Skip to content


Dittature

Il clan
(El clan)
di Pablo Trapero
Argentina – Spagna, 2015
Con: Guillermo Francella (Arquimedes Puccio), Peter Lanzani (Alejandro Puccio), Lili Popovich (Epifanía Puccio), Antonia Bengoechea (Adriana Puccio), Gastón Cocchiarale (Maguila Puccio), Giselle Motta (Silvia Puccio), Franco Masini (Guillermo Puccio)
Trailer del film

Arquimedes Puccio è un funzionario statale argentino che si occupa dei sequestri di dissidenti politici -o presunti tali- durante gli anni della dittatura di Videla (1976-1983). Caduta la giunta militare, Puccio continua la sua attività in privato sequestrando membri di agiate famiglie, chiedendo loro un riscatto in nome di fantomatiche organizzazioni ‘rivoluzionarie’ e uccidendo poi in ogni caso gli ostaggi. Compie tutto questo aiutato anche dal figlio maggiore Alejandro, il quale frequenta ambienti altolocati e tradisce quindi i suoi amici consegnandoli al padre. Alejandro però è sempre più inquieto. Quando la protezione goduta da parte della polizia e dei giudici viene meno, i due sono arrestati con l’intera famiglia e in carcere si scatena il conflitto tra padre e figlio.
La vicenda è realmente accaduta. Arquimedes e Alejandro Puccio sono stati entrambi condannati all’ergastolo. Pablo Trapero racconta la loro storia e quella delle loro vittime mescolando documentazione, ironia (straniante la spensierata colonna sonora), amarezza. Da questa vicenda emergono due profonde verità.
La prima è privata e riguarda il fatto che la malvagità e l’orrore possono intridere il quotidiano più banale. Significativo e terribile il piano sequenza nel quale il buon padre Puccio comunica che è pronta la cena, raccomanda a tutta la famigliola di mettersi a tavola, chiede a una delle figlie -che sta ancora in camera sua- di interrompere lo studio; intanto tiene in mano un vassoio con il quale entra in un’altra stanza della casa dove un ostaggio sta piangendo disperato e gli consegna la cena.
L’altra verità è politica ed è la conferma che una delle più distruttive conseguenze di una dittatura -specialmente se militare- sta nel fatto che essa uccide qualunque sentimento di pietà, di onestà, di condivisione, di lealtà, di luce. La dittatura fa piombare le menti in un baratro di corruzione infinita.

Vittime e assassini

Nel periodo natalizio sono apparsi dei manifesti con la seguente scritta: «Non è festa senza i marò liberi. L’Italia alzi la voce». Firmato: ‘Alleanza Nazionale’. Dunque non ci sarebbe stata festa per l’intero popolo italiano senza la rinuncia da parte dell’India a processare due militari accusati di un odioso e gratuito omicidio di classe e di etnia. Dalle loro ben protette navi militari, infatti, costoro avrebbero sparato a degli inermi pescatori indiani.
Nulla invece è stato detto, da parte di questi così solerti ‘patrioti’, sull’orribile morte preceduta da efferate torture di Giulio Regeni, un giovane ricercatore massacrato dalle squadre della morte agli ordini del governo militare egiziano. Anche Regeni era un italiano ma mentre i due che conducono una tranquilla e dispendiosa vita ‘rinchiusi’ in alberghi indiani di lusso (a spese dei nostri contribuenti) sono dei militari, Regeni era un intellettuale, uno studioso, un uomo che cercava di capire con gli strumenti scientifici le modalità e le strutture della dittatura egiziana guidata dal generale Abd al-Fattah al-Sisi.
Dittatura nata dall’inganno -fomentato dalla Nato- delle cosiddette ‘primavere arabe’. Dittatura esaltata -come quella dell’Arabia Saudita e altre- dall’abominevole presidente del consiglio e segretario del Partito Democratico. È con i massacratori egiziani che il nostro Paese dovrebbe «alzare la voce». Ma alla spregevole destra italiana, che sia quella degli eredi del fascismo o quella tecnocratico-americanista del Partito Democratico, non interessano gli uomini liberi, non interessano le vittime di un potere dittatoriale come quello dell’alleato egiziano. Interessa invece la difesa degli assassini in uniforme.
Anche per questo il patriottismo delle destre è infame.

Viva

Regina José Galindo
ESTOY VIVA

PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola
Sino all’8 giugno 2014

Regina Joseé GalindoDove sta il Guatemala? Che cosa è accaduto in Guatemala? È accaduto che per decenni l’esercito di questo Paese è stato addestrato, sostenuto e finanziato dagli Stati Uniti d’America per farne un esempio/esperimento di repressione. La popolazione guatemalteca, soprattutto quella di origine maya, è stata ferocemente annichilita, un genocidio tra i più brutali perpetrati dalle forze militari latino-statunitensi. Nel profluvio di giornate della memoria rivolte a massacri più o meno lontani, neppure un pomeriggio viene dedicato all’orrore accaduto in Guatemala.
Regina José Galindo proviene da questo Paese e da questa storia. E ha deciso di fare del proprio corpo il luogo della memoria. Il risultato è terribile. Le cinque sezioni nelle quali è divisa la mostra -Politica  Donna Violenza Organico Morte- documentano come l’artista si faccia incatenare, affogare, colpire, seppellire, costringere in camicie di forza, insanguinare.
Immagini di eserciti eleganti -in parata e ben rigidi nella loro paranoia- si alternano a lei che lascia tracce di sangue sulle strade, negli spazi che hanno visto la ferocia. Il suo diventa un corpo sacrificale e politico, intriso di un masochismo dell’abbandono che mi ha ricordato Le onde del destino (1996) di Lars von Trier. Una violenza così estrema e totale va oltre la catarsi e porta a un coinvolgimento che respinge. Alla fine il corpo di Regina scompare, dissolto come elemento organico, natura. Diventa pietra. E la morte si fa evento pubblico, storico, psichico, soggettivo, globale. In una delle numerose installazioni funeree compaiono una serie di lapidi i cui nomi sono due X e la data è Guatemala 2007.

regina(Dedico questa nota, che non può in ogni caso restituire la tragedia della quale la mostra è intrisa, ai cittadini della «più grande potenza democratica del mondo»).

 

 

 

La dittatura liberale

Le democrazie contemporanee sono ridotte alla condizione di oligarchie finanziarie tenute in piedi dalla distribuzione di profitti a ben precise organizzazioni -tramite le strutture dell’economia legale e criminale- e da un apparato mediatico assolutamente ferreo, il quale presenta come universali, giuste e indiscutibili delle discutibilissime e strumentali espressioni ideologiche quali i diritti dell’uomo e il connesso gergo del politicamente corretto. I segnali linguistici di tale tendenza sono assai numerosi. Un esempio molto chiaro è la scomparsa della parola «sfruttati», sostituita da termini quali «esclusi, sfavoriti, ultimi» e soprattutto «discriminati». Mentre lo sfruttamento implica la critica a un ben preciso sistema produttivo e rapporto di produzione, i termini psicologistici e sociologici che lo hanno sostituito rimandano invece a una vaga e quindi innocua forma della morale (si comprende meglio, tra l’altro, quanta ragione avesse Nietzsche nel volere andare al di là del bene e del male).
La natura autoritaria del discorso politico e mediatico costruito su tali fondamenta arriva al suo vertice nella trasformazione dei sistemi elettorali da semplici metodi di amministrazione della volontà degli elettori a strutture ontologiche il cui obiettivo sarebbe una «governabilità» diventata l’altro nome -il nome soft– della dittatura. Ha ragione Marco Tarchi a iniziare una sua lucida analisi (dal significativo titolo I malpensanti) ricordando che «qualunque studente del primo o secondo anno di una Facoltà di Scienze politiche sa che le leggi elettorali sono uno strumento per eccellenza manipolativo. Servono cioè, a seconda della formula che ne è alla base, a distorcere il rapporto fra la volontà degli elettori, espressa attraverso il voto a un candidato e/o a un partito, e l’esito delle loro scelte, ovvero la presenza nelle istituzioni di eletti che corrispondano alle loro opinioni ed aspettative» («Diorama letterario», n. 318, pp. 1-3).
Chi è consapevole che i sistemi elettorali della democrazia rappresentativa costituiscono gli aritmetici e raffinati strumenti del dominio antidemocratico, ha sostanzialmente due alternative: il rifiuto del metodo elettorale (è la tesi della tradizione anarchica) o il voto dato alle formazioni che difendono esplicitamente la democrazia diretta e il controllo sugli eletti, formazioni che il mainstream mediatico liberista stigmatizza con la qualifica di «populisti». Una parola, quest’ultima, dal significato semplicemente descrittivo -analoga a termini quali «conservatori, socialisti, liberali, anarchici, comunisti»- e che invece ha assunto connotati valutativi e addirittura spregiativi. Il populismo viene definito antipolitico mentre è evidente che si tratta di una opzione politica come le altre e anzi volta a restituire significato ai diritti del demos ponendosi contro lo strapotere delle strutture amministrative e di governo, tese soltanto a blindare il potere di cerchie ristrette e tendenti all’autoperpetuazione dei privilegi acquisiti in decenni di espropriazione della democrazia dal basso.
La tendenza a criminalizzare le posizioni politiche distanti dagli assetti di governo attualmente imperanti in Europa si fa sempre più pericolosa poiché tocca il cuore stesso della libertà, che è il diritto di parola, di critica, di distanza dalle idee dominanti. Può sembrare un ossimoro e invece è la descrizione forse più adeguata degli eventi: quella in cui viviamo è e va sempre più diventando una dittatura liberale.

[Photo by Randy Colas on Unsplash]

Cile

No – I giorni dell’arcobaleno
di Pablo Larraín
(Titolo originale: No)
Con: Gael García Bernal (René Saavedra), Alfredo Castro (Lucho Guzmán), Antonia Zegers (Verónica)
Cile, 2012
Trailer del film

È morto tardi Augusto José Ramón Pinochet Ugarte, a 91 anni. Ed è morto odiato da gran parte della società cilena ma anche compianto da migliaia di sostenitori. A conferma che l’impulso gregario dei popoli verso il Grande Fallo (di Mussolini, di Stalin, di Videla o di Berlusconi che sia) è qualcosa di insopprimibile, poste le condizioni che ne favoriscano il culto. Tra queste, nel caso cileno, la volontà degli Stati Uniti, di Richard Nixon e di Henry Kissinger di eliminare Allende e il suo tentativo di un socialismo democratico. Pinochet, inoltre, era anche un buon cattolico, che venne ampiamente omaggiato da Karol Wojtyla durante la sua visita a Santiago nel 1987. Ma nonostante questo il dittatore perse il referendum che aveva organizzato nel 1988, sicuro di ricevere un’ulteriore consacrazione politica. Tra i motivi della sconfitta vi fu la decisione da parte dell’opposizione di utilizzare i pochi spazi televisivi messi a disposizione del regime per mandare in onda programmi permeati di lievità e allegria. La politica come prodotto, la protesta come spot. A ispirare questa decisione fu un giovane pubblicitario, che promosse la libertà al modo stesso in cui si vende un forno a microonde. Il risultato fu l’imprevista e imprevedibile fine del regime di Pinochet.
Girato con cineprese degli anni Ottanta, il film restituisce filologicamente l’atmosfera, la cultura materiale, le paure, il conformismo e la tenacia della società cilena negli ultimi tempi della dittatura. La freddezza emotiva delle precedenti opere di Larraín qui si stempera molto -nonostante lo sguardo sempre inquietante del grande Alfredo Castro- in parte perché No fonde la ricostruzione narrativa con degli autentici filmati d’epoca. E la realtà è sempre meno gelida dell’invenzione. Anche per questo è più banale.

 

I sovversivi

Guardate questa persona. Un tranquillo, anziano signore, vero? Un pensionato dalla faccia serena. Un nonno che immaginiamo circondato dai suoi bei nipotini. No. È la fotografia di uno degli umani più feroci del Novecento. È Jorge Rafael Videla, presidente dell’Argentina dal 1976 al 1981. In un’intervista concessa al giornalista Ceferino Reato Videla afferma che le 30.000 persone massacrate, torturate, uccise, gettate dagli aerei militari, fatte sparire sotto il suo regime e per suo comando furono il necessario «prezzo da pagare per vincere la guerra contro la sovversione […]. Bisognava eliminare un bel mucchio di persone che non si poteva portare davanti alla giustizia e neanche fucilare»; «Per non provocare proteste dentro e fuori il paese, si arrivò alla decisione che quella gente “desapareciera”, scomparisse». In ogni caso, continua Videla, «Dio sa quello che fa e perché lo fa. Io accetto la volontà di Dio e credo che Dio mi abbia sempre tenuto per mano».
Non so se lo abbia guidato la mano di Dio ma certamente lo ha fatto quella della Chiesa argentina, quella degli Stati Uniti d’America -la “più grande democrazia del pianeta” per i fessi che ci credono-, i quali incoraggiarono, sostennero e protessero una delle dittature più efferate del Novecento. I militari assassini furono guidati anche dal gioco del calcio e dalla vittoria dell’Argentina ai mondiali del 1978, un successo che regalò loro il plauso delle folle. Il “calcio e lo sport fuori dalla politica”? Un’altra favola per gli sprovveduti.
Sovversivi dell’ordine furono i generali e ammiragli Emilio Eduardo Massera, Roberto Eduardo Viola, Leopoldo Galtieri, Reynaldo Bignone, Orlando Ramón Agosti e il loro capo Videla.

La banalità del poliziotto

A Cagliari contro agricoltori e pastori; a Milano contro gli studenti; a Palermo contro chi ricordava al papa il vangelo; in Piemonte e in Campania contro donne e anziani. Gente rincorsa nelle strade, tra i campi, ovunque. Cittadini picchiati a sangue. Da parte di chi? Della polizia di stato dotata di manganelli, di armi, di scudi, di elmi. Dotata di furia. Che cosa sono le dittature? Luoghi in cui chi ha usato violenza verso gli inermi può sempre giustificarsi dicendo: «ho obbedito agli ordini». Come i nazionalsocialisti.

Vai alla barra degli strumenti