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Dialettica di Polifemo

Teatro Franco Parenti – Milano
Io, Nessuno e Polifemo
di Emma Dante
con Emma Dante, Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola, Federica Aloisio, Giusi Vicari, Viola Carinci
musiche eseguite dal vivo da Serena Ganci
regia di Emma Dante
produzione del Teatro Biondo Stabile di Palermo
Sino al 30 settembre 2014

Odisseo è la hybris che tenta coi suoi enigmi la Montagna. Di sé Polifemo dice infatti d’essere «tutt’uno con la roccia, monotono e gigantesco, un’enorme montagna senza cuore». Una forza che viveva nella sua armonia monòcola e materica, in pace con gli dèi e con gli animali, prima che arrivasse l’umano predatore, fatto di arroganza e di conquista. Odisseo è l’intera specie che finge di essere ciò che non è: signora e padrone dell’essente. E la Montagna li ha puniti, li ha mangiati, li ha ricondotti al vento effimero che siamo. Uno solo è riuscito a volgere la forza della terra in violenza contro se stessa. E quest’uno adesso racconta spavaldo la sua impresa, l’energia della sua mente e delle braccia. Balla persino, al ritmo della memoria che lo ha reso immortale e che insieme a lui ha indurato Polifemo.
Emma Dante parla dunque dell’antichissimo mito illuminista che Horkheimer e Adorno hanno saputo così bene illustrare nell’Excursus I della loro opera maggiore: «Il lungo errare da Troia ad Itaca è l’itinerario del soggetto -infinitamente debole, dal punto di vista fisico, rispetto alle forze della natura, e che è solo in atto di formarsi come autocoscienza-, l’itinerario del Sé attraverso i miti». Ma «il soggetto ricade nello stesso circolo vizioso della necessità naturale a cui cerca di sfuggire assimilandosi. Chi, per salvarsi, si chiama Nessuno e adopera l’assimilazione allo stato di natura come mezzo del dominio della natura, cade in preda alla hybris. L’astuto Odisseo non può fare diversamente: in fuga, ancora a portata di tiro delle mani del gigante, non si limita a schernirlo, ma gli rivela il suo vero nome e la sua origine, come se la preistoria avesse ancora tanto potere su di lui, scampato ogni volta per un pelo, da fargli temere, dopo essersi chiamato Nessuno, di poter ritornare nuovamente nessuno, se non provvede a restaurare la propria identità per mezzo della parola magica di cui l’identità razionale ha preso il posto» (Dialettica dell’illuminismo, trad. di R. Solmi, Einaudi 1982, pp. 54 e 75).
Questo testo e la sua messinscena costituiscono dunque una riflessione attenta e acuta sull’umano e la sua natura ma sono anche danza e musica, sono umorismo e spiazzamento rispetto all’ovvio -il parlar partenopeo dei due nemici coniuga, appunto, musica e divertimento-, sono una diversione leggera e danzante rispetto alla consueta drammaturgia affilata e dura della Dante. Ma Io, Nessuno e Polifemo è soprattutto un’esplicita dichiarazione di poetica teatrale. Vi vengono citati gli autori che hanno fatto delle parlate dialettali il mezzo e la sostanza di un teatro che non è spettacolo ma è un itinerario dentro il linguaggio che non obbedisce: Viviani, Eduardo, Dario Fo. E poi un altro nome. Viene enunciato all’inizio, rispondendo alla domanda del ciclope sul perché la «signò» si occupi ancora di questo racconto truce e sanguinario, innumerevoli volte raccontato. «Perché», risponde Emma, «un teatro che non sia violenza e crudeltà è spettacolo e non teatro, come sapeva Carmelo Bene». All’ulteriore domanda di Polifemo sul perché, dunque, non si occupi di quest’altro invece che di lui, Emma risponde che «Bene è un morto fresco, non si è abituato all’eterno».
La fisicità estrema -tratto della drammaturgia dantesca- qui sembra molto stemperarsi in un testo persino didascalico ma ricompare intensa nei movimenti delle tre danzatrici -marionette della Necessità, ballerine di dance, astute penelopi- e nella voce/percussione di Serena Ganci.
Le parole con cui si chiude l’incontro con la Montagna sacra e antropofaga alludono alla polvere alla quale tutto sarà ridotto, polvere che nessuno può scansare.

Brazil. Terrorismo e burocrazia

Brazil
di Terry Gilliam
USA, 1985
Con: Jonathan Pryce (Sam Lory), Kim Greist (Jill Ayton), Michael Palin (Jack Lint), Ian Holm (Kurtzmann), Robert De Niro (Archibald Tuttle), Katherine Helmond (Ida Lowry). Bob Hoskins (Spoor), Ian Richardson (Warren), Jim Broadbent (Il Dottor Jaff)

Uno degli oppositori -definito naturalmente terrorista viene investito da fogli su fogli che mulinano al vento e che lo coprono interamente. Forse viene proprio ucciso dalle carte. Moduli su moduli, uffici su uffici, commi su commi, code su code. Un delirio burocratico minuzioso e bizzarro cerca di rendere razionale, organizzato ed efficiente l’arbitrio più feroce e la violenza più cruda del sistema totalitario, vale a dire del potere finalmente svelato a se stesso, nella sua effigie, sostanza, scopo ed essenza. Il potere di 1984, al quale il film molto liberamente si ispira.
La burocrazia come lifting, dunque. Lo stesso lifting che cerca di nascondere la decadenza di alcune vecchie signore amiche del regime e che invece le riduce alla fine a maschere orrende e a cadaveri liquefatti. Ma a loro si dice che devono stare tranquille, il problema avrà presto soluzione. Il Natale disneyano nel quale il film è immerso è la conferma delle tesi di Adorno sulla complicità tra ottimismo e barbarie. La citazione della scena/scalinata della Corazzata Potëmkin è un altro tassello ancora di questo doloroso itinerario nell’assurdo della iperrazionalizzazione.
Grottesco, postmoderno e visionario, Brazil è un incubo. Alla lettera.

Facci ridere

Su La Sicilia Andrea Lodato dà un’interpretazione del trionfo televisivo dei comici che mi trova del tutto concorde. Vi si contesta, tra l’altro, il fatto «che questo Paese, appena uscito dalla palude della cultura (?) berlusconista, oggi abbia tutto questo bisogno di riderci su. Non solo, per lo meno. Invece è una sganasciata generale, anche alla radio, aggiungo. Non c’è network, non c’è canale Rai (terzo escluso, ma quella è un’oasi), che non abbiano trasmissioni dove ogni trenta secondi i conduttori si scompisciano di risate, senza senso». In effetti, sembra che il pubblico televisivo e cinematografico non aspetti altro che dei barzellettieri travestivi da attori per finalmente conciliarsi con la realtà.
Leggendo l’articolo di Lodato ho pensato subito a una delle molte affermazioni demistificatrici della Scuola di Francoforte: «Non appena aggiunge una parola di spiegazione, l’ironia si distrugge. Essa presuppone quindi l’idea di ciò che è di per sé evidente e -in origine- della risonanza sociale. Solo dove si ammette un consenso stringente dei soggetti, è superflua la riflessione soggettiva, l’esecuzione dell’atto concettuale. Chi ha con sé il pubblico che ride, non ha bisogno di fornire dimostrazioni. […] L’ironia è passata, ad intervalli, dalla parte degli oppressi, specialmente quando, in realtà, essi non erano già più tali. Ma, prigioniera della propria forma, non si è mai del tutto liberata dall’eredità autoritaria, dalla malignità che non ammette obiezioni. […] Contro la sanguinosa serietà della società totale, che ha assorbito la sua controistanza -l’obiezione impotente che era, un tempo, il precipitato dell’ironia- non c’è più che la sanguinosa serietà, la verità compresa» (Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa [1951], Einaudi 1994,  § 134, pp. 253-256).
Non ridono con la levità degli uomini liberi ma con l’intimo tratto servile di chi proietta nel buffone la propria impotenza.

Goya y Lucientes

Goya e il mondo moderno
Milano – Palazzo Reale
Sino al 27 giugno 2010

Goya o del presente. L’artista aragonese spezza la tradizione che fa dei ritratti e dei paesaggi uno strumento apologetico del potere o una semplice manifestazione emotiva del pittore. Con lui la realtà comincia a sfaldarsi, a transitare nel sogno, a diventare ciò che è: l’incontro della materia con la mente e della mente con gli eventi. E dunque con il tempo. Non c’è nulla di immutabile e fermo in questa pittura che trascorre dalla luce chiara eppur ironica delle opere giovanili -quasi una mescolanza di Canaletto e Francesco Guardi- al realismo sociale, per arrivare alla potenza dell’orrore, della guerra, della violenza, della morte. La serie di incisioni dal titolo Disparates descrive I disastri della guerra col linguaggio dell’incubo e di una notte insensata e pittoresca, tramite una congiunzione del terribile con il comico che è la cifra di ciò che chiamiamo “grottesco”. Goethe scrisse che, se visti dall’altezza della ragione, la vita appare una malattia e il mondo un manicomio. E sono esattamente questa vita e questo mondo che Goya disvela nella loro chiara e dolente assurdità.

I titoli delle cinque sezioni in cui la mostra è divisa rappresentano una sintesi del suo viaggio al termine della notte: Il lavoro del tempo. I ritrattiLa vita di tutti i giorniComico e grottescoLa violenzaIl grido. In ciascuna di esse le opere di Goya si accompagnano a quelle dei tanti che dopo di lui a lui si ispirarono, spesso in modo esplicito e con un’ammirazione senza limiti. Guernica sarebbe stata impensabile senza l’urlo di Goya. Il sarcasmo feroce di Otto Dix e di John Heartfield attingono a piene mani alla sua opera. Tra Goya e Bacon la continuità è evidente e profonda, in particolare nell’intuizione della temporalità che intesse ogni corpo e alla materia dà labile consistenza.
Un Settecento buio, un progresso dell’orrore che Horkheimer e Adorno hanno condensato in un celebre incipit: «L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura» (Dialettica dell’illuminismo, Einaudi 1982, p. 11). Di questa sventura che è di tutte le epoche, perché è l’umano, Goya ha colto il segreto e lo ha reso luce.

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