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Astrattismo batterico

Anicka Yi
Metaspore

Hangar Bicocca – Milano
A cura di Fiammetta Griccioli e Vicente Todolí
Sino al 7 agosto 2022

Steve McQueen
Sunshine State

Hangar Bicocca – Milano
A cura di Vicente Todolí
Sino al 31 luglio 2022

Anicka Yi ha raccolto campioni del terriccio milanese, li ha compattati e li espone in grandi teche nelle quali si sviluppano batteri e altri elementi microbiotici, generando forme, consistenze e colori che disegnano pitture/sculture astratte e insieme assai dense. È questa l’opera forse più emblematica e coinvolgente di un’artista che coniuga estetica e biologia; la cui ποίησις sembra far agire e operare la Terra stessa e non l’intenzione umana su di essa.
Un astrattismo batterico che si moltiplica e diversifica nelle altre installazioni dove plastiche, parti di animali, alghe, specie microbiotiche, insetti animatronici dissolvono a poco a poco i salti ontologici tra l’animale, il vegetale, il minerale, l’artificiale, tornando al caos molecolare dal quale ogni ente è venuto al mondo e si è differenziato, mantenendo però sempre il proprio fondamento nel carbonio.
I microrganismi e le strutture di Anicka Yi producono sensazioni olfattive, odori, che nelle intenzioni dell’artista stanno al centro del suo operare. E però di tale risultato non c’è praticamente traccia nella mostra milanese, data la chiusura delle opere dentro involucri asettici che di fatto impediscono di captare gli odori che dalle opere dovrebbero promanare. L’assenza degli odori rende molto meno efficace la fruizione della mostra.
Più evidenti sono invece altre due dimensioni del progetto. Vale a dire l’ibridazione e la temporalità. La prima è evidente nella stretta ontologica che unisce elementi vivi ed elementi morti, batteri e plastiche, manufatti e spore. La temporalità è intrinseca a queste opere, che consistono non di elementi fissi ma di processi organici e chimici destinati in tempi più o meno brevi a deperire,
Biologia, chimica, ingegneria genetica diventano in questo modo opere visibili ed esposte nei grandi spazi dello Hangar milanese.

Spazi che contemporaneamente ospitano sei video del regista inglese Steve McQueen. Opere dimenticabili nella pretenziosa solennità del silenzio e dei suoni sgradevoli che li alternano; che mettono insieme la potenza del Sole e vecchie pellicole del muto ricostruite con la strumentazione tecnica contemporanea; che fanno scendere dentro una delle più profonde miniere terrestri -in Sudafrica- per dare un’idea dell’inferno che però si rivela alla fine noiosamente spettacolare. L’opera più riuscita di McQueen sembra invece la settima. Non è un video ma sono due rocce di marmo rivestite di lamine argentee –Moonlit (2016)- che stanno nello spazio vuoto l’una accanto all’altra, immobili nel sempre. A testimoniare che cosa c’era prima e che cosa rimarrà dopo, quando l’ammasso di cellule, batteri, microrganismi che chiamiamo Homo sapiens sarà finalmente sparito. 

Narciso

Piccolo Teatro Studio – Milano
Carbonio
Scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano
Con Federica Fracassi e Mario Pirrello
Scene di Marco Rossi
Sino al 3 luglio 2022

Il carbonio – C – si trova dappertutto nell’universo ma qui è assunto come sinonimo di vita terrestre. La vita degli animali, la vita delle piante, la vita degli elementi atmosferici, la vita insomma. Ma per la prima volta un essere umano ha un contatto (di due minuti ma ce l’ha) con qualcosa che non è fatto di carbonio. E diventa quindi impossibile spiegare che cosa sia «perché non abbiamo termini di paragone». Un’esperta -non si sa se psicologa, chimica, spia, magistrato- gli pone domande su domande per tentare di comprendere di che cosa si sia trattato e quali potrebbero essere le conseguenze di quell’incontro, che pure è stato ripreso da moltissimi video. Ma nulla si riesce a capire e a sapere.
Scavando scavando tuttavia emergono possibilità e spiegazioni chiaramente ispirate all’ipotesi del multiverso formulata dal fisico Hugh Everett, della quale un altro fisico, Lee Smolin, dice giustamente che «non potrà mai essere verificata o falsificata, il che pone questa fantasia al di là dei confini della scienza. Ciò nonostante, non pochi fisici e matematici stimati difendono questa idea» (La rivoluzione incompiuta di Einstein. La ricerca di ciò che c’è al di là dei quanti, trad. di S. Frediani, Einaudi 2020, p. XVII). Si tratta infatti di una «interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica» per la quale gli eventi hanno tutti dei sviluppi diversi e alternativi rispetto a quelli che vediamo nella nostra realtà, e tali sviluppi creano un numero infinito di mondi; «affinché la cosa funzioni, ciascuna versione di un osservatore non deve avere modo di comunicare con gli altri: i rami devono essere autonomi» (Ivi, p. 122). Il desiderio del protagonista che un preciso evento abbia avuto sviluppi e conseguenze diverse da quelle che ha avuto sembra coniugarsi all’incontro con l’alieno, producendo una frattura nel reale che è l’inevitabile premessa dell’assurdo. Scrive infatti ancora Smolin che «la conseguenza più provocatoria e, per me, sgradevole dell’ipotesi di Everett è che dobbiamo credere che ognuno di noi abbia un numero infinito di copie, ciascuna viva e cosciente esattamente come noi. Fa pensare alla fantascienza più che alla scienza, ma sembra proprio che sia una conseguenza diretta dell’ipotesi di Everett» (Ivi, p. 144). In questo modo infatti siamo noi a nostra volta una delle tante copie. La realtà si dissolve.
A tale insensatezza fisico-chimica, Pier Lorenzo Pisano aggiunge riferimenti politici (uno, che tra qualche tempo diventerà incomprensibile, anche a Trump), drammi familiari, tracimazioni psicologiche. Insomma un minestrone drammaturgico che alla fine rende non soltanto incoerente il risultato ma a tratti lo fa anche noioso.
Lo spettacolo ha una struttura duplice: al dialogo serrato tra Lui e Lei si alterna la presenza dello stesso autore che fa vedere e spiega alcune delle immagini e dei simboli inviati nello spazio interplanetario (e  si prevede poi anche oltre) con le due sonde Voyager nel 1977. Pisano fa giustamente notare con ironia la bruttezza e l’incomprensibilità di molte di queste immagini, il cui scopo dovrebbe consistere nel comunicare a una ipotetica civiltà aliena il modo in cui siamo fatti ed esistiamo. Ancora una volta presupponendo che a tali civiltà importi sapere qualcosa di noi e che adottino dei codici compatibili con i nostri. «Vanitas vanitatum homo» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, «Opere» IV/3, Adelphi 1967, af. 12, p. 141). Si potrebbe definire così Homo sapiens: mammifero di grossa taglia, quasi interamente glabro, caratterizzato da un complesso apparato fonatorio-linguistico e con tendenze fortemente narcisistiche.
Per cercare di temperare il narcisismo del ‘carbonio’ umano – un poco patetico e un poco patologico – si può ricordare un’altra saggia osservazione nietzscheana, secondo la quale «Hüten wir uns, zu sagen, dass Tod dem Leben entgegengesetzt sei. Das Lebende ist nur eine Art des Todten, und eine sehr seltene Art (Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara)» (La gaia scienza, trad. di F. Masini, «Opere» V/2, af. 109, p. 118).
Si può aggiungere, una varietà alquanto malaticcia.

Bond biochimico

No Time to Die
di Cary Joji Fukunaga
USA – Gran Bretagna, 2021
Con: Daniel Craig (James Bond), Léa Seydoux (Madeleine Swann), Christoph Waltz (Ernst Stavro Blofeld), Ralph Fiennes (M), Ben Whishaw (Q), Naomie Harris (Eve Moneypenny)
Trailer del film

E invece prima o poi il tempo per morire si trova. Ma qui James Bond è ancora in forma. Dopo l’ennesimo rischio mortale tra le strade di una magnifica Matera, si gode la sua vacanza/pensione in Giamaica. Dove viene però rintracciato, chiamato e reclutato dalla CIA e poi dai Servizi segreti britannici che per tanti anni ha servito. Incombe infatti il pericolo di un’arma chimica di nuova concezione, che uccide facilmente e istantaneamente – con il semplice contatto della pelle – chi possiede un determinato codice DNA. L’arma è stata inventata nei laboratori britannici ma è stata rubata non dalla misteriosa Spectre bensì da entità ignote che in realtà vogliono sostituirsi alla Spectre eliminando con quell’arma i suoi membri, compreso il temibile Blofeld che continua a guidare l’organizzazione anche se segregato in un carcere di massima sicurezza. A poco a poco si comprenderà chi sta dietro a tutto questo, un personaggio la cui maschera appare lentamente e il cui sogno di dominio del mondo si concluderà in un fuoco d’artificio che annienterà un’isola contesa dalle grandi potenze. Il personaggio in questione ha a che fare con la lunga e tragica scena iniziale ambientata tra le nevi della Norvegia.
Come si vede, ci troviamo in una prospettiva planetaria e biochimica. Due delle caratteristiche del nostro presente-ora. Non si tratta solo di coincidenze tematiche ma di una complessiva atmosfera di inquietudine e di orrore biologico che viene continuamente esorcizzata dalle lunghe e complicatissime scene d’azione che costituiscono buona parte del fascino della saga di James Bond. Ovviamente iperboli e inverosimiglianza si moltiplicano nel procedere della trama e tuttavia si rimane incerti tra il bisogno di esorcizzare tutto quanto -«è solo un film»- e una strana sensazione di familiarità.
Altro omaggio allo spirito del tempo è la figura che ha ereditato il nome di Agente 007 dopo il pensionamento di Bond: una ragazzona di colore. Che però, probabilmente al di là della volontà degli sceneggiatori, riveste inevitabilmente la parte della valletta un po’ ignara e un po’ limitata. Non c’è niente da fare: l’agente 007 è maschio e bianco. Se lui muore finisce la saga.
Rispetto al precedente 007 Spectre girato da Sam Mendes nel 2015 qui siamo su un livello di consapevolezza politica e di piacevolezza cinematografica decisamente inferiore. Ci si diverte sempre ma rimanendo stavolta alla superficie di tutto. 

Alcol

Un altro giro
(Drunk)
di Thomas Vinterberg
Danimarca, 2020
Con: Mads Mikkelsen (Martin), Thomas Bo Larsen (Tommy), Magnus Millang (Nikolaj), Lars Ranthe (Peter), Maria Bonnevie (Trinie)
Trailer del film

Una qualsiasi variazione dei valori biochimici del corpomente determina una modificazione più o meno profonda dei comportamenti, dello sguardo, dei pensieri, delle paure e delle euforie di qualunque animale, compreso l’animale umano. È questo uno dei fondamenti della vita e di tutte le dipendenze, dal cibo all’amore, dal danaro alle droghe.
Tra quattro professori/amici di una scuola di Copenhagen, l’insegnante di psicologia riferisce una sera a cena la tesi dello psichiatra Finn Skårderud per il quale gli umani nascono con un tasso alcolico troppo basso, che dovrebbero invece alzare e mantenere costante per favorire interazioni, iniziative, energia. I quattro amici, in particolare l’insegnante di storia Martin, decidono di mettere alla prova l’ipotesi di Skårderud. Bevono quindi regolarmente dalle 8 del mattino alle 20, escludendo la notte e i fine settimana, controllando costantemente il tasso alcolico che ne risulta. Vita coniugale e familiare, interazioni con gli studenti, complessiva tonalità esistenziale ne vengono decisamente migliorati. L’esistere somiglia sempre più a una sfida e a una festa. Naturalmente, però, i problemi non tardano a emergere, poiché è impossibile mantenersi a lungo sul crinale tra ebbrezza e autocontrollo. Al di là dell’abbandono e del dolore, tuttavia, il film si conclude con la festa che docenti e allievi condividono, fatta di abbracci e di danza, irrorata da bevande.
Drunk. Ubriachi di desiderio e di significato siamo noi umani. Siamo chimica che cammina e che nei suoi circuiti cerebrali si crede invece fatta dell’immateriale perfezione dei cieli. Lo slancio che ci conduce verso la gloria d’esserci è radicato nelle cellule che assorbono energia dagli alimenti e dall’aria; gli enzimi lavorano incessantemente a trasformare gli elementi in vita che continua; le molecole diventano pensieri. È anche e specialmente questa potenza materica ad accomunarci all’intero e ogni volta a salvarci dalla pretesa di una differenza ontologica radicale che è soltanto una delle tante nostre fantasie di dominio. È questo, e non lo «Spirito», a far sì che gli umani sentano vicino a sé ogni giorno «ihren Herrn, den Tod», ‘il loro padrone, la morte’ (Hegel, Fenomenologia dello spirito, VI «Der Geist», A a, p. 18).
Un poco ironico ma significativo è che Geist significhi spirito e significhi anche alcol. E questo già dall’arabo al-ghūl, vale a dire: lo spirito come la componente volatile di una sostanza, ottenuta per distillazione, o -come si legge in un sito dedicato alle bevande alcoliche – «la bevanda spiritosa ottenuta mediante macerazione di frutti e di bacche non fermentati sopra elencati o di ortaggi, noci o altre materie vegetali quali erbe o petali di rosa». Petali di rosa.
Tutto questo è narrato da Vinterberg con una costante attenzione (come sempre nelle sue opere) alla dimensione educativa della vita, con gli studenti che cantano inni patriottici e si sfidano in gare di bevute, con Kierkegaard  e la sua apologia del fallimento e dell’angoscia, con la danza e il volo dionisiaci sui quali il film si chiude.

Termodinamica

Ilya Prigogine
Dall’essere al divenire

Tempo e complessità nelle scienze fisiche
(From Being to Becoming. Time and Complexity in the Physical Sciences [1978])
Traduzione di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti
Einaudi, 1986
Pagine XIII-276

La potenza del pensiero matematico e idealizzante della tradizione platonica è stata interamente acquisita  e riverberata dalla fisica galileiana e newtoniana e pervade di sé anche i paradigmi -opposti a quello di Newton pur se incompatibili tra di loro- della fisica dei quanti e della relatività. L’ideale di un universo statico e senza tempo è tuttora un modello condiviso da molti fisici, sia che esso riguardi la struttura infinitesimale della materia sia che si riferisca alla struttura illimitata del cosmo. «Quando ci si avvicina alle scale relative ad oggetti molto piccoli (atomi, particelle ‘elementari’) o ad oggetti iperdensi (come le stelle di neutroni o i buchi neri), avvengono dei nuovi fenomeni. Allora la dinamica newtoniana viene sostituita dalla meccanica quantistica (che prende in considerazione il valore finito di h [costante di Planck]) e dalla dinamica relativistica (che comprende c). Tuttavia queste nuove forme di dinamica, in sé estremamente rivoluzionarie, hanno ereditato dalla fisica newtoniana il suo ideale di un universo statico, un universo di essere senza divenire» (p. 15).
Meccanica classica e meccanica quantistica non sono errate ma parziali. Esse costituiscono infatti forme e formule idealizzate rispetto sia all’effettivo divenire della natura sia ai processi termodinamici che la intessono. Nel mondo che osserviamo, nel mondo empirico, nel mondo naturale che possiamo indagare e che indaghiamo con una varietà molto complessa di strumenti, la natura è asimmetrica rispetto al tempo. L’irreversibilità è la regola, la reversibilità è l’eccezione. La termodinamica ipotizza e mostra che tale stato di cose non è frutto soltanto delle modalità con le quali una mente consapevole guarda e misura la materia ma è anche intrinseca alla materia stessa e dunque che «l’esistenza di leggi orientate rispetto al tempo, quali l’aumento di entropia verso il futuro, implica per questi sistemi l’esistenza di stati orientati rispetto al tempo» (224). L’irreversibilità è una legge della termodinamica poiché il tempo è una condizione stessa della materia.
Secondo Eddington le leggi primarie controllano il comportamento di singole particelle elementari, le leggi secondarie si applicano invece a insiemi di atomi e di molecole. Ma questa distinzione è corretta se viene intesa nel senso che «la struttura delle equazioni del moto, con la ‘casualità’ al livello microscopico, emerge allora come irreversibilità al livello macroscopico» (183) e non nel senso che l’entropia sia da limitare soltanto alla dimensione macroscopica. Non è dunque vero che l’irreversibilità emerge a livello macroscopico da dinamiche del livello fondamentale della natura che sarebbero invece reversibili. La seconda legge della termodinamica costituisce piuttosto una delle più efficaci e potenti manifestazioni dell’unità della natura, la quale produce grandi differenze ma sempre sul fondamento di alcune strutture profondamente unitarie. Le cosiddette ‘particelle elementari’ sono in realtà oggetti complessi, nei quali il tempo svolge un ruolo molto significativo e «profondamente radicato nelle fluttuazioni del livello microscopico, dinamico» (8). E questo anche perché il tempo non è un semplice parametro, come presupposto dalla dinamica, ma è anche un operatore, esattamente al modo di quelli che nell’ambito della meccanica quantistica descrivono le quantità. La distinzione tra la natura non umana -caratterizzata da processi reversibili- e quella umana, fatta di irreversibilità, è l’ennesima espressione di un antico dualismo, che una comprensione più ampia e unitaria cancella.
L’unità della natura e l’unità della scienza che la studia coincidono in gran parte con l’unità dei processi temporali che pervadono sia la materia, sia la parte di materia che indaga se stessa: noi. «La seconda legge della termodinamica esprime la nostra appartenenza a un universo in evoluzione» (XIII). Il tempo spiega le dinamiche psicologiche come quelle cosmologiche, le strutture sociali e le strutture molecolari. Tutti i sistemi viventi, anche i più semplici, possiedono una direzione del tempo. Essi si sviluppano, decadono e muoiono. La teoria delle strutture dissipative contribuisce a indagare le diverse modalità con cui questo avviene. Ma questo avviene, appunto. La direzione del tempo si trova «nelle stesse basi della fisica e della chimica. A sua volta questo risultato giustifica in maniera autoconsistente il senso del tempo che noi possediamo. Il concetto di tempo è molto più complesso di quanto pensassimo» (7), per meglio dire di quanto metafisici atemporali e fisici sia classici sia relativistici abbiano immaginato.
La seconda legge della termodinamica mostra la realtà del mutamento, distingue il passato dal futuro, fa del tempo una variabile intrinseca dei sistemi fisici. Si tratta di una legge molto complessa, scoperta in ambito chimico (da Boltzmann) come misura del disordine molecolare e quindi  come crescita della disorganizzazione nei sistemi. In ambito biologico e sociale -dove il ruolo dei processi irreversibili è fondamentale e palese- la seconda legge conduce invece a un aumento della complessità e quindi dell’ordine. L’attività degli enzimi nei composti non è un’evoluzione verso il disordine molecolare ma il contrario. L’esistenza di collettività umane -di qualunque misura- non sarebbe possibile senza un aumento di complessità associato alla crescita dell’organizzazione. Se siamo in grado di attribuire un’età -approssimativa, certo, ma non implausibile- agli individui come ai luoghi è perché non nei singoli elementi di un corpo o di una città ma dal loro insieme unitario emerge l’elemento temporale. E questo è possibile soltanto perché la struttura interna della nostra percezione e del nostro essere e la struttura esterna della materia naturale e artificiale condividono alcuni processi fondamentali, che sono processi  temporali.
Biologia e geografia sono espressioni di una temporalità che è insieme sia corporea sia coscienzialistica, sia naturale sia culturale. Ecco il problema, la cui stessa formulazione è densa di implicazioni metafisiche:

L’interpretazione classica della seconda legge era che essa esprimesse l’aumento del disordine molecolare. Nella formulazione di Boltzmann, l’equilibrio termodinamico corrisponde allo stato di massima ‘probabilità’. In biologia e in sociologia, però, il significato fondamentale dell’evoluzione era esattamente l’opposto: essa descriveva delle trasformazioni che portavano a livelli di complessità sempre maggiore. Come si possono mettere in relazione questi vari livelli del tempo? Il tempo moto usato in dinamica, il tempo connesso all’irreversibilità della termodinamica, il tempo storia della biologia e della sociologia? Chiaramente non è cosa facile. Eppure viviamo in un unico universo. Se vogliamo ottenere una visione coerente del mondo in cui siamo inseriti, dobbiamo trovare qualche strada per passare da una descrizione all’altra (4).

Se l’irreversibilità è un dato pervasivo della materia e se la distinzione tra passato e futuro è un precategoriale, «un tipo di concetto primitivo in un certo senso antecedente all’attività scientifica» (190), allora per comprendere come è fatto il mondo e come ci appare, bisogna transitare da una fisica e una metafisica dell’essere a una fisica e una metafisica del divenire. Già Aristotele aveva ben compreso che il tempo -come l’essere- si può dire in molti modi. Il tempo è certamente kinesis, movimento reversibile formulabile nel linguaggio della dinamica, ma è anche metabolé, movimento irreversibile di trasformazione formulabile con il linguaggio della termodinamica. L’uno non esclude l’altro, che invece si impiccano reciprocamente perché la complessità della natura va molto oltre il potere formalizzante dei linguaggi scientifici e filosofici. «Il caos dà origine all’ordine» (132), la maggior parte dei sistemi sufficientemente complessi costituiscono delle strutture non soltanto statiche e non soltanto divenienti ma metastabili, nel senso che in esse convivono reversibilità e irreversibilità, determinismo e probabilità, tempo ed eternità.
La fisica e la metafisica non sono più i saperi dell’immobilità, del nunc stans, della verità logica opposta alle apparenze, ma vanno sempre più diventando i saperi capaci di coniugare il tempo come divenire -χρόνος- – e il tempo come eternità -αἰών, poiché il tempo è anche l’unità degli opposti, è il coniugare le differenze mantenendole come differenze. La questione cosmologica è il luogo -alla lettera- nel quale la complessità del tempo si manifesta in tutta la sua ricchezza anche come durata del presente, che non è affatto il non-luogo della tradizione agostiniana e neppure soltanto il pur importante Specious Present di Clay e James ma è anche e soprattutto la materia densa di strutture molecolari della termodinamica:

Vediamo come è mutata drasticamente la descrizione del tempo se la si paragona con la rappresentazione tradizionale in cui si riteneva che il tempo fosse isomorfo a una linea retta (cfr. figura 10.8) precedente dal lontano passato (t → -∞) al lontano futuro (t → +∞). Il presente corrisponde allora a un unico punto che separa il passato dal futuro. Il presente viene fuori, per così dire, dal nulla e scompare nel nulla. Inoltre, essendo ridotto a un punto, esso è infinitamente contiguo al passato e al futuro. In questa rappresentazione non v’è distanza fra passato, presente e futuro. Al contrario, nella nostra rappresentazione, il passato è separato dal futuro da un intervallo misurato dal tempo caratteristico tc : possiamo parlare della durata del presente. È interessante come molti filosofi -Bergson, Whitehead- abbiano sottolineato la necessità di attribuire al presente una durata incomprimibile di tal genere. L’uso della seconda legge come principio dinamico porta precisamente a questa conclusione, e porta pure a una nuova non-località dello spazio. (213-214).

Prigogine riconosce in modo esplicito il contributo che alcuni filosofi -Bergson, Whitehead e Heidegger- hanno dato alla descrizione del cosmo e della materia come strutture in divenire, intrise di spaziotempo che produce materia e dalla materia è generato. Una temporalizzazione dello spazio per la quale ogni ente è anche un evento, ogni struttura è anche un’attività. Al pari di molte posizioni metafisiche, anche la fisica ha abbandonato ogni ingenuo realismo e si è data il compito di indagare e descrivere la complessità della quale quale siamo parte e che ci oltrepassa. La non-commutatività che rende impossibile uno stato nel quale la coordinata q e la quantità di moto p posseggano valori contemporaneamente ben definiti ha contribuito «a scuotere i fondamenti galileiani della fisica. Essa ha distrutto la convinzione che la descrizione fisica sia realistica in un senso ingenuo» (53).
Il mondo è diventato ai nostri occhi molto più incerto, fluttuante, diveniente, probabilistico, irreversibile. Il paradigma eleatico per il quale tutto è immobile nella sua perfezione, il paradigma platonico per il quale il gorgo del tempo è immagine mobile di un modello atemporale, costituiscono delle magnifiche costruzioni della mente razionale. Che però in quanto razionale deve anche misurarsi con l’esperienza empirica, biologica, sociale delle costruzioni individuali e collettive. Esperienza insieme psichica e materica, alla quale la termodinamica e il divenire offrono tutta la potenza di un mutamento inscritto nelle molecole, di un tempo che coincide con l’essere di tutte le cose possibili e pensabili. 

Chimica

Frank Horvart – Fabio Miguel Roque 
Catania – Cucine del Monastero dei Benedettini
Med Photo Fest 2018
Sino al 20 maggio 2018

Ancora una volta la fotografia contemporanea si dispiega in uno dei luoghi più suggestivi del Monastero benedettino di Catania. Frank Horvart fotografa come dipingesse. Un realismo magico che genera ritratti, nudi, scenari urbani, figure vegetali, paesaggi naturali. Tutto soffuso e come immerso in un sogno antico, nel quale la donna è grazia, la città è sospesa, gli alberi sono sculture. Fabio Miguel Roque disegna un bianco e nero sporco, barocco e sensuale, con il quale racconta uccelli, muri, volti spezzati, angoli, automobili, redenzioni e condanne. Il bene e il male sono ombre. Qualunque cosa ne pensino romantici e sognatori, il mondo è fatto di una sottile ma tenace geometria. La vita è materia, è chimica allo stato puro, desiderio che attraversa cellule e molecole, ed è anche il luogo nel quale cause ed effetti, premesse e conseguenze, condizioni e risultati, accadono in un modo che una buona intelligenza spinoziana saprebbe descrivere e prevedere. E tuttavia il colore è lo scarto e le forme sono enigma. Dentro questo enigma abitano le diverse solitudini di Horvart e di Roque.

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