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Il Nilo

Assassinio sul Nilo
(Death on the Nile)
di Kenneth Branagh
USA, 2022
Con: Kenneth Branagh (Hercule Poirot), Tom Bateman (Bouc), Gal Gadot (Linnet Ridgeway Doyle), Armie Hammer (Simon Doyle), Jodie Comer (Jacqueline de Bellefort), Annette Bening (Euphemia), Russell Brand (Windlesham), Ali Fazal (Katchadourian)
Trailer del film

Elegante e fastoso come il precedente Assassinio sull’Orient Express (2017), anche Assassinio sul Nilo costituisce un omaggio al cinema e alle passioni.
Il cinema che compare in tutta la magnificenza dei paesaggi reali e virtuali, dell’esotismo che a questa forma dell’immaginazione è connaturato, poiché vedere un film (vederlo davvero, in una sala cinematografica) significa entrare non soltanto nel mondo onirico del grembo materno ma anche nel desiderio di novità, di improbabilità, di inaudito e di felicità che abita gli umani.
Le passioni poiché a fare da fondamento e accompagnamento a questa storia sono due dei maggiori tormenti della vita: l’amore e il denaro. L’amore verso l’Altro e l’amore per il denaro che rende più semplice accedere all’Altro, o anche il puro desiderare l’Altro e per questo essere disposti a qualunque cosa per soddisfare il desiderio che Lui ha di denaro.
E tutto questo attraversando il Nilo dal Cairo ad Assuan, con le acque, i tramonti, i templi immensi delle divinità egizie; con gli animali, il Sole, il deserto; con le nevrosi e l’infelicità di ciascuno (davvero, «anche i ricchi piangono»); con gli impeccabili gilet, cravatte, cappelli, con l’intima e palese eleganza di Hercule Poirot. Il quale però nella scena iniziale appare giovane soldato belga nelle orrende trincee della Prima guerra mondiale, nel fango, nel sangue, nei veleni, nei resti umani di quella guerra senza luce.
Il bisogno che Poirot sente di comprendere l’incomprensibile, di disvelare i modi, le intenzioni, le strategie della violenza affonda in quell’inizio della sua vita, in quella fine della sua vita. E questa dolente verità espressa e narrata dal film compensa un poco l’ormai insostenibile politically correct che lo intride, rendendo obbligatorio che di alcuni personaggi si mettano in evidenza il colore della pelle –«la razza»– e i gusti sessuali –«il genere». Una maledizione degna di quelle dell’antico Egitto e della quale non è facile liberarsi. Per ragioni, ovviamente, di denaro.

Placenta

Stefano D’Arrigo
Cima delle nobildonne
Mondadori, 1985
Pagine 202

«Non vedendo più riparo alla successione degli eventi ma non sognandosi nemmeno, quand’anche avesse potuto, di impedirli» (p. 201) Mattia Meli si trova al centro del divenire che comincia come zigote, si trasforma in embrione, diventa feto, umano, bambino, adulto, vecchio, mortale, moribondo, morente, morto.
Nel grembo materno tutto questo vive per alcuni mesi dentro una sfera, un ambiente, un mondo che si chiama placenta. A tale mondo è dedicato l’intrico di fatti e situazioni che costituisce questo romanzo di D’Arrigo. Vicende che vanno dal faraone Narmer -il quale 5000 anni prima dell’era volgare eresse la propria mummificata placenta a quarto simbolo della dinastia- a una clinica di Stoccolma dove il chirurgo Belardo costruisce una vagina all’ermafrodito amato da un emiro, il quale vorrebbe edificare nella propria capitale una Placentoteca.
Eventi che vanno da una paziente incontrata dal protagonista dentro un ascensore che la porta in sala operatoria alla cagnetta di lei che conduce Mattia presso la casa della padrona, dove è conservata in formalina la placenta di un bambino mai nato.
Un professore di placentologia muore a causa di una grande delusione professionale, dopo aver dedicato l’intera vita alla Cima delle nobildonne, come lui denomina la placenta in quanto nutrice della vita e delle cose. Cima delle nobildonne, ‘Colei che va davanti alle nobili’, era chiamata anche il faraone femmina Hatshepsut, che regno a metà del II millennio portando benefici alla sua terra.
In un intrico di vicende come questo, «la cruda, crudele verità del parlare scientifico» (84) si alterna all’ironia che pervade molte pagine, battute e situazioni; sogni assai tristi che hanno per protagoniste donne «atteggiate in viso a una struggente malinconia, [le quali] spingevano ognuna una carrozzina per neonato senza neonato dentro: rare vittime di rari aborti» (123) si accompagnano alla secchezza di descrizioni chirurgiche ultratecniche.
Il risultato è una inquietante ἱλαροτραγῳδία, uno straniante raccontare che punta dritto alle fonti della vita e della morte e sembra di esse riprodurre anche lo schifo, la malinconia, la materialità.
Che l’insieme dei fatti e il loro intreccio siano del tutto inverosimili non conta. O conta nell’esatto senso indicato da Stefano D’Arrigo: «Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» (163).

Il Sole, i millenni

Egitto. La straordinaria scoperta del Faraone Amenofi II
Milano – Museo delle Culture
Sino al 7 gennaio 2018

Negli ultimi anni del XIX secolo l’egittologo francese Victor Loret scoprì nella Valle dei Re le tombe di alcuni faraoni, tra le quali quella -splendida- di Amenofi II (o Amenhotep II), morto intorno al 1400 a.e.v. Splendente perché ampia, sostenuta da colonne e fatta di pareti interamente decorate con le storie del mito, degli dèi, del Sole. La XVIII dinastia (1550-1295) rappresenta un ἀκμή della millenaria storia vissuta intorno al Nilo. Uno sfolgorìo che si esprime nel sorriso, nella serenità, nella distanza di statue che sembrano quelle di κοῦροι diventati adulti e sovrani.
Il re Amenofi e il dio Thot in forma di babbuino alzano insieme le braccia e adorano il Sole. È profonda in Egitto la continuità tra l’umano e l’animale. Insieme a quelle della nostra specie vi si trovano le mummie di altri animali, in particolare di coccodrilli, cani, scimmie, gatti. Gli dèi -che sono centinaia- vengono rappresentati con teste di uccelli, sciacalli, coccodrilli. L’animale è raffigurato nei magnifici gioielli -collane, bracciali, anelli- che adornano i corpi dei vivi e dei morti, che cantano nello spazio, che splendono il tempo. I corpi sono sacri, la loro cura è attenta e quotidiana -cosmetici, dentifrici, trucco- poiché la corporeità è simbolo e parte della luce, della sabbia, del fiume.
Porte di granito segnano il limes tra il vivere e il morire, il passaggio incerto e fondamentale del Dasein nel tempo, accompagnato e testimoniato da scarabei, divinità concubine, papiri. In mezzo a loro gli strumenti per scrivere, numerare, benedire.
La vicenda fondamentale è quella di Osiride smembrato, che viene ricomposto dalla sorella Iside e rinasce. Così come ogni giorno muore e ogni giorno rinasce Ra, la potenza del Sole. Mummie, sarcofagi, amuleti celebrano questo ritorno, raccontano la morte e la vita.
La sensazione che questa magnifica mostra trasmette è che l’Egitto stia al fondo della Grecità e quindi dell’Europa, di tutti noi. Se un vecchio sacerdote egizio potè rivolgersi a Solone dicendogli «ὦ Σόλων, Σόλων, Ἕλληνες ἀεὶ παῖδές ἐστε, γέρων δὲ Ἕλλην οὐκ ἔστιν» (Timeo, 22b), ‘Solone, Solone, voi Greci sempre giovani siete, un greco vecchio non c’è!’, è anche perché un egizio che sia giovane non c’è. La loro storia affonda nei millenni e non è ancora finita. A Tebe sono oggi in corso gli scavi dei templi che Amenofi eresse in quella città. Il loro nome in egizio è Tempio di milioni di anni.

Vittime e assassini

Nel periodo natalizio sono apparsi dei manifesti con la seguente scritta: «Non è festa senza i marò liberi. L’Italia alzi la voce». Firmato: ‘Alleanza Nazionale’. Dunque non ci sarebbe stata festa per l’intero popolo italiano senza la rinuncia da parte dell’India a processare due militari accusati di un odioso e gratuito omicidio di classe e di etnia. Dalle loro ben protette navi militari, infatti, costoro avrebbero sparato a degli inermi pescatori indiani.
Nulla invece è stato detto, da parte di questi così solerti ‘patrioti’, sull’orribile morte preceduta da efferate torture di Giulio Regeni, un giovane ricercatore massacrato dalle squadre della morte agli ordini del governo militare egiziano. Anche Regeni era un italiano ma mentre i due che conducono una tranquilla e dispendiosa vita ‘rinchiusi’ in alberghi indiani di lusso (a spese dei nostri contribuenti) sono dei militari, Regeni era un intellettuale, uno studioso, un uomo che cercava di capire con gli strumenti scientifici le modalità e le strutture della dittatura egiziana guidata dal generale Abd al-Fattah al-Sisi.
Dittatura nata dall’inganno -fomentato dalla Nato- delle cosiddette ‘primavere arabe’. Dittatura esaltata -come quella dell’Arabia Saudita e altre- dall’abominevole presidente del consiglio e segretario del Partito Democratico. È con i massacratori egiziani che il nostro Paese dovrebbe «alzare la voce». Ma alla spregevole destra italiana, che sia quella degli eredi del fascismo o quella tecnocratico-americanista del Partito Democratico, non interessano gli uomini liberi, non interessano le vittime di un potere dittatoriale come quello dell’alleato egiziano. Interessa invece la difesa degli assassini in uniforme.
Anche per questo il patriottismo delle destre è infame.

Scheherazade, Tell me a Story

di Yousry Nasrallah
(Ehky ya Schahrazad)
Egitto, 2009
Con: Mona Zakki, Mahmoud Hemeda, Hassan El Raddad, Sawsan Badr

tell me a story

Hebba è una giovane presentatrice televisiva di successo che attacca se necessario il potere. Suo marito Karim però scrive sul giornale del governo e se lei non cambia argomenti e stile lui non potrà far carriera. Per accontentarlo, Hebba decide di passare dal pubblico al privato e di farsi raccontare delle storie da donne che hanno vissuto delle particolari esperienze di vita: una bella signora che non si è mai sposata ed è finita in una clinica psichiatrica, una assassina per onore, l’erede di una grande fortuna che subisce una raffinata truffa…E tuttavia in ciascuna di tali storie ritornano l’ingiustizia, la miseria, la corruzione del governo. Sarà la stessa Hebba protagonista e vittima dell’ultimo racconto.

Tre storie dentro un unico contenitore a narrare l’Egitto contemporaneo, la sua vita quotidiana, le sue passioni. I rapporti tra la stampa e il potere somigliano in modo impressionante a quelli in atto nell’Italia berlusconiana. È questo che soprattutto colpisce: la verità del contesto, non l’esotismo della narrazione.

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