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Organon

Aristotele
Organon
Categorie, Dell’espressione, Primi Analitici, Secondi Analitici
in «Opere», a cura di Gabriele Giannantoni, volume I
Traduzione e note di Giorgio Colli
Laterza 1982
Pagine LXIV-373

Logica, Metafisica, Etica nel pensiero aristotelico appaiono sempre strettamente legate. Quanto viene acquisito in un ambito contribuisce a chiarire e ad approfondire altre discipline, settori, domande. È anche questo movimento interno della verità – quasi come il sangue che circola in un corpo – a fare dell’opera aristotelica una struttura di pensiero sempre viva, pulsante, attuale, come se fosse stata scritta oggi. Ciò che è stato chiamato Organon, lo strumento della ricerca, non è limitabile al campo della logica pur fondando la logica.
Nelle prime quattro delle sei opere che compongono l’Organon viene, infatti, chiarita la distinzione che è anche metafisica tra le sostanze prime – l’ente singolo nel qui e ora della sua esistenza irriducibile – e le sostanze seconde, i concetti, i generi, gli universali. Non ha quindi senso affermare che una sostanza prima sia più sostanza di un’altra, dato che il semplice esserci qualifica e caratterizza gli enti che sono. La logica mostra qui la sua natura profonda di scienza non antropomorfica, pur costituendo proprio essa una tipica caratteristica umana.

La ragione per cui le sostanze prime si dicono sostanze in massimo grado consiste nel fatto che esse stanno alla base di tutti gli altri oggetti, e che tutti gli altri oggetti si predicano di esse, oppure sussistono in esse […]. Allo stesso modo, del resto, tra le sostanze prime nessuna è sostanza in misura maggiore di un’altra; un determinato uomo è infatti sostanza in misura per nulla maggiore di un determinato bue.
(Cat. 5, 2b 15-30)

Se i concetti altro non sono che la generalizzazione degli enti operata dalla mente umana, è chiaro che ogni conoscenza non può nascere che dal contatto con la dimensione concreta degli oggetti singoli, della pluralità infinita e determinata delle cose individuali. La contrapposizione alla gnoseologia del Menone è quindi esplicita: «in effetti, non ci accadrà mai che dell’oggetto singolo sussista una prescienza; si deve dire piuttosto che mentre si sviluppa l’induzione noi assumiamo la conoscenza degli oggetti particolari, come se li riconoscessimo» (An. post. B 21, 67a 22-25; cfr. anche An. post. A 1, 71b 6-10). Non solo: nessuna conoscenza è possibile se si prescinde dalla sensazione «dal momento che noi impariamo o per induzione, o mediante dimostrazione […] non è tuttavia possibile cogliere le proposizioni universali se non attraverso l’induzione, poiché anche le nozioni ottenute per astrazione saranno rese note mediante l’induzione» (An. Post. A 18, 81a 39-40, 81b 1-5).
Dal particolare all’universale, dal singolo al concetto, questo è secondo Aristotele il cammino della conoscenza. Dalla sensazione nasce il ricordo, dal ricordo ripetuto si genera l’esperienza. Le forme più alte del sapere, l’intuizione e – a essa subordinata – la dimostrazione, hanno quindi a fondamento la sensazione diventata esperienza. Ma lo Stagirita non è un semplice empirista. Prima di Galilei e della Rivoluzione scientifica, nata più contro gli aristotelici che contro Aristotele, egli aveva chiara la differenza fondamentale tra la semplice osservazione dei fenomeni e la loro comprensione razionale. La percezione da sola non è, infatti, spiegazione: «la conoscenza dimostrativa non si può raggiungere attraverso la sensazione […] La sensazione si rivolge, infatti, necessariamente all’oggetto singolo, mentre la scienza consiste nel render noto l’oggetto universale» (An. post. A 31, 87b 28-35; cfr. anche An. post. A 13, 79a 10-12).

Le Categorie accennano anche alle tesi sviluppate nella Fisica a proposito delle diverse forme del mutamento, qui individuate in sei ma sintetizzabili in quattro: «generazione e corruzione, accrescimento, diminuzione, modificazione qualitativa, movimento» (14, 15a 13-14); elencano poi le dieci categorie: «i termini che si dicono senza alcuna connessione esprimono, caso per caso, o una sostanza, o una quantità, o una qualità, o una relazione, o un luogo, o un tempo, o l’essere in una situazione, o un avere, o un agire, o un patire» (4, 1b 25); enunciano infine una vera e propria filosofia del linguaggio che ha a fondamento la distinzione tra il nome, il verbo e la proposizione: un nome può diventare vero/falso solo se viene unito a una predicazione-determinazione, la funzione di verità dipende quindi dalla connessione fra i nomi, ciascuno dei quali può essere sensato o meno ma mai da solo può essere vero o falso.
La filosofia del linguaggio viene ulteriormente sviluppata nel De interpretatione. Qui Aristotele afferma con molta chiarezza che «i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce» (1, 16 a 5). Anche per questo, «nessun nome è tale per natura» e il linguaggio è una delle espressioni peculiari dell’identità umana, intessuta sin dall’inizio di artificio, convenzione, tecnica (2, 16 a 25-30).
Anche qui, come in molti dei suoi scritti, Aristotele ribadisce il principio di fondo – ancora una volta insieme logico, gnoseologico e metafisico – secondo cui «noi pensiamo di conoscere un singolo oggetto assolutamente -non già in modo sofistico, cioè accidentale- quando riteniamo di conoscere la causa, in virtù della quale l’oggetto è» e la necessità che lo fa esistere e agire (An. post. A 2, 71b 9-10; cfr. anche An. post. B 8, 93a 4-5).

I risultati più specificatamente logici delle ricerche contenute nell’Organon sono riassumibili nel principio di non contraddizione: «Orbene, non è possibile che delle determinazioni contrarie appartengano simultaneamente allo stesso oggetto» (De interpr., 24b 10); nella delineazione di ciò che gli scolastici chiameranno «quadrato logico» (Ivi, 24b 1-5; An. pr. B, 62a 15-19); nella lucida, approfondita e finanche appassionata discussione dei sillogismi, delle dimostrazioni, dei ragionamenti capziosi come il “circolo vizioso”: «la dimostrazione è infatti un particolare sillogismo, mentre non tutti i sillogismi sono dimostrazioni. Orbene, quando tre termini stanno tra di essi in rapporti tali, che il minore sia contenuto nella totalità del medio, ed il medio sia contenuto, o non sia contenuto, nella totalità del primo, è necessario che tra gli estremi sussista un sillogismo perfetto» (An. pr. A 4, 25b 30-35). Cfr. anche An. pr. B 16, 64b 25-30, 65a 1-5; An. post. A 2, 71b 19-21; «colui che possiede la dimostrazione universale conosce pure l’oggetto particolare, mentre colui che possiede la dimostrazione particolare non conosce l’oggetto universale» (An. pr. A 4, 24, 86a 12).
Certo, molte pagine dell’Organon sono assai tecniche, a volte oscure e non prive di contraddizioni. Non a caso, la filologia aristotelica trova in esse un campo assai vasto di indagine. E tuttavia, il pensiero dello Stagirita è alla fine sempre lucido, coerente e sistematico; una vera e propria machine à penser. L’aristotelismo è tuttavia un dispositivo sempre consapevole dei limiti che ineriscono al ragionare umano, tanto più grandi quanto più esso si autocostruisce nella formalizzazione logica. Infatti, «su argomenti di questa natura è forse difficile, senza aver condotto ripetute indagini, formulare delle dichiarazioni nette; non è tuttavia inutile l’aver agitato delle difficoltà su questi vari punti» (Cat. 7, 8b 20-25). Ed è proprio tale agitazione uno degli specifici elementi della filosofia.

Aristotele

Aristotele
Metafisica
in «Opere», volume VI
Traduzione e note di Antonio Russo
Laterza 2019 [1982]
Pagine 440

Il trattato che gli editori di Aristotele, tra i quali Andronico di Rodi, raccolsero e pubblicarono dopo gli scritti di fisica, μετά τα Φυσικά, si compone di quattordici libri. In essi viene esposta la «filosofia prima», ovvero la scienza dei principî, delle cause e delle sostanze. Introducendo la sua nuova traduzione in italiano della Metafisica Enrico Berti scrive che «l’impressione complessiva che un lettore può provare è quella di trovarsi di fronte a un testo difficile, complicato, spesso incomprensibile. Ebbene, questo è esattamente la Metafisica di Aristotele, uno dei testi filosofici più difficili che l’antichità ci abbia trasmesso, che richiede al lettore sforzo, fatica, pazienza, intelligenza» (Metafisica, Laterza, Bari-Roma 2017, p. XIII).
È così. Ma la lettura e la riflessione su questo insieme di trattati è propedeutica a qualunque comprensione della filosofia europea e in cambio dell’impegno offre uno sguardo oggettivo e profondo sulla realtà. La nuova traduzione di Berti è molto letterale e più fedele al testo rispetto a quella di Antonio Russo. Preferisco tuttavia riassumere e citare da quest’ultima perché il mio obiettivo consiste qui solo nel presentare, per quanto possibile, i concetti fondamentali di Aristotele e invitare a conoscerli direttamente dall’opera, nella traduzione che si ritiene più adatta ai propri interessi di studio. 

Per Aristotele dunque l’impulso alla conoscenza – presente per natura in ogni umano (libro A [I], cap. 1, 980a, 20) – nasce dallo stupore, dalla meraviglia (A [I], 2, 982b, 10-15). È da essa che si origina la scienza più profonda e l’attività più alta, l’attività teoretica il cui scopo ultimo è «la verità» (α [II], 1, 993b, 20). Conoscere la verità significa conoscere le cause di ciascun ente e del divenire. Esse sono quattro.

  1. «Ciò da cui proviene l’oggetto e che è ad esso immanente»
  2. «La forma e il modello, vale a dire la definizione del concetto e i generi di essa»
  3. «Ciò donde è il primo inizio del cangiamento e della quiete»
  4. «Inoltre la causa è come fine, ed è questa la causa finale, come del passeggiare è la salute»
    (Δ [V], 2, 1013a, 24-35, 1013b, 2).

Per riuscire a condurre l’indagine sulle cause è indispensabile un principio guida che sia sicuro e saldo. Di esso Aristotele aveva già parlato nell’Organon: si tratta dello strumento logico preliminare a ogni pensiero, il principio di non-contraddizione, secondo cui «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione» (Γ [IV], 3, 1005b, 19).
A questo principio fondamentale va unita la consapevolezza che non è possibile dare dimostrazione di ogni cosa poiché tale pretesa condurrebbe al regresso all’infinito, che per Aristotele coincide con l’irrazionale. Inoltre, si dà conoscenza scientifica soltanto di ciò che è universale poiché gli enti individuali sono dominio della semplice sensazione.
Posti questi fondamenti, il filosofo identifica la prima importante distinzione ontologica nella potenza e nell’atto. Potenza è la possibilità del divenire, l’atto è la potenzialità realizzata. Il passaggio dall’una all’altro è il movimento, è il tempo. L’atto possiede sempre una originaria prevalenza: «ciò che è in atto proviene sempre da ciò che è in potenza, ma proviene per opera di qualcosa che è attualmente esistente» (Θ [IX], 8, 1049b, 24). I principî sinora esposti e la distinzione tra atto e potenza dicono in modo chiaro che il lavoro teoretico si rivolge a un mondo in sé esistente, autonomo dalle sensazioni del vivente, «non è affatto possibile che i sostrati, i quali producono la sensazione, non esistano anche senza la sensazione» (Γ [IV], 5, 1005b, 34-35).

La teoresi si distingue in tre tipologie: matematica, fisica, teologia. La prima si occupa di enti immobili ma che (probabilmente) non esistono separati da una materia; la seconda studia enti che esistono separatamente ma non sono immobili; la filosofia/teologia (l’’onto-teo-logia’ della quale parla Heidegger ma che appartiene molto a Heidegger e poco ad Aristotele) indaga anche gli enti «che esistono separatamente e che sono immobili» (Ε [VI], 1, 1026a, 13-19). Anche perché la teoresi teologica si occupa certamente delle cause divine ma pure degli elementi materici (acqua, aria, terra, fuoco), delle forme che costituiscono le sostanze materiche e dei fini della sostanza, vale a dire la piena realizzazione della sua forma. In questo modo, la metafisica è la scienza prima che comprende in sé tutte le altre.

L’indagine aristotelica si nutre di una pacata ma costante distanza dalla teoresi platonica, che si involverebbe in una vasta serie di incongruenze, contraddizioni e arbitrarietà, tra le quali sono particolarmente gravi l’autonomia ontologica data ai numeri; la separazione delle forme ideali (le ‘idee’) dagli enti sensibili; la concezione dell’universale come forma separata dalla materia; la caratterizzazione dell’Uno come sostanza.
Quest’ultima tesi è per Aristotele contraddittoria perché l’Uno non è un genere ma è un universale, è il concetto più universale, quello che in sé accoglie tutti gli altri, comprese identità e differenza.
La scienza aristotelica, attraverso un lungo e minuzioso lavoro di indagine sulle cause e sui principî, perviene alla identificazione di un primo motore che è causa efficiente e finale di ogni ente ed evento, «un essere necessariamente esistente e, in quanto la sua esistenza è necessaria, si identifica con il bene e, sotto questo profilo, è principio», un principio dal quale dipendono il cielo e la natura (Λ [XII], 7, 1072b, 10-11). Questo Intelletto primo vive in una beatitudine senza fine, rivolto sempre al pensiero sommo che è egli stesso e dunque «pensa se stesso, se è vero che esso è il bene supremo, e il suo pensiero è pensiero-di-pensiero» (ivi, 1074b, 36). Naturalmente tutto questo è da intendere senza alcun riferimento a un dio persona, volontà, padre o analoghe determinazioni. L’essere necessariamente esistente è una causa oggettiva e impersonale. Come ricorda Enrico Berti, «nella Metafisica si trova ben poca teologia monoteistica» (trad. citata, p. XVI).

La metafisica così delineata è in se stessa una ontologia. Metafisica è quella scienza 

che studia l’essere-in-quanto-essere e le proprietà che gli sono inerenti per la sua stessa natura. Questa scienza non si identifica con nessuna delle cosiddette scienze particolari, giacché nessuna delle altre ha come suo universale oggetto di indagine l’essere-in-quanto-essere, ma ciascuna di esse ritaglia per proprio conto una qualche parte dell’essere e ne studia gli attributi, come fanno, ad esempio, le scienze matematiche.
(Γ [IV], 1, 1003a, 20-25)

Tuttavia l’essere non ha una accezione univoca ma si dice in molti sensi. Tra questi il filosofo ne privilegia due: la categoria e la sostanza. Categoria «giacché il termine ‘essere’ ha tante accezioni quante sono quelle delle categorie» (Δ [V], 7, 1017a, 25); sostanza poiché «l’essere nella sua accezione fondamentale – ossia non una qualsiasi qualificazione dell’essere ma l’essere puro e semplice – dovrà identificarsi con la sostanza» (Ζ [VII], 1, 1028a, 31-32).
L’intera storia della filosofia ha ereditato questa duplice accezione dell’essere. L’essere come categoria si è trasformato, nella tarda scolastica e soprattutto nella modernità cartesiana, in un concetto puramente gnoseologico, pervenendo alla completa subordinazione degli enti alla visione-giudizio-manipolazione dell’ente umano. L’essere come sostanza è stato di volta in volta o sola materia o solo spirito.
In ogni caso, come si vede, nella Metafisica di Aristotele si origina, riposa e sta il pensare europeo. In questo trattato, o insieme di trattati, la cultura greca perviene a uno dei suoi esiti massimi e più fecondi. Il rigore dell’indagine, la complessità delle prospettive, la chiarezza dei fondamenti concorrono alla costante e pervasiva presenza nel pensare europeo di queste ricerche aristoteliche sull’essere, la verità, il tempo. È infatti vero che «il problema su cui verte ogni ricerca passata, presente e futura, la questione che è sempre aperta e dibattuta, ossia ‘che cosa è l’essere?’, non si riduce ad altro se non alla domanda ‘che cosa è la sostanza?’»  (Ζ [VII], 1, 1028b, 2-4).
La risposta più convincente e argomentata a tale domanda l’ha data Spinoza, la cui Ethica conduce a pienezza l’immanentismo come significato, struttura e benedizione dell’essere, conduce a un mondo nel  quale l’umano non ha nessun primato e persino nessuna presenza.

Per la metafisica

Martin Heidegger
Segnavia
(Wegmarken, 1967)
Edizione tedesca a cura di F.W. von Hermann, Klostermann 1976
Edizione italiana a cura di F. Volpi, Adelphi 1987
Pagine XIV-522

 

«Leonardo da Vinci scrive: ‘Il nulla non à mezzo e li sua termini è il nulla’ – Infralle cose grandi che intra noi si trovano, l’essere del nulla è grandissima’ [Codice Atlantico, folio 289 verso b e folio 389 verso d]. La parola di questo grande non può e non deve dimostrare nulla; essa rimanda alle questioni: in che modo si dà l’essere, in che modo si dà il niente? Da dove ci viene un simile darsi? In che misura siamo ad esso già assegnati in quanto esseri umani?»
(Heidegger, La questione dell’essere, p. 367)

«Il niente, è questo l’unico tema pensato dalla Prolusione» (p. 333) svolta da Martin Heidegger a Friburgo il 29 luglio 1929. Il coraggio di pensare il niente è la metafisica. Il niente che sta a fondamento dell’intero, il niente che è l’originario, il niente che per lo più non percepiamo e che tuttavia sentiamo profondamente intramato nelle nostre viscere, negli istanti, nel destino che conosciamo e che tutti ci accomuna, che tutto accomuna.
La filosofia nasce dalla meraviglia, certo, nasce dalla meraviglia che qualcosa ci sia, invece che il nulla. La domanda di Leibniz sul perché c’è l’ente invece del niente ha dietro di sé lo stupore aristotelico. Ed è anche per questo che Heidegger sottolinea, alla lettera, che «la Fisica aristotelica è il libro fondamentale della filosofia occidentale, un libro occultato e quindi mai pensato sufficientemente a fondo» (196). Aristotele pensa infatti prima e al di là di qualunque distinzione tra natura e cultura, tra spirito e materia.
Φύσις non è ‘natura’, φύσις è ἀρχή κινήσεως, è principio, origine e sostanza del mutamento, è costante divenire dell’ente che non sta fermo mai, la cui unica costante è μεταβολή, è la trasformazione, è quindi il divenire, è il tempo.

Il profondo aristotelismo di Heidegger lo induce a sostenere -a ragione- che «in Essere e tempo, ‘essere’ non è qualcos’altro rispetto a ‘tempo’, perché il ‘tempo’ viene indicato come il nome della verità dell’essere, quella verità che è ciò che dispiega l’essenza dell’essere ed è perciò l’essere stesso» (327). Nell’adesso in cui tutto si raggruma sono anche l’essere stato e il sarà, perché l’adesso non è un istante che sparisce non appena lo si pensi ma è il durare di ciò che essendo stato continua a essere, è la potenza capace di trasformarsi da ciò che adesso è in qualcosa che ancora non si dà, è l’apparire ora e qui dell’essere che nel celare la sua essenza immutabile disvela tuttavia istante per istante la pienezza della materia nello spaziotempo, nell’incessante mutare degli atomi, delle molecole, degli aggregati, dei corpi, degli organismi, dei pensieri, delle parole. Anche per questo la verità non è una funzione del linguaggio, un carattere della parola, una dimensione dei pensieri ma consiste nella modalità sempre uguale e sempre diversa in cui gli enti e il loro intero esistono.

La metafisica rivela il suo limite quando, invece di cogliere la dinamica di svelamento che sta nelle cose stesse, confonde il mondo con la rappresentazione più o meno corretta che delle menti si fanno del mondo. E tuttavia la metafisica mostra la propria perennità, la propria -se si preferisce- inoltrepassabilità quando pur incentrandosi soltanto sull’ente in quanto ente fa emergere in esso e da esso la luce dell’essere. Perché rispetto a ogni altro sapere, rispetto a tutte le scienze, è esattamente questa la capacità, è questo il proprio della filosofia, è il fatto che «ovunque la metafisica rappresenta l’ente, già traluce l’essere. L’essere ha il suo avvento in una svelatezza (Aλήϑεια). […] Pertanto si può dire che la verità dell’essere sia il fondamento in cui la metafisica, come radice dell’albero della filosofia, si sostiene e si nutre» (318).
Il legame tra il niente, l’essere e la metafisica è quindi radicale, profondo. Uno dei grandi elementi e meriti della filosofia di Heidegger è averlo colto. Il niente rimane infatti sempre, nella sua differenza dall’ente, «il velo dell’essere» (266) ma è proprio per questo velo che le cose sono, che il mondo esiste, che l’intero si dà. Senza questo niente gli enti non potrebbero essere perché sarebbero l’essere. Il niente è quindi tale differenza tra gli enti e l’essere. Per questo il niente è originario. Una differenza che si dispiega come μεταβολή, divenire e trasformazione, e quindi come tempo. Il tempo è il niente, certo. Il tempo è il niente che nella sua differenza rende possibile l’emergere della molteplicità dall’indistinto della materia, dall’Uno parmenideo, dalla potenza inquieta e insieme stabile dell’essere. Gli enti possono essere soltanto differenza, possono essere soltanto tempo. «Appartiene alla verità dell’essere che mai l’essere dispiega la sua essenza (west) senza l’ente, e che mai un ente è senza l’essere» (260).

La domanda metafisica parte dunque dal nulla che non è se non come differenza, si sofferma sull’ente che è in quanto differenza, perviene all’essere come radice della differenza da sé e quindi come dispiegamento della molteplicità. Se l’umano è l’ente che interroga, la metafisica rimane e rimarrà sempre parte costitutiva del suo stare al mondo. «L’andare oltre l’ente accade», infatti, «nell’essenza dell’esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica. Ciò implica che la metafisica faccia parte della ‘natura dell’uomo’. Essa non è un settore della filosofia universitaria, né un campo di escogitazioni arbitrarie. La metafisica è l’accadimento fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso. […] Se la domanda del niente da noi sviluppata ci ha realmente coinvolti, allora non ci siamo presentati la metafisica dall’esterno, e neppure ci siamo ‘trasferiti’ in essa. Noi non possiamo in alcun modo trasferirci nella metafisica, perché, in quanto esistiamo, siamo già da sempre in essa. φύσει γάρ, ὦ φίλε, ἔνεστί τις φιλοσοφία (Platone, Fedro, 279 a). In quanto esiste l’uomo, accade il filosofare. Ciò che noi chiamiamo filosofia non è che il mettere in moto la metafisica, attraverso la quale la filosofia giunge a se stessa e ai suoi compiti espliciti»  (77).

Questo è la metafisica, un punto di osservazione sul mondo che cerca di andare -pur nei limiti di tutti gli attingimenti umani- al di là di ogni etica, oltre ogni posizione antropocentrata, per comprendere, accogliere e rispettare l’autonomia dell’intero dalla sua parte umana, una parte tra le altre, una forma in mezzo al tutto.
La metafisica è perenne sì, perché non dipende dall’umano, dal divino, dalla storia, dalle scienze ma costituisce il sapere dell’essere, nel duplice senso del genitivo: il sapere che l’umano conserva delle cose e il sapere nel quale l’essere dispiega per intero, pur nei limiti della comprensione umana, se stesso.
«Un pensiero che pensa alla verità dell’essere certo non si accontenta più della metafisica; ma esso non pensa nemmeno contro la metafisica. Per restare nell’immagine, esso non strappa la radice della filosofia, ma ne scava il fondo e ne ara il terreno. La metafisica rimane la prima cosa della filosofia, anche se non raggiunge mai la prima cosa del pensiero. Nel pensiero che pensa alla verità dell’essere, la metafisica è oltrepassata e cade la sua pretesa di amministrare il riferimento portante all’ ‘essere’ e di determinare in maniera decisiva ogni rapporto con l’ente in quanto tale. Ma questo ‘oltrepassamento (Überwindung) della metafisica’ non mette da parte la metafisica. Finché rimane animal rationale, l’uomo è animal metaphysicum. Finché l’uomo si considera un essere vivente dotato di ragione, la metafisica, come dice Kant, appartiene alla natura dell’uomo. È invece possibile che il pensiero, qualora riesca a ritornare al fondamento della metafisica, possa contribuire a occasionare un mutamento dell’essenza dell’uomo, con cui andrebbe di pari passo una trasformazione della metafisica» (319-320).
A quel punto la metafisica diventerebbe, probabilmente, la scienza suprema del niente e del suo stupore. In questa apologia attuale e potenziale del vuoto e del nulla sta forse il primo e ultimo segreto gnostico di Heidegger.

Identità e Differenza

Martin Heidegger
IDENTITÀ E DIFFERENZA
(Identität und Differenz, 1957: Der Satz der Identität; Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik)
Trad. di Giovanni Gurisatti
Adelphi, 2009
Pagine 101

L’identità non è uguaglianza. Per la seconda sono necessari due termini, per la prima ne basta uno soltanto, «giacché mentre nell’uguale la diversità svanisce, nello stesso la diversità appare» (p. 58). Il rapporto dell’umano con l’essere e la relazione dell’ente all’essere sono caratterizzati da identità e non da uguaglianza. Essi si coappartengono perché rimangono diversi pur essendo l’identico, la cui identità consiste proprio in tale coappartenersi. Senza l’uno quindi non si dà l’altro, anche se l’uno non è l’altro se non nella relazione stessa che li fonda.
È certo «singolare», come riconosce Heidegger, che l’ente e l’essere vengano trovati a partire dalla loro differenza e nella differenza. Ed è proprio tale condizione a rendere del tutto inadeguata la struttura linguistica soggetto/oggetto che domina il Moderno, avendo la sua radice nella concezione dell’umano quale animal rationale.  “Soggetto” e “oggetto”, infatti,

sono già il prodotto di una specifica caratterizzazione dell’essere. Chiaro è soltanto il fatto che nel caso sia dell’essere dell’ente sia dell’ente dell’essere si tratta ogni volta di una differenza. Ne deriva che noi pensiamo l’essere in modo aderente alla cosa solo se lo pensiamo nella differenza dall’ente, e quest’ultimo nella differenza dall’essere. Soltanto così la differenza balza propriamente agli occhi. Se però tentiamo di rappresentarla ci troviamo subito indotti a concepire la differenza come una relazione che il nostro rappresentare ha aggiunto sia all’essere che all’ente. È così che la differenza (Differenz) viene ridotta a una distinzione (Distinktion), cioè a un artificio del nostro intelletto. (80)

Numerosi sono i modi nei quali il pensiero ha dispiegato l’oblio della differenza tra essere ed enti. È tale dimenticanza della differenza (Vergessenheit) -e non soltanto la differenza- che Heidegger intende pensare.
Un oblio che si è di volta in volta manifestato come «Fu@siv Lo@gov,  çEn, Ide@a, Ene@rgeia, sostanzialità, oggettività, soggettività, volontà, volontà di potenza, volontà di volontà» (87). In tutte queste determinazioni la metafisica mostra se stessa non soltanto come oblio della differenza ma anche come onto-teo-logia, che guarda o al fondamento comune degli enti (onto-logica) oppure alla totalità dell’ente supremo che fonda ogni cosa (teo-logica).
La concezione rappresentazionale dell’essere e l’oblio della differenza -in una parola la metafisica- arrivano per Heidegger al culmine nella tecnica, intesa come legittimazione del dominio di uno degli enti, l’umano, sull’intero.

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