro (Porfirio, Dell’astinenza, 2.29-30). Il sacrificio vegetariano totale cedette il passo alla prassi cruenta dell’uccisione ritualizzata (ολόκαυστον), che diventò il perno dell’identità civica e del sistema basato sulla condivisione del cibo. La dimensione politica e quella religiosa appaiono qui più che mai solidali e complementari» (653).
Di questa natura violenta ma ritualizzata della Grecità, e in generale del mondo antico, sono testimonianza sia i sacrifici animali – mentre i massacri contemporanei che su di loro si praticano non hanno nulla di sacro e simbolico, sono soltanto pura totale sterminata violenza – sia gli agoni, i giochi, le gare. Una dimensione talmente importante, questa, una passione così profonda da far sì che l’agone nato nell’ambito della festa rese alla fine la festa una semplice cornice dell’agone. Burckhardt e Nietzsche hanno dunque ben individuato «nello ‘spirito agonale’ una delle forze trainanti della civiltà greca. Ogni campo dell’attività umana sembra, per i Greci, motivo di competizione: oltre lo sport, la musica, la danza, il teatro, il simposio, fino alle dispute filosofiche. Persino la bellezza» (C. Marconi, 761).
Culti, feste, sacrifici, agoni avevano sempre come centro e sfondo il santuario. Che non è soltanto il tempio ma è il paesaggio sacro dentro il quale anche il tempio vive. Il tempio, certo, è un luogo del tutto particolare, le cui colonne – scrisse Le Corbusier riferendosi al Partenone «obbediscono ad un’unica legge, sgorgano dalla terra» (cit. da C. Franzoni, 133)– e tuttavia il racconto eracliteo degli dèi che abitano anche in cucina testimonia che «per i Greci qualsiasi luogo può essere considerato adatto a ospitare un santuario. Perché ciò accada è sufficiente percepirvi la presenza del divino attraverso i suoi segni, e sentirsi con ciò più vicini a lui» (Id., 528).
La prima divinità è la luce. Sacerdoti e fedeli si rivolgevano a est, verso il sole che sorge, «dove si immagina la divinità, quando, all’alba, ha luogo il sacrificio» (Id., 531). Il cielo, la terra, gli animali, i divini si incrociano nello spazio del santuario, che diventa così Νόμος, luogo nel quale l’umano dà a se stesso senso. Le metope del lato sud del Partenone sono ispirate «al principio generale della lotta conto il disordine (χάος) per l’affermazione dell’ordine (κόσμος)» (Id., 620).
I Greci sono anche questa identità/differenza tra il Kaos e il Kosmos.

[L’immagine raffigura l’Oggetto di Hoag, una delle galassie più singolari del cosmo, dalla forma circolare con al centro un nucleo assai luminoso. Dista 600 milioni di anni luce dalla Terra]

Nota

1.C. Franzoni, in I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di S. Settis, Volume IV/1 Atlante 1, a cura di C. Franzoni, Einaudi 2002, p. XII. Le citazioni successive saranno indicate con il nome dell’autore e il numero di pagina.

Euripide a Siracusa

Conversando con Eckermann il 28 marzo del 1827 Goethe affermò che «wenn ein moderner Mensch wie Schlegel an einem so großen Alten Fehler zu rügen hätte, so sollte es billig nicht anders geschehen als auf den Knien», ‘se un moderno come Schlegel avesse da rimproverare un così grande antico per qualche errore, gli dovrebbe essere consentito farlo soltanto in ginocchio’ (J.P. Eckermann, Gespräche mit Goethe). Il ‘großen Alten’ al quale Goethe si riferisce è Euripide.
Sul numero 19 (luglio 2019) di Vita pensata ho raccolto le riflessioni che avevo pubblicato qui a proposito delle due tragedie euripidee messe in scena quest’anno a Siracusa –Elena e Troiane-, inserendole in un quadro più ampio e cercando di far emergere anche la componente orfico-gnostica di questo immenso drammaturgo.

La crudele commedia

La casa di Jack
(The House That Jack Built)
di Lars von Trier
Danimarca, Francia, Germania, Svezia 2018
Con: Matt Dillon (Jack), Bruno Ganz (Virgilio), Uma Thurman (Donna 1), Siobhan Fallon Hogan (Donna 2), Sofie Gråbøl (Donna 3), Riley Keough (Donna 4)
Trailer del film

Un Virgilio paziente e antico conversa con la figura crudele di un ingegnere che avrebbe voluto essere architetto -poiché «l’ingegnere legge la musica, l’architetto la esegue»- ma senza averne le capacità. Tenta così di costruire opere d’arte composte da materia viva, o che era viva, di plasmare i corpi dando loro morte. Le vittime tuttavia sono in qualche modo consapevoli.
La prima è una donna rimasta in panne che costringe Jack ad aiutarla e poi, garrula e insopportabile, gli dice esplicitamente che forse ha fatto male a salire sul furgoncino di lui, perché ha l’aria di un serial killer. E tutto questo sorridendo e ammiccando. La vanità.
La seconda è una signora che non gli apre la porta sino a quando Jack non le promette che può farle raddoppiare la pensione. L’avidità.
La terza è una madre che accetta un picnic insieme ai suoi due bambini, sui quali Jack esercita la propria abilità di cacciatore. La famiglia.
La quarta è una ragazza che lo giudica molto strano ma alla quale piace. Il desiderio.
E poi il gelo che mantiene i corpi; il sangue che «la grande pioggia» lava; le cattedrali medioevali; Glenn Gould che suona in vestaglia; l’inesorabile legge della fame; Goethe; le tesi di Albert Speer sulle rovine; una teoria dell’ombra; la produzione di vini da dessert; citazioni dai precedenti film di von Trier; La barca di Dante di Delacroix (immagine qui a sinistra).
Infine la catàbasi conclusiva, nella quale il film svela apertamente la propria natura simbolica e religiosa. Guidato da Virgilio e vestito di rosso come Dante, Jack visita i regni dell’oltretomba, giunge nel profondo dell’inferno, decide di tentare l’uscita anche se Virgilio lo avverte che nessuno c’è riuscito mai. Su questo tentativo si chiude la crudele commedia che lui stesso è stato.
Un film a tratti manierista, con un protagonista impressionante e indimenticabile. Un viaggio banale, desolato e atroce nel gorgo dell’umano, nella ferocia del nulla che noi siamo.

Sicilia

Numerosi sono i motivi che ho di esser grato alla vita e al tempo. Uno dei più profondi è l’esser siciliano, è la fortuna di essere nato in questa terra davvero «impareggiabile», in questa luce calda e lontana, in quest’Isola della distanza  e della gloria. Il sorriso siciliano è stato dipinto da Antonello in uno dei capolavori assoluti dell’arte, quel Ritratto d’uomo capace di parlare con lo sguardo e dire: «Lo so, la vita senso alcuno non ha, ma io la godo come la più sensuale delle amanti».
La Sicilia è davvero «la chiave di tutto», come scrisse Goethe a Palermo il 13 aprile del 1787. L’Isola plurale appare uguale a se stessa nel tempo e nello spazio ma nel tempo e nello spazio sempre diversa. All’immobilità antica, al silenzio ancestrale, all’arsura del latifondo intorno a Caltanissetta ed Enna, si affiancano le montagne innevate dei Nebrodi e delle Madonie; al nero lavico dell’Etna si uniscono i colori smaglianti dei mari che la circondano; ai templi occidentali si coniuga la dolcezza degli Iblei.
Dal culto greco verso gli dèi e Dioniso Pantocratore, i siciliani sono passati a quello verso il Cristo redentore, transitando per la civiltà islamica. Nel silenzio degli spazi e delle persone, nella bellezza sfrontata dei luoghi naturali e storici, sembra davvero che la contraddizione sia il segno della storia e del carattere siciliani. Perché la Sicilia è un enigma magnifico e doloroso, che rimane più forte di ogni bruttura che la deturpa, di ogni volontà malvagia che la uccide. Ne è prova anche lo sguardo stupito e felice di chi la coglie arrivando da altre terre o di chi in essa è nato e nonostante tutto continua ad amarla, a tornarvi se lontano, a nutrirla come pensiero profondo della mente.
Da dove questa terra trae tanta forza? Forse dalla luce ambigua della quale parla Bufalino, intessuta dello «splendore folgorante del sole» ma pure della «sua funebre ombra». Anche con questa sua inquieta luminosità l’Isola rimane fedele alla sua radice greca, fedele al fasto apollineo dei templi, dei teatri, delle πόλεις, fedele al culto dionisiaco della morte trasfigurante e trasfigurata in mito, pianto, odio. Ancora nella processione del Venerdì Santo del 1930 a Caltanissetta, Antonio Baldini ascoltava attonito «un lamento che rompe acuto da un fondo immemoriale di dolore e di spasimo», nel quale percepiva «il mitico compianto per la morte di Adone, l’approssimarsi dei terrori notturni, l’informe sgomento del poi, l’immotivato sconforto degli adolescenti, il sussulto incontenibile delle isteriche, il vuoto dei monti sopraffatto dalla notte, la solitudine dei mari, la tristezza delle campagne, la somma di vita che se ne va senza più ritorno».
Il paesaggio siciliano e gli umani che lo abitano sono quasi sempre estremi, pericolosi, belli e desolati. Sono soprattutto pervasi di solitudine. L’esser soli è la vera natura di questa terra, la sua autentica diversità da ogni altra. A un siciliano è perciò facile capire che «ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole» (Quasimodo), poiché un siciliano «è e si fa isola da sé, e da sé si gode -ma, appena, se l’ha- la sua poca gioia; da sé, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo dolore, spesso disperato» (Pirandello).
Dentro la fortuna di essere siciliano ne abita un’altra, più intima: essere nato sull’Etna. Il profilo della Muntagna ha accompagnato i miei giochi, i primi amori, il crescere, il camminare. Guardare il paesaggio ha significato da sùbito guardare un’entità non antropomorfica la cui potenza è invincibile. Il vulcano mi ha insegnato che cosa siamo: materia effimera dentro il grande Fuoco. Ha ragione Domenico Andronico: «Ogni siciliano ama la sua terra e l’ama con una passione tutta meridionale; e quando egli dalla sorte è costretto ad emigrare, porta indelebile nel suo cuore una sagoma caratteristica, il profilo d’una montagna sormontata da un superbo pennacchio di fumo, che non s’incontrerà giammai altrove. Somiglia un poco all’immagine della madre. S’incontrano altre donne, buone, affettuose, dotate di pregevoli qualità, ma sì, quelle non saranno mai la madre».
L’Etna è colore, movimento, pericolo, festa. E se la festa in Sicilia è vissuta con un’intensità totale è anche perché «è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo» (Sciascia). A un siciliano non sarà troppo difficile trasformare in festa l’intera esistenza, sia che la trascorra in «questa terra grande e infelice» (Bufalino), sia che porti altrove il proprio disincanto e la saggezza. Fare della vita un tripudio di colori, di suoni, di gaiezza e di forza diventa, infatti, la condizione per sopportare l’esistenza, per farsene carico e vincerla. La morte arriverà come un sorriso solo un poco amaro.

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