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La festa dei morti

Piccolo Teatro Studio – Milano
Pupo di zucchero. La festa dei morti
liberamente ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile
testo, regia e costumi Emma Dante
con Carmine Maringola (il Vecchio), Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgro (Viola), Federica Greco (Primula), Sandro Maria Campagna (Pedro), Giuseppe Lino (Papà), Stephanie Taillandier (Mammina), Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout (Pasqualino), Martina Caracappa (zia Rita), Valter Sarzi Sartori (zio Antonio)
sculture Cesare Inzerillo
produzione Sud Costa Occidentale
sino al 23 aprile 2023

 

Non riparo o giaciglio,
La prima casa costruita fu la tomba
Tumulo fossa monumento
Costruire fu memoria, ammonimento
(Eugenio Mazzarella, Cerimoniale, Crocetti editore 2023, p. 51)

Qualche anno fa avevo ricordato Gli avi, la festa. Gli avi che venivano a trovare me e le mie sorelle nella notte tra il primo e il due di novembre, i regali che lasciavano – rammento un trenino elettrico e un fucile -, la festa che questi doni creavano in casa, la gioia nei bambini, il sorriso compiaciuto dei genitori. E noi a non chiederci come facessero i morti a essere ancora vivi, a tornare tra noi come un parente lontano fa da un lungo viaggio. Perché la continuità tra i vivi e i morti è un dato antropologico che tutte le culture conosciute (almeno quelle che io conosco) hanno non soltanto affermato ma anche posto come uno dei fondamenti della propria identità.
Perché non siamo atomi irrelati nel vuoto della materia ma parte di una materia indistruttibile, come le leggi della termodinamica ci mostrano. Perché non siamo individui senza radici e vaganti in un mondo ridotto a mercato ma persone che germinano dalle comunità che ci hanno generati e accolti, che ci hanno trasmesso una lingua, un tratto somatico, un colore della pelle, un insieme di abitudini quotidiane e di cadenze collettive. Soltanto la superficiale barbarie di un capitalismo senza terra – o meglio, la cui patria sono i fantastilioni di Disney – può pensare seriamente che esistano soltanto corpimente nel qui e ora e non flussi di vite nei millenni geologici, biologici, storici.
Basta quindi uno dei racconti di Giambattista Basile (1566-1632) per far tornare in vita le sorelle, i genitori, gli zii che la profondità di un vecchio rammemora mentre ormai da solo in una casa vuota ricorda i suoi affetti. E queste nove persone lo accompagnano, lo aiutano, lo disorientano e lo indirizzano mentre tenta di plasmare un pupo di zucchero da offrire ai morti che ritornano, da condividere con loro. «Durante il rituale, in quella notte, era come se mangiando quei dolci ci si cibasse delle anime dei defunti» (Programma di sala, p. 4) in una continuità materica senza la quale rimane soltanto l’orrore.
Ed è infatti solo questo che va rimanendo in una civiltà che ha uno dei propri emblemi nella paura della morte diventata patologica, universale e insensata. Una paura che spinge alla servitù volontaria, all’imprudenza sanitaria, a un feroce conformismo sociale. I ritornanti del XXI secolo sono gli zombi della saga di George Romero, le vittime banalizzate della cronaca nera che infesta l’informazione, i rimossi dal tessuto quotidiano. La morte trasformata in orrore, in tabù, in banalità è davvero un segno di declino.
E invece «nello spettacolo, sono presenti dieci sculture create da Cesare Inzerillo che mostrano il corpo osceno della morte. In Pupo di zucchero la morte non è un tabù, non è scandalosa: ciò che il vecchio vede e ci mostra è una parte inscindibile della sua vita. La cosa non può che intenerirci. La stanza arredata dai ricordi diventa una sala da ballo, dove i morti, ritrovando le loro abitudini, festeggiano la vita» (Ivi, p. 7).
Una festa che Emma Dante declina nelle modalità verso le quali da tempo è avviata: non più soltanto teatro di parola ma una Gesamtkunstwerke, un’opera d’arte totale, nella quale a prevalere sono le musiche e i corpi che danzano o che in ogni caso scandiscono nel ritmo i loro gesti.
In Pupo di zucchero non c’è forse la tonalità straniante e ribelle di altre opere di Emma Dante ma c’è uno struggente affetto verso i legami che ci intessono.

[foto di apertura di Ivan Nocera]

Festa / Narcisismo / Potenza

La fotografia, l’attività fotografica, il lavoro del fotografo, sono polisemantici, assumono modalità, contenuti, obiettivi e risultati molto diversi. La fotografia può essere, e quasi sempre lo diventa nei grandi fotografi, anche antropologia, può costituire assai più che una documentazione storica di ciò che accade, può rappresentare una chiave, una strada, un modo per capire le costanti dei comportamenti umani così come si presentano in un dato spazio e tempo, in un particolare luogo e ambiente antropico. Può in questo modo coniugare la continuità dei comportamenti umani e la varietà del loro  esprimersi e manifestarsi.
Nel caso di Franco Carlisi, questo spazio e questo tempo è il cuore profondo dell’Isola, è il centro della Sicilia vissuto in uno dei momenti chiave della nostra identità di siciliani, della nostra antropologia: il matrimonio. Per i siciliani il matrimonio non è soltanto la ratifica -religiosa o civile- di un legame affettivo; non è soltanto la creazione dunque di una istituzione; non è soltanto la ripetizione di un gesto antico che tutte le civiltà, pur se in modi diversi, conoscono. Per i siciliani il matrimonio è festa, narcisismo e potenza.
Festa perché è dimostrazione della gioia, del compimento, della pausa nella vita quotidiana immergendosi in un momento di gaudio e in un rito felice che devono rimanere per sempre nella vita delle persone che lo vivono.
Narcisismo perché è finalmente quell’insieme di ore -quel giorno e tutto ciò che lo ha preparato- nel quale due persone e i loro più intimi familiari si mettono legittimamente al centro della scena collettiva.
Potenza perché qualunque spesa è permessa anche, se necessario, indebitandosi per mostrare le possibilità di una famiglia, la ramificazione dei suoi legami, il fasto che la cerimonia nei suoi diversi momenti -preparazione, rito, banchetto, memoria- deve assumere, pena la sua insignificanza.
L’arte di Franco Carlisi è capace di fare della festa, del narcisismo, della potenza pure immagini che trasformano l’intera corporeità in uno sguardo. Il corpo/sguardo di Carlisi e dei suoi sposi mescola in modo inseparabile la festa e il nulla. A  me sembra questo il suo segreto.

Il 12 novembre 2021 ebbi il piacere di presentare a Caltanissetta l’opera di questo artista. Ho pubblicato ora il video di quell’evento, con l’introduzione  della Prof. Aurelia Speziale e il mio successivo intervento. Il video dura 42 minuti.

 

Corpo / Sguardo

Venerdì 12 novembre 2021 alle 18.00 a Caltanissetta terrò una relazione sull’opera fotografica di Franco Carlisi, in particolare -ma non solo- su Il valzer di un giorno. L’evento si inserisce nell’ambito della mostra in corso presso il Museo Diocesano della città.
L’intervento ha per titolo Franco Carlisi. Il corpo come sguardo.
Il cuore profondo dell’Isola costituisce lo spazio e tempo dell’opera di Carlisi, spazio vissuto in uno dei momenti chiave della nostra identità di siciliani: il matrimonio.
Per noi il matrimonio non è soltanto la ratifica -religiosa o civile- di un legame affettivo; non è soltanto la creazione dunque di una istituzione; non è soltanto la ripetizione di un gesto antico che tutte le civiltà, pur se in modi diversi, conoscono. Per i siciliani il matrimonio è lo squadernarsi di un’antropologia.
L’opera di Carlisi trasforma l’intera corporeità in uno sguardo che esprime festa, narcisismo e potenza, che sia il corpo degli sposi, il corpo di coloro che guardano gli sposi, il corpo del fotografo diventato il suo sguardo che coglie, vede, trasmette e documenta l’anima dei siciliani, la solitudine, la malinconia, il nulla. Dentro la festa.

Una festa selvaggia

Una festa selvaggia è quella dei due fratelli, Elettra e Oreste, che per decreto di Apollo scannano la madre Clitennestra e il nuovo marito di lei, Egisto, a vendicare l’assassinio del padre Agamennone, vittima della madre e dell’uomo.
Festa di passione, perché l’amore di Clitennestra verso la figlia Ifigenia, l’odio verso il marito, l’attrazione per  un uomo bello come Egisto, costano alla donna la lucida e cupa affermazione di Oreste: «Creasti in noi chi t’ammazzò»1.
Festa di vendetta, perché, sostiene Elettra, «altrimenti dovremmo credere che gli dèi più non esistano, se sul giusto prevale l’ingiustizia» (628); e per dare sicurezza al compimento dell’omicidio aggiunge che «sarà un’inezia mutarla nell’Ade» (631), sarà facile trasformare la fosca luce della madre nella tenebra che tutti ci accoglie; sarà facile persino destinare allo scempio il cadavere di Egisto che Oreste invita ad abbandonare «alla rapina delle fiere, se vuoi, lascialo preda degli uccelli figli dell’aria, appendilo ad un palo conficcandolo in cima: adesso è tuo schiavo, lui ch’era prima il tuo padrone» (638).
Festa di Ἀνάγκη, che involve l’intero, che intride anche gli errori degli dèi – «μοῖρά τ᾽ἀνάγκης ἦγ᾽ ἐς τὸ χρεών, / Φοίβου τ᾽ἄσοφοι γλώσσης ἐνοπαί», ‘La tua sorte decise la Necessità / e il decreto di Febo, che saggio non fu’ (vv. 1300-1301; p. 652)–, festa della Μοίρα che può distruggere individui e intere stirpi -«Non c’è casa più misera, né ci fu mai, di questa dei Tantalidi» (648)– ma può dare loro anche gioia: «Una volta compiuto il tuo destino, che ti volle omicida, liberato da tutti questi guai, sarai felice» (652).
Un abisso c’è tra tale modo di intendere l’esistere e la sensibilità dell’Europa moderna; tra questa potenza selvaggia dell’inevitabile e la compassione universale verso gli umani; tra la consapevolezza di quanto gratuito, insensato e terribile sia lo stare al mondo e il luna park moralistico e sentimentale che sostiene il valore sacro di ogni umano.
Sacra hanno la presunzione di definire i moderni la macchina pneumatica che ingerisce ossigeno e cibo e li espelle sotto forma di escrementi e parole. Sacro chiamano ciascuno degli innumerevoli, miliardi e miliardi, di umani che nel corso degli evi sono stati e continuano a essere concepiti nell’umido dello sperma e dell’uovo, che dureranno un poco e torneranno poi alla materia comune dalla quale la casualità genetica li ha tratti. Sacro osano definire ogni feto e ogni neonato, «quest’ometto cieco, dell’età di qualche giorno, che volge la testa da tutte le parti cercando non si sa cosa, questo cranio nudo, questa calvizie originaria, questa scimmia infima che ha soggiornato per mesi in una latrina e che fra poco dimenticando le sue origini, sputerà sulle galassie»2. Sacro è per loro il mammifero di grossa taglia, feroce con i propri simili e distruttivo dell’ambiente che gli dà vita e risorse.
Questa festa antropocentrica è abbastanza trascurabile da lasciarla alla sua insignificanza, al suo inevitabile suicidio. Sacra è piuttosto la materia infinita, potente ed eterna, che non conosce il bene e non sa che cosa sia il male, che è fatta di luce e di buio, di densità e di vuoto. La materia è la festa del cosmo, la sua indistruttibile pace.

Note
1. Euripide, Elettra (Ἠλέκτρα), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 650.
2. Emil Cioran, Squartamento (Écartèlement, 1979), Adelphi 1981, p. 106.

La festa immobile

«Una delle più importanti linee di sviluppo dell’arte contemporanea si orienterà verso il tema della radicale spersonalizzazione dell’artista e del suo volersi fare cosa, oggetto inanimato, meccanismo» scrive Giuseppe Frazzetto (Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore, 2017, p. 68).
L’artista è padrone della sua festa e servo della mobilitazione dentro la quale soltanto la festa può esistere. «Il far niente in fin dei conti è una sospensione del tempo storico; se non una festa, un party. La vita è bellissima. Questo resta della promesse de bonheur? Un intricato fake d’un fake? […] L’artista sovrano è indistinguibile dai suoi innumerevoli doppi qualunque. […] La distinzione è prodotta solo dal fatto che il doppio qualunque dell’artista sovrano non è cooptato dall’apparato, che potrebbe però cooptarlo senza difficoltà di sorta. È così? Non c’è dubbio. Per ora. Finché dura il party generalizzato. La festa immobile dell’anti-arte, della spiritualizzazione banalizzata del far-niente estetico d’un inafferrabile ‘Io è un altro’, del trionfo dell’autofeticizzazione servo/sovrano» (p. 206).
Di questo e di molto altro parleremo al Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania giovedì 9 maggio 2019 alle 10,00, nell’aula A9, con gli studenti del corso di Sociologia della cultura e con chiunque vorrà esserci.

Sant’Agata

Dal 3 al 6 febbraio scorsi Catania ha vissuto ancora una volta la sua Grande Festa. A essere celebrata, portata tra le strade, arricchita di offerte, ricolma di desiderio, amata come figlia madre sorella, è stata Agata, il cui nome greco indica valore e nobiltà. Ἀγάθη è infatti anche una manifestazione di Artemide, vergine intransigente come lei.
Hanno quindi ragione coloro che accusano questa festa di essere pagana. Il cristianesimo, in effetti, ha poco da spartire con il culto totale riservato al busto argenteo di Agata, a questo idolo che si muove per giorni e notti tra i suoi fedeli, dando loro passione, lacrime e gioia. Come accadeva per le antiche statue degli dèi, il busto di Agata non rappresenta la santa ma è la santa. La dimensione pagana di queste feste dimostra la tenacia degli antichi culti in Europa e mostra soprattutto la naturalità del paganesimo, che è fatto di materia, di corpi, di fisicità, come appare chiaro a chiunque assista alla festa agatina.
A chi, poi, deplora le inflitrazioni criminali in questa celebrazione, si risponde che hanno certo ragione, che la festa è in gran parte controllata dalla malavita, ma che è la città a essere banditesca e quindi lo è anche la sua festa più importante. Pretendere che le celebrazioni popolari siano pure e linde quando la borghesia e i ceti dirigenti di Catania sono in gran parte corrotti significa essere o in mala fede o ingenui. Significa in ogni caso non comprendere le strutture della vita collettiva. È Catania a essere mafiosa non sant’Agata.
Per un pagano disincantato è un piacere vedere la fede nell’idolo, sentire le voci gridare «Saccu o senza saccu semu tutti devoti tutti!», sapere che al rientro definitivo della statua -il 6 mattina- gli innamorati di Agata piangono, la trattengono, le chiedono di rimanere ancora un poco con loro. Gli enormi ceri portati a spalla e bruciati dappertutto rappresentano ancora una scintilla -sporca, certo, decaduta e miserabile ma sempre viva- della grande Luce ellenica e mediterranea.
Segnalo il progetto -e il video, bello e interessante- di Durga, un film francese dedicato a Catania e ai suoi miti, nel quale trova spazio e senso anche la dea Agata.

Casanova come artista

Il Casanova di Fellini
di Federico Fellini
Italia, 1976
Con Donald Sutherland

Casanova_FelliniRivolgendosi a Giacomo Casanova una donna chiede: «Non riesci a parlare d’amore senza immagini funebri, senza parlare di morte?». È anche per esorcizzare la morte che Casanova/Fellini (questo il trasparente significato del titolo) dispiega la gloria dei colori, l’invenzione degli spazi, il frastuono del movimento, la festa.
La festa percorre per intero questo film: dall’incipit veneziano del Carnevale ai teatri  e alle corti d’Europa dove Casanova viene ospitato, lavora, seduce.  Ovunque la musica (magnifico Nino Rota) e particolarmente nella scena dell’organo suonato con furore da vari esecutori alla corte di Wittenberg. A Dresda alla fine della serata calano i lampadari, che vengono spenti uno a uno. Ed è come se il silenzio parlasse.
Dopo l’incontro con la madre comincia la decadenza del colto avventuriero, inizia il ritorno alla materia, al ventre della terra. L’artista appassionato e candido recita ancora i versi della follia di Orlando ma una donnetta comincia a ridere e lo offende di fronte all’intera corte.
È il destino dell’artista baudeleriano, dell’Albatros. Meglio allora, molto meglio, il coito con il bell’automa femminile. E quindi con se stesso. Come sempre. Mentre un uccello meccanico con le sue ali si alza e si abbassa -accompagnando le gesta amorose di Giacomo- la festa, la malinconia e la donna sorgono e tramontano nel sogno intimo e pubblico in cui consiste questo capolavoro.

 

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