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Narciso

Piccolo Teatro Studio – Milano
Carbonio
Scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano
Con Federica Fracassi e Mario Pirrello
Scene di Marco Rossi
Sino al 3 luglio 2022

Il carbonio – C – si trova dappertutto nell’universo ma qui è assunto come sinonimo di vita terrestre. La vita degli animali, la vita delle piante, la vita degli elementi atmosferici, la vita insomma. Ma per la prima volta un essere umano ha un contatto (di due minuti ma ce l’ha) con qualcosa che non è fatto di carbonio. E diventa quindi impossibile spiegare che cosa sia «perché non abbiamo termini di paragone». Un’esperta -non si sa se psicologa, chimica, spia, magistrato- gli pone domande su domande per tentare di comprendere di che cosa si sia trattato e quali potrebbero essere le conseguenze di quell’incontro, che pure è stato ripreso da moltissimi video. Ma nulla si riesce a capire e a sapere.
Scavando scavando tuttavia emergono possibilità e spiegazioni chiaramente ispirate all’ipotesi del multiverso formulata dal fisico Hugh Everett, della quale un altro fisico, Lee Smolin, dice giustamente che «non potrà mai essere verificata o falsificata, il che pone questa fantasia al di là dei confini della scienza. Ciò nonostante, non pochi fisici e matematici stimati difendono questa idea» (La rivoluzione incompiuta di Einstein. La ricerca di ciò che c’è al di là dei quanti, trad. di S. Frediani, Einaudi 2020, p. XVII). Si tratta infatti di una «interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica» per la quale gli eventi hanno tutti dei sviluppi diversi e alternativi rispetto a quelli che vediamo nella nostra realtà, e tali sviluppi creano un numero infinito di mondi; «affinché la cosa funzioni, ciascuna versione di un osservatore non deve avere modo di comunicare con gli altri: i rami devono essere autonomi» (Ivi, p. 122). Il desiderio del protagonista che un preciso evento abbia avuto sviluppi e conseguenze diverse da quelle che ha avuto sembra coniugarsi all’incontro con l’alieno, producendo una frattura nel reale che è l’inevitabile premessa dell’assurdo. Scrive infatti ancora Smolin che «la conseguenza più provocatoria e, per me, sgradevole dell’ipotesi di Everett è che dobbiamo credere che ognuno di noi abbia un numero infinito di copie, ciascuna viva e cosciente esattamente come noi. Fa pensare alla fantascienza più che alla scienza, ma sembra proprio che sia una conseguenza diretta dell’ipotesi di Everett» (Ivi, p. 144). In questo modo infatti siamo noi a nostra volta una delle tante copie. La realtà si dissolve.
A tale insensatezza fisico-chimica, Pier Lorenzo Pisano aggiunge riferimenti politici (uno, che tra qualche tempo diventerà incomprensibile, anche a Trump), drammi familiari, tracimazioni psicologiche. Insomma un minestrone drammaturgico che alla fine rende non soltanto incoerente il risultato ma a tratti lo fa anche noioso.
Lo spettacolo ha una struttura duplice: al dialogo serrato tra Lui e Lei si alterna la presenza dello stesso autore che fa vedere e spiega alcune delle immagini e dei simboli inviati nello spazio interplanetario (e  si prevede poi anche oltre) con le due sonde Voyager nel 1977. Pisano fa giustamente notare con ironia la bruttezza e l’incomprensibilità di molte di queste immagini, il cui scopo dovrebbe consistere nel comunicare a una ipotetica civiltà aliena il modo in cui siamo fatti ed esistiamo. Ancora una volta presupponendo che a tali civiltà importi sapere qualcosa di noi e che adottino dei codici compatibili con i nostri. «Vanitas vanitatum homo» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, «Opere» IV/3, Adelphi 1967, af. 12, p. 141). Si potrebbe definire così Homo sapiens: mammifero di grossa taglia, quasi interamente glabro, caratterizzato da un complesso apparato fonatorio-linguistico e con tendenze fortemente narcisistiche.
Per cercare di temperare il narcisismo del ‘carbonio’ umano – un poco patetico e un poco patologico – si può ricordare un’altra saggia osservazione nietzscheana, secondo la quale «Hüten wir uns, zu sagen, dass Tod dem Leben entgegengesetzt sei. Das Lebende ist nur eine Art des Todten, und eine sehr seltene Art (Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara)» (La gaia scienza, trad. di F. Masini, «Opere» V/2, af. 109, p. 118).
Si può aggiungere, una varietà alquanto malaticcia.

Infiniti mondi

Giordano Bruno
De l’infinito, universo e mondi
(1584)
in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici»
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni, 1985
I volume, pagine 343-544 

L’onestà intellettuale di Giordano Bruno gli fa riconoscere la validità di alcuni argomenti di Aristotele, filosofo che pur critica aspramente. Un’onestà che lo spinge a dismettere ogni fede, pregiudizio, dogma. La consapevolezza metodologico-critica che fonda l’opera bruniana è ben espressa da questa affermazione: «Chi vuol perfettamente giudicare, come ho detto, deve saper spogliarsi della consuetudine di credere; deve l’una e l’altra contraddittoria estimare equalmente possibile, e dismettere a fatto quella affezione di cui è imbibito da natività» (p. 500).
I risultati di questo atteggiamento sono tra i più importanti e fecondi del pensiero moderno e si possono riassumere nella equiparazione della Terra a ogni altro corpo celeste; nella struttura isotropa dell’universo; nella necessità che intride il mondo fisico; nella identità tra corpo e tempo.
Bruno ribadisce infatti e dimostra che «non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente luogo e cielo (463). In questo modo il dualismo tradizionale -aristotelico ma non solo- tra mondo lunare e mondo sublunare scompare; l’indagine si può aprire a dimensioni inaudite e sconosciute, la cui infinità fa sì che in qualunque punto e luogo ci si trovi dell’universo, esso dà sempre l’impressione di essere il centro dell’intero. Tra gli innumerevoli soli, terre, astri, non esiste vuoto e vi sono 

innumerabili ed infiniti globi, come vi è questo in cui vivemo e vegetamo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo: in esso sono infiniti mondi simili a questo, e non differenti in geno da questo; perché non è raggione né difetto di facultà naturale, dico tanta potenza passiva quanto attiva, per la quale, come in questo spacio circa noi ne sono, medesimamente non ne sieno in tutto l’altro spacio che di natura non è differente ed altro da questo (518).

La materia è perfetta e dunque necessaria, poiché «non può esser altro che quello che è; non può esser tale quale non è; non può posser altro che quel che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa; atteso che l’aver potenza distinta da l’atto conviene solamente a cose mutabili» (384). Il determinismo è semplicemente la presa d’atto che la materia coincide con le sue stesse leggi, immutabili ed enigmatiche, delle quali l’umano è parte.
Di queste leggi è struttura fondamentale il tempo, vale a dire la potenza stessa del divenire che genera, dissolve e rigenera. Il corpo umano è anch’esso corpotempo. È infatti evidente «che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo fanciulli, e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani; perché siamo in continua trasmutazione, la qual porta seco che in noi continuamente influiscano nuovi atomi e da noi se dipartano li già altre volte accolti» (412-413).
L’energia e lo slancio del pensiero bruniano costituiscono una forza davvero rivoluzionaria. Il filosofo ne è del tutto consapevole. A Burchio il quale sconcertato obietta che «con questo vostro dire volete ponere sotto sopra il mondo», Fracastoro giustamente e sensatamente risponde chiedendo «ti par che farrebbe male un che volesse mettere sotto sopra il mondo rinversato?» (465). No, non farebbe male.

Infinito

Piccolo Teatro Studio – Milano
De infinito universo
Testo, ideazione visiva e regia Filippo Ferraresi
Scene Guido Buganza
Luci Claudio De Pace
Musiche Lucio Leonardi (PLUHM)
con Gabriele Portoghese, Elena Rivoltini, Jérémy Juan Willi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
coproduzione Théâtre National Wallonie – Bruxelles
Sino al 13 febbraio 2022

«Non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente, luogo e cielo». Lo scrive Giordano Bruno in De l’infinito, universo e mondi, un dialogo del 1684 (Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici, a cura di G. Gentile e G. Aquilecchia, Sansoni 1985, I volume, p. 463).
Lo spettacolo in scena al Piccolo di Milano assume di Bruno la prospettiva e il coraggio. La prospettiva è infatti quella dell’infinità del tempo, dello spazio e della materia. E dunque l’infinità degli enti, degli eventi e dei processi. Il coraggio è l’elemento più proprio di questo tentativo di tradurre il pensiero in gesti. Filippo Ferraresi cerca infatti di far recitare gli oggetti, far recitare i concetti. Lo fa attraverso fili che si tendono, sfere e cerchi che danzano, maschere apotropaiche, luci generate dai moti, e mediante i movimenti atletici e di danza di Jérémy Juan Willi, che veramente sembra volteggiare nell’aria, muoversi con la leggerezza di un uccello, comporre geroglifici con il corpo.
De infinito universo ha una struttura triadica. Inizia con una lezione di astrofisica chiara e coinvolgente, durante la quale a poco a poco emerge la smisurata misura della materia cosmica e l’essere nulla della Terra in essa. Appare poi un pastore che sente, pensa e recita il Canto notturno di Leopardi, dall’iniziale interrogativo  «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi che fai / Silenziosa luna?», transitando per il nascere dell’uomo a fatica, «ed è rischio di morte il nascimento», attraversando la «stanza smisurata e superba» dell’universo, sino al conclusivo ed esatto «è funesto a chi nasce il dì natale». Si chiude con un’attrice che canta note gelide e antiche, trasformandosi poi nella collaboratrice di un potente personaggio politico -l’attuale e infausta presidente della Commissione Europea- al quale chiede se ci si possa accontentare dei bilanci finanziari trimestrali e della crescita o meno del PIL o se si debba cercare un significato diverso al nostro stare al mondo. Alla signora che dirige assai male il governo dell’UE vengono rivolte altre critiche che mi ha sorpreso ascoltare in uno spettacolo messo in scena in uno dei luoghi più istituzionali di Milano.
I tre monologhi sono intersecati dai movimenti atletici del danzatore e da un insieme bellissimo e necessario di luci che fendono lo spazio, che sorgono dalla terra, che indicano e insieme si dissolvono, esattamente come fa ogni luce nel mondo.
Nella lezione dell’astrofisico, nell’interrogare di Leopardi, nella lettera ai potenti, si percepisce tutta la forza della materia e del tempo, dell’entropia e della dissoluzione. Un «teatro transdisciplinare», come lo definisce l’autore/regista, fatto di testo, immagini, energia dei corpi.
Al centro e ovunque l’infinito della materia, uno dei concetti fondamentali della filosofia e delle scienze che vennero dopo Giordano Bruno. Fu infatti in gran parte il concetto bruniano di infinito a mettere in crisi il paradigma antropocentrico – confermato per millenni dalla cosmologia tolemaica e aristotelica – e poi ad ampliare gli spazi della mente e della materia verso misure impreviste e impensabili.
Se l’astronomia antica dava conforto alla mortalità umana ponendo la nostra specie in ogni caso al centro del cosmo, la scienza contemporanea ha aperto agli astronomi e a tutti gli umani «il regno delle galassie e relegato la Via Lattea a semplice esemplare di un universo isola» (Massimo Capaccioli, L’incanto di Urania. Venticinque secoli di esplorazione del cielo, Carocci 2020, p. 278), dentro il quale l’esistenza e il millenario lavoro delle menti coscienti non hanno più peso e significato del rotolare di un sasso sulla Luna.
Pervenire a tale consapevolezza, essere lieti dei propri limiti dentro la perfezione del cosmo, anche questo e credo soprattutto questo sia la filosofia.

L’eterno ritorno dei quanti

Source Code
di Duncan Jones
Sceneggiatura di Ben Ripley
USA – Francia, 2011
Con: Jake Gyllenhaal (Colter), Michelle Monaghan (Christina), Vera Farmiga (Goodwin), Jeffrey Wright (Rutledge), Michael Arden (Derek)
Trailer del film

Invece che in Afghanistan, un capitano dell’esercito USA si risveglia dentro un treno, con davanti a sé una ragazza che non ha mai visto ma che lo chiama con un nome non suo e gli parla come fosse la sua fidanzata. Davanti allo specchio del vagone vede una persona che non è lui. Trascorrono 8 minuti e il treno esplode. Il capitano Colter è però ancora vivo, sta in una specie di capsula, da un video gli parlano altri militari e un fisico quantistico. In qualche modo gli spiegano che non si trova più in Afghanistan, che un programma digitale quantistico -denominato Source Code– gli consente di assumere il corpo di un’altra persona morta, anche se limitatamente agli ultimi 8 minuti che precedono il morire. E che il compito che gli è stato affidato consiste nello scoprire chi sia stato a mettere la bomba sul treno, poiché il responsabile sta per portare a termine un nuovo devastante attentato.
Come si vede, la Science Fiction comincia ad attingere alle oscurità e ai profondi controsensi della meccanica quantistica per costruire storie interessanti come questa. Il responsabile del progetto, infatti, spiega al capitano Colter che «non si tratta di viaggiare nel tempo ma di redisporre il tempo», non di influire sul passato (cosa che qualunque teoria fisica nega e non può che negare, pena il cadere nell’assurdo e in paradossi irresolubili come quello del figlio che tornando nel passato uccide il padre che lo ha generato) ma di evitare che qualcosa accada nel futuro. La base di tutto questo è l’ipotesi del multiverso, a sua volta fondata sulla teoria delle stringhe, secondo la quale la materia non sarebbe composta di particelle discrete e compatte ma di stringhe infinitesimali che vibrando incessantemente e in modo differenziato producono le componenti atomiche, dai quark agli elettroni. Il cosmo quindi, da una delle nostre cellule sino alle galassie più estese, sarebbe composto di processi e non di entità statiche, cosa -quest’ultima- che mi sembra del tutto plausibile.
Della ipotesi delle stringhe si danno in realtà cinque versioni. Si chiama M-teoria il tentativo di unificarle in una concezione la quale ritiene che lo spazio visibile e percepibile sia solo parte di un cosmo più vasto, costituito da immense membrane (braneworld) che a loro volta vibrano, si avvicinano e si allontanano generando in tal modo una varietà di universi e tra questi il nostro. Universi non soltanto spaziali ma anche temporali e nei quali dunque la minima variante può generare sviluppi degli eventi del tutto diversi, come appunto accade durante le cinque volte nelle quali il capitano Colter si risveglia sul vagone, dando vita a cinque diversi sviluppi degli stessi eventi. Che sia il frutto di fluttuazioni nel caos primordiale (alla Boltzmann) o di una ordinata produzione di multiversi inflazionari (tesi preferita dalla maggior parte dei fisici), la realtà che ci appare sin dentro le più remote distanze dell’orizzonte cosmico (e cioè dello spaziotempo la cui luce ci sia già arrivata), ciò che insomma chiamiamo universo, sarebbe parte di un tutto e questo tutto comporterebbe un numero indeterminato di mondi nei quali l’esistenza di ciascuno di noi come di ogni ente vivrebbe diramazioni, fatti, alternative diverse.
Il mondo che percepiamo e nel quale conduciamo le nostre esistenze spaziotemporali appare come l’ombra di Platone, il velo delle Upanishad e di Schopenhauer, il fenomeno kantiano. Illusioni confermate dalla teoria quantistica, in particolare dalla interpretazione di Copenaghen e di Bohr, per le quali «prima di misurare la posizione di un elettrone non ha senso chiedersi dove si trovi: non ha una posizione definita […] Ciò non significa che l’elettrone ha una posizione che noi non riusciamo a conoscere se non dopo averla misurata: in realtà esso non possiede proprio una posizione definita prima che si effettui la misurazione» (Brian Greene, La trama del cosmo. Spazio, tempo, realtà [The Fabric of Cosmos: Space, Time and the Texture of Reality, 2004] Einaudi, 2006. p. 113).
Una grande mitologia scientifica è la fisica dei nostri giorni. Essa non solo rende plausibili, con il “teorema di ricorrenza” di Poincaré, l’eterno ritorno di tutte le cose in una «freccia del tempo [che] forse, è in realtà un anello che gira in continuazione su se stesso» (Ivi, pp. 211 e 446) ma si fonda e si esprime in una serie di eventi, di dinamiche e di singolarità (situazioni estreme nelle quali le leggi fisiche conosciute vengono sospese) che somigliano molto a dei veri e propri miracoli, come ad esempio l’assoluta singolarità (in ogni senso) della spinta inflazionaria che avrebbe dato origine all’espansione della materia ma che non si sa bene da dove e come abbia assunto tutta la sua impensabile energia. Ma c’è di peggio: affinché la teoria delle stringhe sia corretta, bisogna postulare che la materia si squaderni in dieci dimensioni e che pertanto ci siano «da qualche parte sei dimensioni di cui nessuno si è mai accorto. Questo non è un dettaglio tecnico, ma una tragedia» (Ivi, p. 424). Non stupisce che di fronte a simili postulati, condizioni, conseguenze, «alcuni scienziati protestino vibratamente: una teoria così aliena dalla sfera dell’osservabile e dello sperimentabile è una teoria filosofica o teologica, non fisica» (Ivi, p. 416).
Su che cosa quindi si fonda tutta questa complessa e improbabile costruzione fisico-cosmologica? Su alcuni risultati osservativi indiretti riguardanti la dinamica delle particelle elementari e soprattutto su inferenze speculative basate su teorie matematiche. Ma questo vuol dire che la cosmologia contemporanea e le più avanzate ipotesi della fisica dei quanti sono di fatto una teologia matematica. E questo significa che la fisica teorica contemporanea ha cambiato statuto. Non è più scienza nel senso galileiano ma «una rama de la literatura fantástica» (Borges, Tlön, Uqbar, Orbis tertius, in Finzioni, «Tutte le opere», Mondadori 1991, vol. I,  p. 631). Letteratura fantastica appunto, come anche questo coinvolgente film dimostra.

Termodinamica

Ilya Prigogine
Dall’essere al divenire

Tempo e complessità nelle scienze fisiche
(From Being to Becoming. Time and Complexity in the Physical Sciences [1978])
Traduzione di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti
Einaudi, 1986
Pagine XIII-276

La potenza del pensiero matematico e idealizzante della tradizione platonica è stata interamente acquisita  e riverberata dalla fisica galileiana e newtoniana e pervade di sé anche i paradigmi -opposti a quello di Newton pur se incompatibili tra di loro- della fisica dei quanti e della relatività. L’ideale di un universo statico e senza tempo è tuttora un modello condiviso da molti fisici, sia che esso riguardi la struttura infinitesimale della materia sia che si riferisca alla struttura illimitata del cosmo. «Quando ci si avvicina alle scale relative ad oggetti molto piccoli (atomi, particelle ‘elementari’) o ad oggetti iperdensi (come le stelle di neutroni o i buchi neri), avvengono dei nuovi fenomeni. Allora la dinamica newtoniana viene sostituita dalla meccanica quantistica (che prende in considerazione il valore finito di h [costante di Planck]) e dalla dinamica relativistica (che comprende c). Tuttavia queste nuove forme di dinamica, in sé estremamente rivoluzionarie, hanno ereditato dalla fisica newtoniana il suo ideale di un universo statico, un universo di essere senza divenire» (p. 15).
Meccanica classica e meccanica quantistica non sono errate ma parziali. Esse costituiscono infatti forme e formule idealizzate rispetto sia all’effettivo divenire della natura sia ai processi termodinamici che la intessono. Nel mondo che osserviamo, nel mondo empirico, nel mondo naturale che possiamo indagare e che indaghiamo con una varietà molto complessa di strumenti, la natura è asimmetrica rispetto al tempo. L’irreversibilità è la regola, la reversibilità è l’eccezione. La termodinamica ipotizza e mostra che tale stato di cose non è frutto soltanto delle modalità con le quali una mente consapevole guarda e misura la materia ma è anche intrinseca alla materia stessa e dunque che «l’esistenza di leggi orientate rispetto al tempo, quali l’aumento di entropia verso il futuro, implica per questi sistemi l’esistenza di stati orientati rispetto al tempo» (224). L’irreversibilità è una legge della termodinamica poiché il tempo è una condizione stessa della materia.
Secondo Eddington le leggi primarie controllano il comportamento di singole particelle elementari, le leggi secondarie si applicano invece a insiemi di atomi e di molecole. Ma questa distinzione è corretta se viene intesa nel senso che «la struttura delle equazioni del moto, con la ‘casualità’ al livello microscopico, emerge allora come irreversibilità al livello macroscopico» (183) e non nel senso che l’entropia sia da limitare soltanto alla dimensione macroscopica. Non è dunque vero che l’irreversibilità emerge a livello macroscopico da dinamiche del livello fondamentale della natura che sarebbero invece reversibili. La seconda legge della termodinamica costituisce piuttosto una delle più efficaci e potenti manifestazioni dell’unità della natura, la quale produce grandi differenze ma sempre sul fondamento di alcune strutture profondamente unitarie. Le cosiddette ‘particelle elementari’ sono in realtà oggetti complessi, nei quali il tempo svolge un ruolo molto significativo e «profondamente radicato nelle fluttuazioni del livello microscopico, dinamico» (8). E questo anche perché il tempo non è un semplice parametro, come presupposto dalla dinamica, ma è anche un operatore, esattamente al modo di quelli che nell’ambito della meccanica quantistica descrivono le quantità. La distinzione tra la natura non umana -caratterizzata da processi reversibili- e quella umana, fatta di irreversibilità, è l’ennesima espressione di un antico dualismo, che una comprensione più ampia e unitaria cancella.
L’unità della natura e l’unità della scienza che la studia coincidono in gran parte con l’unità dei processi temporali che pervadono sia la materia, sia la parte di materia che indaga se stessa: noi. «La seconda legge della termodinamica esprime la nostra appartenenza a un universo in evoluzione» (XIII). Il tempo spiega le dinamiche psicologiche come quelle cosmologiche, le strutture sociali e le strutture molecolari. Tutti i sistemi viventi, anche i più semplici, possiedono una direzione del tempo. Essi si sviluppano, decadono e muoiono. La teoria delle strutture dissipative contribuisce a indagare le diverse modalità con cui questo avviene. Ma questo avviene, appunto. La direzione del tempo si trova «nelle stesse basi della fisica e della chimica. A sua volta questo risultato giustifica in maniera autoconsistente il senso del tempo che noi possediamo. Il concetto di tempo è molto più complesso di quanto pensassimo» (7), per meglio dire di quanto metafisici atemporali e fisici sia classici sia relativistici abbiano immaginato.
La seconda legge della termodinamica mostra la realtà del mutamento, distingue il passato dal futuro, fa del tempo una variabile intrinseca dei sistemi fisici. Si tratta di una legge molto complessa, scoperta in ambito chimico (da Boltzmann) come misura del disordine molecolare e quindi  come crescita della disorganizzazione nei sistemi. In ambito biologico e sociale -dove il ruolo dei processi irreversibili è fondamentale e palese- la seconda legge conduce invece a un aumento della complessità e quindi dell’ordine. L’attività degli enzimi nei composti non è un’evoluzione verso il disordine molecolare ma il contrario. L’esistenza di collettività umane -di qualunque misura- non sarebbe possibile senza un aumento di complessità associato alla crescita dell’organizzazione. Se siamo in grado di attribuire un’età -approssimativa, certo, ma non implausibile- agli individui come ai luoghi è perché non nei singoli elementi di un corpo o di una città ma dal loro insieme unitario emerge l’elemento temporale. E questo è possibile soltanto perché la struttura interna della nostra percezione e del nostro essere e la struttura esterna della materia naturale e artificiale condividono alcuni processi fondamentali, che sono processi  temporali.
Biologia e geografia sono espressioni di una temporalità che è insieme sia corporea sia coscienzialistica, sia naturale sia culturale. Ecco il problema, la cui stessa formulazione è densa di implicazioni metafisiche:

L’interpretazione classica della seconda legge era che essa esprimesse l’aumento del disordine molecolare. Nella formulazione di Boltzmann, l’equilibrio termodinamico corrisponde allo stato di massima ‘probabilità’. In biologia e in sociologia, però, il significato fondamentale dell’evoluzione era esattamente l’opposto: essa descriveva delle trasformazioni che portavano a livelli di complessità sempre maggiore. Come si possono mettere in relazione questi vari livelli del tempo? Il tempo moto usato in dinamica, il tempo connesso all’irreversibilità della termodinamica, il tempo storia della biologia e della sociologia? Chiaramente non è cosa facile. Eppure viviamo in un unico universo. Se vogliamo ottenere una visione coerente del mondo in cui siamo inseriti, dobbiamo trovare qualche strada per passare da una descrizione all’altra (4).

Se l’irreversibilità è un dato pervasivo della materia e se la distinzione tra passato e futuro è un precategoriale, «un tipo di concetto primitivo in un certo senso antecedente all’attività scientifica» (190), allora per comprendere come è fatto il mondo e come ci appare, bisogna transitare da una fisica e una metafisica dell’essere a una fisica e una metafisica del divenire. Già Aristotele aveva ben compreso che il tempo -come l’essere- si può dire in molti modi. Il tempo è certamente kinesis, movimento reversibile formulabile nel linguaggio della dinamica, ma è anche metabolé, movimento irreversibile di trasformazione formulabile con il linguaggio della termodinamica. L’uno non esclude l’altro, che invece si impiccano reciprocamente perché la complessità della natura va molto oltre il potere formalizzante dei linguaggi scientifici e filosofici. «Il caos dà origine all’ordine» (132), la maggior parte dei sistemi sufficientemente complessi costituiscono delle strutture non soltanto statiche e non soltanto divenienti ma metastabili, nel senso che in esse convivono reversibilità e irreversibilità, determinismo e probabilità, tempo ed eternità.
La fisica e la metafisica non sono più i saperi dell’immobilità, del nunc stans, della verità logica opposta alle apparenze, ma vanno sempre più diventando i saperi capaci di coniugare il tempo come divenire -χρόνος- – e il tempo come eternità -αἰών, poiché il tempo è anche l’unità degli opposti, è il coniugare le differenze mantenendole come differenze. La questione cosmologica è il luogo -alla lettera- nel quale la complessità del tempo si manifesta in tutta la sua ricchezza anche come durata del presente, che non è affatto il non-luogo della tradizione agostiniana e neppure soltanto il pur importante Specious Present di Clay e James ma è anche e soprattutto la materia densa di strutture molecolari della termodinamica:

Vediamo come è mutata drasticamente la descrizione del tempo se la si paragona con la rappresentazione tradizionale in cui si riteneva che il tempo fosse isomorfo a una linea retta (cfr. figura 10.8) precedente dal lontano passato (t → -∞) al lontano futuro (t → +∞). Il presente corrisponde allora a un unico punto che separa il passato dal futuro. Il presente viene fuori, per così dire, dal nulla e scompare nel nulla. Inoltre, essendo ridotto a un punto, esso è infinitamente contiguo al passato e al futuro. In questa rappresentazione non v’è distanza fra passato, presente e futuro. Al contrario, nella nostra rappresentazione, il passato è separato dal futuro da un intervallo misurato dal tempo caratteristico tc : possiamo parlare della durata del presente. È interessante come molti filosofi -Bergson, Whitehead- abbiano sottolineato la necessità di attribuire al presente una durata incomprimibile di tal genere. L’uso della seconda legge come principio dinamico porta precisamente a questa conclusione, e porta pure a una nuova non-località dello spazio. (213-214).

Prigogine riconosce in modo esplicito il contributo che alcuni filosofi -Bergson, Whitehead e Heidegger- hanno dato alla descrizione del cosmo e della materia come strutture in divenire, intrise di spaziotempo che produce materia e dalla materia è generato. Una temporalizzazione dello spazio per la quale ogni ente è anche un evento, ogni struttura è anche un’attività. Al pari di molte posizioni metafisiche, anche la fisica ha abbandonato ogni ingenuo realismo e si è data il compito di indagare e descrivere la complessità della quale quale siamo parte e che ci oltrepassa. La non-commutatività che rende impossibile uno stato nel quale la coordinata q e la quantità di moto p posseggano valori contemporaneamente ben definiti ha contribuito «a scuotere i fondamenti galileiani della fisica. Essa ha distrutto la convinzione che la descrizione fisica sia realistica in un senso ingenuo» (53).
Il mondo è diventato ai nostri occhi molto più incerto, fluttuante, diveniente, probabilistico, irreversibile. Il paradigma eleatico per il quale tutto è immobile nella sua perfezione, il paradigma platonico per il quale il gorgo del tempo è immagine mobile di un modello atemporale, costituiscono delle magnifiche costruzioni della mente razionale. Che però in quanto razionale deve anche misurarsi con l’esperienza empirica, biologica, sociale delle costruzioni individuali e collettive. Esperienza insieme psichica e materica, alla quale la termodinamica e il divenire offrono tutta la potenza di un mutamento inscritto nelle molecole, di un tempo che coincide con l’essere di tutte le cose possibili e pensabili. 

Salvatore Grandone su Animalia

Salvatore Grandone
Recensione a Animalia
in Figure dell’immaginario. Rivista internazionale (gennaio 2021)

«Un testo denso che affronta la questione dell’animale in una prospettiva plurale, ad un tempo ontologica, epistemologica, antropologica e socio-politica. Il lavoro di Alberto Giovanni Biuso prolunga idealmente le riflessioni sviluppate in Tempo e materia, mostrando sul campo come la metafisica del tempo-materia sia un valido strumento per descrivere il mondo della vita. […] Il modo di affrontare la questione del vivente di Biuso si inscrive anche nel solco di un’importante tradizione fenomenologica che supera la visione dell’animale-macchina. Biuso amplia infatti le analisi di Heidegger sviluppate ne I concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine. […] D’altra parte non basta denunciare la hybris dell’uomo, che nella sua foga tecnocratica riduce la natura a mero serbatoio di risorse; occorre comprenderne le ragioni. Con grande lucidità, e senza cadere nella facile retorica animalista, Biuso mostra le radici antropologiche e biologiche della violenza umana nei confronti degli animali».

Il Prof. Grandone mi ha chiesto un’intervista sul libro; le sue domande sono state uno stimolo ad approfondire e chiarire alcune delle questioni centrali del testo: l’animalità come differenza; lo statuto della biologia; virus ed epidemie; misura umana e potenza del cosmo.

 

Il tempo

La Jetée
di Chris Marker
Francia, 1963
Con: Davos Hanich, Hélène Chatelain, Jacques Ledoux
Trailer del film

La jetée è il ‘molo’ dell’aeroporto di Paris-Orly dal quale nei giorni di festa le persone si dilettano a vedere gli aerei partire (questo accadeva negli anni Sessanta, ora gli aeroporti sono luoghi militarizzati, inaccessibili a chi non vola). Mentre tutto sembra tranquillo, un uomo cade. Assiste alla scena un bambino che non comprende che cosa stia accadendo ma di quella scena ricorda la bellezza, il viso, la sorpresa di una donna. Molti anni dopo si è consumata una guerra nucleare, Parigi è distrutta, i sopravvissuti vivono nel sottosuolo. Alcuni di loro svolgono sui prigionieri degli esperimenti volti a trovare dei ‘cunicoli temporali’ che attraverso la psiche permettano di fuggire dal presente invivibile verso il passato di pace o il futuro di rinascita.
Il bambino del molo, ora adulto, è una cavia ideale perché ossessivamente concentrato su quel momento della sua infanzia e sul ricordo di quella donna. Ritorna quest’uomo infatti nel passato, riconosce la donna, la frequenta, lei sempre giovane e lui ormai adulto; una domenica la incontra su quella terrazza dell’aeroporto dove la vicenda ebbe inizio. Il cerchio della vita e degli eventi si stringe nella inevitabilità dell’accadere, nella dinamica profonda della memoria, nella struttura ritornante e implacabile della materiatempo.
Un film breve -mezz’ora circa-, che non è un film ma una sorta di cineromanzo dentro un bianco e nero angosciante e splendente. E che però è un film per la densità della narrazione, la forza della voce che descrive l’accadere, la potenza formale della tragedia che è l’esserci, il desiderare, il morire, il ritornare e poi ancora l’esserci, il desiderare, il morire, il ritornare.
Una guerra è questo mondo, πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι (Eraclito), il cui Signore è il tempo. La guerra mirabile della materia cosmica che si condensa, diventa stelle, si raffredda in pianeti, si evolve esplodendo e lanciando la propria energia nello spaziotempo, ritornando così a essere polvere che si addensa a formare nuove stelle e le galassie che le raccolgono, si formano, si dissolvono e si riformano, per sempre.
Una meraviglia, la cui unica nota stonata è la sofferenza che chiamiamo ζωή, vita. Ma è talmente insignificante da non dovercene davvero preoccupare. Nell’αἰών, negli eoni del tempo infinito, a dominare è la luce, che è una cosa sola con l’energia e con la materia, che è la materia.

[L’immagine raffigura la Nebulosa Messier 27 (Dumbell Nebula)]

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