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Astrattismo batterico

Anicka Yi
Metaspore

Hangar Bicocca – Milano
A cura di Fiammetta Griccioli e Vicente Todolí
Sino al 7 agosto 2022

Steve McQueen
Sunshine State

Hangar Bicocca – Milano
A cura di Vicente Todolí
Sino al 31 luglio 2022

Anicka Yi ha raccolto campioni del terriccio milanese, li ha compattati e li espone in grandi teche nelle quali si sviluppano batteri e altri elementi microbiotici, generando forme, consistenze e colori che disegnano pitture/sculture astratte e insieme assai dense. È questa l’opera forse più emblematica e coinvolgente di un’artista che coniuga estetica e biologia; la cui ποίησις sembra far agire e operare la Terra stessa e non l’intenzione umana su di essa.
Un astrattismo batterico che si moltiplica e diversifica nelle altre installazioni dove plastiche, parti di animali, alghe, specie microbiotiche, insetti animatronici dissolvono a poco a poco i salti ontologici tra l’animale, il vegetale, il minerale, l’artificiale, tornando al caos molecolare dal quale ogni ente è venuto al mondo e si è differenziato, mantenendo però sempre il proprio fondamento nel carbonio.
I microrganismi e le strutture di Anicka Yi producono sensazioni olfattive, odori, che nelle intenzioni dell’artista stanno al centro del suo operare. E però di tale risultato non c’è praticamente traccia nella mostra milanese, data la chiusura delle opere dentro involucri asettici che di fatto impediscono di captare gli odori che dalle opere dovrebbero promanare. L’assenza degli odori rende molto meno efficace la fruizione della mostra.
Più evidenti sono invece altre due dimensioni del progetto. Vale a dire l’ibridazione e la temporalità. La prima è evidente nella stretta ontologica che unisce elementi vivi ed elementi morti, batteri e plastiche, manufatti e spore. La temporalità è intrinseca a queste opere, che consistono non di elementi fissi ma di processi organici e chimici destinati in tempi più o meno brevi a deperire,
Biologia, chimica, ingegneria genetica diventano in questo modo opere visibili ed esposte nei grandi spazi dello Hangar milanese.

Spazi che contemporaneamente ospitano sei video del regista inglese Steve McQueen. Opere dimenticabili nella pretenziosa solennità del silenzio e dei suoni sgradevoli che li alternano; che mettono insieme la potenza del Sole e vecchie pellicole del muto ricostruite con la strumentazione tecnica contemporanea; che fanno scendere dentro una delle più profonde miniere terrestri -in Sudafrica- per dare un’idea dell’inferno che però si rivela alla fine noiosamente spettacolare. L’opera più riuscita di McQueen sembra invece la settima. Non è un video ma sono due rocce di marmo rivestite di lamine argentee –Moonlit (2016)- che stanno nello spazio vuoto l’una accanto all’altra, immobili nel sempre. A testimoniare che cosa c’era prima e che cosa rimarrà dopo, quando l’ammasso di cellule, batteri, microrganismi che chiamiamo Homo sapiens sarà finalmente sparito. 

What a Shame

Shame
di Steve McQueen
GB, 2011
Con: Michael Fassbender (Brandon), Carey Mulligan (Sissy), Nicole Beharie (Marianne), James Badge Dale (David), Lucy Walters (la ragazza del metro)
Trailer del film

Brandon. Un lavoro sicuro. Una casa organizzatissima e accogliente a New York. La metropolitana. Gli sguardi delle donne. I film porno. Le prostitute. I locali gay. La masturbazione a casa e in ufficio. Sua sorella gli chiede di ospitarla per qualche giorno e diventa un ostacolo alla pulsione di Brandon. Due solitudini, due disperazioni. Il sangue e il pianto. Nessun incontro, mai, con nessuno. Lo sguardo di Fassbender diventa maschera e figura della tristezza che pervade questo film. Un film contro il sesso, si direbbe, visto il disgusto che afferra di fronte a un piacere senza gioia, a un eros privo di qualunque sorriso, a una dipendenza infelice come tutte le dipendenze chimiche: dall’eroina all’innamoramento. Mai una molecola di sentimento. Non a caso molte scene riprendono gli attori da una parte del corpo poco comunicativa come la nuca, di spalle. Un film esistenzial-newyorchese girato con maestria tecnica ma anche con troppa furbizia di intenti. Le due scene più terribili e belle sono il primo finale con il pianto di Brandon nel porto sotto la pioggia e -precedentemente- il suo sguardo durante un orgasmo con due prostitute. Raramente ho visto la disperazione e il vuoto dipinti così bene su un volto umano. E proprio nell’istante assoluto nel quale il piacere dovrebbe essere pura gioia, o almeno soddisfazione. Nulla di tutto questo. Nulla.

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