Skip to content


Il corpo nello spazio

Carlo Traini. Il corpo nello spazio
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXIX – numero 80 – marzo 2023
pagine 62-67

‘Fèrmati dunque, sei così bello!’ sembra dire Carlo Traini al corpo umano. Corpo non sempre bello, anzi a volte sgraziato, obeso, anziano. Più spesso, certo, è un corpo giovane, muscoloso, desiderabile, forte. In ogni caso il fotografo lo osserva a lungo e con cura e poi lo ferma nell’istante in cui il corpo parla senza bisogno di proferire parola. A esprimersi è infatti il dinamismo dei corpi, il loro muoversi rapido nello spazio, il loro capovolgersi in verticale scattanti o in attesa di un pallone che arriva dal cielo, nelle capriole dentro le onde del mare, scrutando l’orizzonte nella luce, persino in un abbraccio sulla sdraio che sembra disegnare un ibrido, un androgino dalla testa di maschio e dal flessuoso e attraente corpo di femmina.
Un gesto d’intelligenza del fotografo è aver tradotto tutto questo in un limpido bianco e nero che ha depurato i corpi dall’eccesso di luce dell’estate, mantenendo in questo modo l’εἶδος, la loro essenza.

Robert Capa / La guerra

Robert Capa. Nella storia
Museo della Culture (Mudec) – Milano
A cura di  Sara Rizzo, in collaborazione con Magnum Photo
Sino al 19 marzo 2023

«Se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino». A dirlo è Endre Ernő Friedmann, che da fotografo prese il nome di Robert Capa. E infatti finì la sua breve vita (era nato a Budapest nel 1913), durante l’ennesimo reportage di guerra, nel 1954, in Indocina/Vietnam, saltando su una mina antiuomo.
La guerra è il tema principe della sua arte, ma non è l’unico. E soprattutto la guerra non sono i morti e le distruzioni ma l’umanità viva davanti ai morti, immersa nella distruzione, nel tentativo di scampare, nella festa per la guerra che si conclude. La guerra non è decisa da nessuno ma sono gli umani – e tra loro soprattutto i potenti – a essere decisi da essa.
La guerra è una passione mortale, la cui natura suggerì ai Greci di trasformare in amanti Ares e Afrodite. La costanza della guerra nonostante la sua devastante irrazionalità è essa stessa prova e indizio di una razionalità ben espressa dall’ironia di Euripide. In Ὀρέστης, infatti, Apollo spiega la ragione antropodecentrica per la quale gli dèi permettono, organizzano, assistono, vogliono la guerra tra gli umani: «θανάτους τ᾽ ἔθηκαν, ὡς ἀπαντλοῖεν χθονὸς / ὕβρισμα θνητῶν ἀφθόνου πληρώματος», «tante morti vollero, per sgravare la terra dall’insolenza d’una ciurma d’uomini sterminata» (vv. 1641-1642). Comprendere dunque «la fusione tra bellezza e violenza, tra terrore e amore – il terribile amore per la guerra» (Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi 2005, p. 133) significa riconoscere la ferocia della guerra riuscendo tuttavia a spiegare perché essa sia così costante e così coinvolgente.
Questo terribile amore per la guerra percorre le opere di Capa.
I profughi tedeschi che il 24 marzo 1945 lasciano le loro case e i campi ridotti in cenere.

 

I bambini cinesi di Hankou che giocano nella neve durante la guerra Cino-giapponese nel 1938.

CHINA. Hankou. March, 1938. Children playing in the snow

Le donne di Mosca che ballano tra di loro nel 1947 anche perché molti uomini sono morti al fronte (immagine di apertura)

Lev Trotsky che a Copenhagen il 27 novembre 1932 esercita tutto il proprio fascino e forza retorica per sostenere «la rivoluzione permanente», vale a dire la guerra permanente.
DENMARK. Copenhagen. November 27th, 1932. Leon Trotsky lecturing

Come si vede, non ci sono cadaveri qui. C’è la vita umana prima, durante e dopo la guerra. La vita umana sempre.

L’infanzia, la morte

L’infanzia, la morte – Pierluigi Ciambra
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXVIII – numero 79 – dicembre 2022
pagine 16-21

Queste bambine non sono solo bambine. Queste figlie non sono soltanto figlie. Queste creature hanno qualcosa di sacro, come divinità incarnate in forma infante ma che annunciano quello che la fotografia sempre dice, testimonia, mostra: la morte.
Tre bambine (tre come le Parche, tre come le Moire) sono immerse fino al busto dentro il mare. Un mare grigio che soltanto sullo sfondo assume la tinta rosa del Sole al suo tramonto. Le tre creature sono silenziose, intense, padrone dello sguardo dentro il mare, dentro la vita, dentro la sua fine.

Sulla Cina

Henri Cartier-Bresson
Cina 1948-49 / 1958

Museo delle Culture (Mudec) – Milano
Sino al 3 luglio 2022

In Cina nel 1948 l’esercito e il governo nazionalisti si dissolvono e l’esercito comunista occupa Pechino, le altre grandi città, le campagne. Tutto sembra crollare in pochi giorni. La moneta torna a diventare la carta che è. Le persone si accalcano davanti alle banche sperando di trasformare quella carta in oro reale. La fame riappare ma la vita quotidiana in qualche modo continua. Il passato millenario si trova di fronte alla durezza del presente e all’incertezza del futuro. Nei templi continua a vivere indistruttibile il sacro, mescolato alle superstizioni, alla fede. Il tifone che colpisce Shangai a fine luglio 1949 ricorda a tutti che il tempo non è soltanto storia umana ma è anche materia e cielo che continuano indifferenti a essere ciò che da milioni di anni sono.
Cartier-Bresson osserva e fotografa tutto questo con una grande oggettività dello sguardo unita a una profonda pietà.
Oggettività, pietà e curiosità che esercita dieci anni dopo, quando torna in Cina per documentare la nuova vita, il nuovo potere, le nuove fedi che muovono quel Paese immenso. E vede volontari che costruiscono una diga con l’ebbrezza dell’essere massa, di un progetto e di un fare che somigliano a quelli di un formicaio. Vede parate e manifestazioni celebrative con giovani che danzano, saltellano, sorridono. In ogni caso una festa, qualunque ne sia stato e ne sarà il prezzo. Vede il paesaggio sconfinato e i manufatti millenari che lo abitano, per i quali la storia umana rimane in ogni caso una piccola parte della vera storia, quella degli elementi.
Storia che per Cartier-Bresson è inseparabile dalla geometria dello sguardo, dalla capacità del suo occhio e della sua macchina fotografica di inserire i corpi viventi e i loro movimenti dentro le strutture formali che i corpi attraversano e con i quali si armonizzano. Per lui sono queste e soltanto queste le immagini che valgono, che sceglie, che vuole. Immagini nelle quali l’elemento umano, quello architettonico/spaziale e quello naturale convivono sino a diventare una cosa sola.
Tutto ciò conferma la natura ermeneutica della fotografia. L’artista lo afferma apertamente: a contare non sono i fatti ma il punto di vista che li coglie, l’interpretazione che se ne dà. Tra i due viaggi in Cina, nel 1952, scrisse infatti questo: «Per me la fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento e di una precisa organizzazione di forme che danno a quell’evento la sua giusta espressione» (Images à la sauvette, Verve).
L’imprendibilità della storia è colta tramite l’invenzione geometrica dell’istante, del tempo.
Che cosa è la Cina adesso? Che cosa è diventata la Cina rivoluzionaria e dispotica fotografata da Cartier-Bresson? Che cosa potrà diventare? Lo racconta e lo spiega bene Simone Pieranni, parlando di WeChat, l’analogo cinese di Facebook ma ancora più pervasivo, se possibile. E sembra possibile. Leggete questo breve articolo, assai istruttivo: Cos’è WeChat? (17.6.2022). Leggetelo alla luce di un’affermazione che nel testo di Pieranni non c’è e che sembra entrarci poco e invece a me sembra centrale: l’Europa che sta morendo perché diventata colonia della potenza anglosassone sarà pronta -al momento opportuno- a diventare colonia della Cina. Perché in entrambi i casi non c’è e non ci sarà più la filosofia greca a difenderne le libertà. 

 

I corpi delle donne

I corpi delle donne – Angelika Kollin
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXVIII – numero 78 – aprile 2022
pagine 10-17

Abbracciati, in piedi, mentre allattano, nella foresta, insieme agli altri animali, teneri, vuoti, intrecciati, trasparenti, giovani e splendenti, anziani e dignitosi, desiderabili, limpidi.
I corpi delle madri, i corpi delle figlie, i corpi dei pargoli, i seni, le cosce, le teste, il viso. Il sorriso e la meditazione, gli sguardi perduti e gli sguardi inflessibili. I volti che abbracciano e i baci che dormono.
I corpi delle donne che Angelika Kollin fotografa, descrive e ricompone sono espressione della potenza demiurgica del mondo, della madre Terra, del cosmo che possiede strutture costanti e insieme flussiche; della materia -minerale, vegetale, animale- che è un continuo generarsi di forme autonome da qualunque mente, volontà, creazione, scopo.

Nello stesso numero sono stati pubblicati i contributi di tre miei allievi:
-Simona Lorenzano, Il filo e il fiume – Paolo Simonazzi
-Enrico Moncado, Scatole magiche – Walter Plotnick
-Enrico Palma, Appuntamenti tra generazioni – Diana Cheren Nygren

Sciascia / Marpessa

FERDINANDO SCIANNA
Viaggio Racconto Memoria
Palazzo Reale – Milano
A cura di Paola Bergna, Denis Curti, Alberto Bianda
Sino al 5 giugno 2022

In cinquant’anni di immagini, Ferdinando Scianna ha scattato più di un milione di fotografie. Ma, dichiara, «pochissime sono le foto buone». In effetti, qualunque mostra fotografica -tanto più se l’autore è molto noto- costituisce un distillato dello sguardo incessante che indaga le forme del mondo e da esso cerca di ricavare senso, simbolo, bellezza. Nonostante le sue dichiarazioni sul primato del reale rispetto alle immagini, nonostante le affermazioni per le quali «le fotografie non sono metafore» poiché «mostrano, non dimostrano», la più parte delle opere di Scianna sembrano in realtà costruite; non emergono dal mondo ma lo plasmano con degli obiettivi ben precisi per quanto ogni volta diversi in relazione ai soggetti: paesaggi, umani, ritratti, moda, feste, lavoro, solitudini. Emblematica una immagine dal titolo Mantova, 1991 nella quale una serie artificiosa di specchi inquadra una donna, le sue cosce, in una fuga che fa pensare a Velázquez.
Scianna scrive molto e dichiara apertamente che «fare libri è diventata la ragione e l’ossessione essenziale della mia esistenza e del mio lavoro». Esistenza e lavoro che si sono aperti ai luoghi più diversi del pianeta ma che trovano nella Sicilia il loro vero centro estetico ed esistenziale: le feste religiose, la nebbia di Enna, gli umani di Bagheria (città natale del fotografo), il latifondo e il mare, la solitudine e l’arcaico, il Sole. Al quale Scianna dice di essere interessato «soltanto perché fa ombra». Ma per un siciliano sole e ombra sono inseparabili, sono la stessa realtà, sono il «barbaglio della promiscuità» che sfocia «in una limpida e attonita sfera» (Ungaretti). Lo si vede anche nei tagli di luce che chiudono il loro raggio illuminando un cane solitario tra le strade di Valencia.
Il «sentimento del tempo» di Ungaretti è simile a quello che prova Scianna quando vorrebbe «fermare il tempo, non fosse che per un istante». L’istante maschile/femminile, femminile/maschile che si coniuga in due delle migliori espressioni della sua arte, che sono anche due nomi: Leonardo Sciascia e Marpessa Hennink.
Coniugare uno dei massimi scrittori del Novecento e una modella olandese può sembrare bizzarro e tuttavia è su questi due corpi, sui loro volti e posture, che Scianna ha dato il meglio di sé: Marpessa è la femmina, nella sua potenza sensuale divertente distante funerea e maliziosa. Sciascia non è Sciascia, Sciascia è il pensare dei siciliani, il loro «sentimento» che in siciliano significa appunto anche «pensiero».
Entrambi, Sciascia e Marpessa, sono emblema di ciò che emerge con chiarezza nell’immagine forse più singolare di questa mostra, scattata a Bagheria nel 1972: una testa sorridente e quasi divertita, che emerge da alcune ghirlande di un funerale. La femmina, il maschio, la morte, la Sicilia, la gloria e il disincanto, l’ovunque.

Festa / Narcisismo / Potenza

La fotografia, l’attività fotografica, il lavoro del fotografo, sono polisemantici, assumono modalità, contenuti, obiettivi e risultati molto diversi. La fotografia può essere, e quasi sempre lo diventa nei grandi fotografi, anche antropologia, può costituire assai più che una documentazione storica di ciò che accade, può rappresentare una chiave, una strada, un modo per capire le costanti dei comportamenti umani così come si presentano in un dato spazio e tempo, in un particolare luogo e ambiente antropico. Può in questo modo coniugare la continuità dei comportamenti umani e la varietà del loro  esprimersi e manifestarsi.
Nel caso di Franco Carlisi, questo spazio e questo tempo è il cuore profondo dell’Isola, è il centro della Sicilia vissuto in uno dei momenti chiave della nostra identità di siciliani, della nostra antropologia: il matrimonio. Per i siciliani il matrimonio non è soltanto la ratifica -religiosa o civile- di un legame affettivo; non è soltanto la creazione dunque di una istituzione; non è soltanto la ripetizione di un gesto antico che tutte le civiltà, pur se in modi diversi, conoscono. Per i siciliani il matrimonio è festa, narcisismo e potenza.
Festa perché è dimostrazione della gioia, del compimento, della pausa nella vita quotidiana immergendosi in un momento di gaudio e in un rito felice che devono rimanere per sempre nella vita delle persone che lo vivono.
Narcisismo perché è finalmente quell’insieme di ore -quel giorno e tutto ciò che lo ha preparato- nel quale due persone e i loro più intimi familiari si mettono legittimamente al centro della scena collettiva.
Potenza perché qualunque spesa è permessa anche, se necessario, indebitandosi per mostrare le possibilità di una famiglia, la ramificazione dei suoi legami, il fasto che la cerimonia nei suoi diversi momenti -preparazione, rito, banchetto, memoria- deve assumere, pena la sua insignificanza.
L’arte di Franco Carlisi è capace di fare della festa, del narcisismo, della potenza pure immagini che trasformano l’intera corporeità in uno sguardo. Il corpo/sguardo di Carlisi e dei suoi sposi mescola in modo inseparabile la festa e il nulla. A  me sembra questo il suo segreto.

Il 12 novembre 2021 ebbi il piacere di presentare a Caltanissetta l’opera di questo artista. Ho pubblicato ora il video di quell’evento, con l’introduzione  della Prof. Aurelia Speziale e il mio successivo intervento. Il video dura 42 minuti.

 

Vai alla barra degli strumenti