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Cosmologia / Medea

Recensione a:
Aa. Vv.
Cosmos?
Numero 54 di Krisis, octobre 2022
Pagine 142
in il Pequod , anno IV, numero 7, giugno 2023, pagine 196-199

L’ipotesi dell’eternità della materia/universo è confermata dalle critiche sempre più diffuse e argomentate che va ricevendo il modello (ancora) standard del cosiddetto Big Bang, il quale delineerebbe una problematica singolarità, impossibile da comprendere e persino da studiare sulla base delle leggi conosciute e dei metodi di indagine scientifici. Il tentativo perseguito da più parti di unificare la relatività generale e la fisica quantistica ha tra le sue condizioni e conseguenze il superare questa singolarità, riaffermando «l’éternité du temps passé, éliminant ainsi la problématique notion théologique de ‘cause première’» (Luminet).
A fondamento delle cosmologie antiche sta l’ipotesi realistica fondamentale, quella che non fa dipendere l’esistenza e le modalità del cosmo dalle percezioni, azioni e calcoli di una sua infima e inconsistente parte: noi. Dismisura che invece sta a fondamento della interpretazione di Copenhagen della fisica quantistica. Davvero ogni idealismo così come «la pensée constructiviste s’est développée à partir du sophisme anthropocentriste (la proclamation de Protagoras selon laquelle ‘l’homme est la mesure de toutes choses’)» (Jure Georges Vujic).

In questo assai ricco numero del Pequod è stata pubblicata anche una analisi a più voci del mito di Medea e della sua messa in scena, con la regia di Federico Tiezzi, quest’anno a Siracusa. Ho avuto il piacere di scriverne insieme a Sarah Dierna, Marco Iuliano, Enrico Palma, Marcosebastiano Patanè:

La selvaggia passione: Medea 2023 a Siracusa
Pagine 177-184

«Medea si presenta intrisa da un afflato profondamente antinatalista. Alla maniera lucida, consapevole e ‘passiva’ – per usare la categoria di Lachmanová – dei Greci naturalmente. […] Nella tragedia l’antinatalismo traspare nei gesti e nelle parole di Giasone, della moglie, della Nutrice, del Pedagogo e del Coro ma trasuda insieme dalle sciagure stesse di cui i mortali sono vittime e facitori. […]
Così canta il Coro:

E affermo che tra i mortali/ coloro che non hanno mai fatto esperienza di figli/ e non ne hanno mai generati/ sono più felici di chi ne ha messi al mondo. / Chi è senza figli, poiché non ne ha esperienza, / non sa se sia gioia o tormento l’averne, / proprio perché non gli sono capitati, / e così sta alla larga da molte inquietudini. / Ma chi ha nella sua casa il dolce germoglio di figli, / costoro li vedo sfiancati dalle preoccupazioni per tutta la vita: / innanzitutto su come crescerli bene e come lasciare loro di che vivere. / Poi, non è sicuro se si diano tanta pena / per figli che non valgono nulla o per figli eccellenti. / E dirò anche di una sciagura che è la peggiore per tutti i mortali: / ammettiamo che abbiano di che vivere, e siano nel fiore della giovinezza, e siano eccellenti. / Ma se così decreta il destino, / ecco che arriva la Morte e si avvia giù nell’Ade, / trascinando via i loro corpi.
(vv. 1090-1111, trad. di Angelo Tonelli)

E allora ‘tre volte meglio stare in armi che partorire anche una volta sola’ (v. 251, trad.  Tonelli). Solo in Euripide capita di leggere con così tanta onestà la sciagura insita nell’atto del generare che non si lascia intenerire dalla tenera prole già venuta al mondo».

La recensione e l’articolo dedicato a Medea sembrano una conferma di quanto affermato da David Herbert Lawrence nel 1931 in Apocalypse, citato da Ernesto De Martino nel suo capolavoro sulle apocalissi culturali:
«Forse la più grande differenza tra noi e i pagani sta nella diversità di rapporti col cosmo. Per noi tutto è personale. Il panorama che possiamo contemplare e il cielo non servono che da delizioso sfondo per la nostra vita personale. Persino l’universo della scienza si riduce a noi a poco più che una mera estensione della nostra personalità. Per il pagano il paesaggio e lo sfondo personale erano dopo tutto indifferenti, ciò che era invece reale era il cosmo. L’uomo viveva nel cosmo, consapevole della maggior grandezza del cosmo nei suoi confronti. […] Il nostro sole è cosa assai diversa dal sole cosmico degli antichi, è qualcosa di molto più banale. Noi possiamo vedere ciò che chiamiamo sole, ma abbiamo perso per sempre Helios e ancor più il grande disco dei Caldei. […] Questa è la nostra principale tragedia. Che cos’è il nostro meschino amore per la natura – la natura cui ci si rivolge come a una persona – al paragone di quel sublime vivere-col-cosmo ed essere-onorati-dal-cosmo!»
(La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi 2019, pp. 379-380).

L’eterno ritorno dei quanti

Source Code
di Duncan Jones
Sceneggiatura di Ben Ripley
USA – Francia, 2011
Con: Jake Gyllenhaal (Colter), Michelle Monaghan (Christina), Vera Farmiga (Goodwin), Jeffrey Wright (Rutledge), Michael Arden (Derek)
Trailer del film

Invece che in Afghanistan, un capitano dell’esercito USA si risveglia dentro un treno, con davanti a sé una ragazza che non ha mai visto ma che lo chiama con un nome non suo e gli parla come fosse la sua fidanzata. Davanti allo specchio del vagone vede una persona che non è lui. Trascorrono 8 minuti e il treno esplode. Il capitano Colter è però ancora vivo, sta in una specie di capsula, da un video gli parlano altri militari e un fisico quantistico. In qualche modo gli spiegano che non si trova più in Afghanistan, che un programma digitale quantistico -denominato Source Code– gli consente di assumere il corpo di un’altra persona morta, anche se limitatamente agli ultimi 8 minuti che precedono il morire. E che il compito che gli è stato affidato consiste nello scoprire chi sia stato a mettere la bomba sul treno, poiché il responsabile sta per portare a termine un nuovo devastante attentato.
Come si vede, la Science Fiction comincia ad attingere alle oscurità e ai profondi controsensi della meccanica quantistica per costruire storie interessanti come questa. Il responsabile del progetto, infatti, spiega al capitano Colter che «non si tratta di viaggiare nel tempo ma di redisporre il tempo», non di influire sul passato (cosa che qualunque teoria fisica nega e non può che negare, pena il cadere nell’assurdo e in paradossi irresolubili come quello del figlio che tornando nel passato uccide il padre che lo ha generato) ma di evitare che qualcosa accada nel futuro. La base di tutto questo è l’ipotesi del multiverso, a sua volta fondata sulla teoria delle stringhe, secondo la quale la materia non sarebbe composta di particelle discrete e compatte ma di stringhe infinitesimali che vibrando incessantemente e in modo differenziato producono le componenti atomiche, dai quark agli elettroni. Il cosmo quindi, da una delle nostre cellule sino alle galassie più estese, sarebbe composto di processi e non di entità statiche, cosa -quest’ultima- che mi sembra del tutto plausibile.
Della ipotesi delle stringhe si danno in realtà cinque versioni. Si chiama M-teoria il tentativo di unificarle in una concezione la quale ritiene che lo spazio visibile e percepibile sia solo parte di un cosmo più vasto, costituito da immense membrane (braneworld) che a loro volta vibrano, si avvicinano e si allontanano generando in tal modo una varietà di universi e tra questi il nostro. Universi non soltanto spaziali ma anche temporali e nei quali dunque la minima variante può generare sviluppi degli eventi del tutto diversi, come appunto accade durante le cinque volte nelle quali il capitano Colter si risveglia sul vagone, dando vita a cinque diversi sviluppi degli stessi eventi. Che sia il frutto di fluttuazioni nel caos primordiale (alla Boltzmann) o di una ordinata produzione di multiversi inflazionari (tesi preferita dalla maggior parte dei fisici), la realtà che ci appare sin dentro le più remote distanze dell’orizzonte cosmico (e cioè dello spaziotempo la cui luce ci sia già arrivata), ciò che insomma chiamiamo universo, sarebbe parte di un tutto e questo tutto comporterebbe un numero indeterminato di mondi nei quali l’esistenza di ciascuno di noi come di ogni ente vivrebbe diramazioni, fatti, alternative diverse.
Il mondo che percepiamo e nel quale conduciamo le nostre esistenze spaziotemporali appare come l’ombra di Platone, il velo delle Upanishad e di Schopenhauer, il fenomeno kantiano. Illusioni confermate dalla teoria quantistica, in particolare dalla interpretazione di Copenaghen e di Bohr, per le quali «prima di misurare la posizione di un elettrone non ha senso chiedersi dove si trovi: non ha una posizione definita […] Ciò non significa che l’elettrone ha una posizione che noi non riusciamo a conoscere se non dopo averla misurata: in realtà esso non possiede proprio una posizione definita prima che si effettui la misurazione» (Brian Greene, La trama del cosmo. Spazio, tempo, realtà [The Fabric of Cosmos: Space, Time and the Texture of Reality, 2004] Einaudi, 2006. p. 113).
Una grande mitologia scientifica è la fisica dei nostri giorni. Essa non solo rende plausibili, con il “teorema di ricorrenza” di Poincaré, l’eterno ritorno di tutte le cose in una «freccia del tempo [che] forse, è in realtà un anello che gira in continuazione su se stesso» (Ivi, pp. 211 e 446) ma si fonda e si esprime in una serie di eventi, di dinamiche e di singolarità (situazioni estreme nelle quali le leggi fisiche conosciute vengono sospese) che somigliano molto a dei veri e propri miracoli, come ad esempio l’assoluta singolarità (in ogni senso) della spinta inflazionaria che avrebbe dato origine all’espansione della materia ma che non si sa bene da dove e come abbia assunto tutta la sua impensabile energia. Ma c’è di peggio: affinché la teoria delle stringhe sia corretta, bisogna postulare che la materia si squaderni in dieci dimensioni e che pertanto ci siano «da qualche parte sei dimensioni di cui nessuno si è mai accorto. Questo non è un dettaglio tecnico, ma una tragedia» (Ivi, p. 424). Non stupisce che di fronte a simili postulati, condizioni, conseguenze, «alcuni scienziati protestino vibratamente: una teoria così aliena dalla sfera dell’osservabile e dello sperimentabile è una teoria filosofica o teologica, non fisica» (Ivi, p. 416).
Su che cosa quindi si fonda tutta questa complessa e improbabile costruzione fisico-cosmologica? Su alcuni risultati osservativi indiretti riguardanti la dinamica delle particelle elementari e soprattutto su inferenze speculative basate su teorie matematiche. Ma questo vuol dire che la cosmologia contemporanea e le più avanzate ipotesi della fisica dei quanti sono di fatto una teologia matematica. E questo significa che la fisica teorica contemporanea ha cambiato statuto. Non è più scienza nel senso galileiano ma «una rama de la literatura fantástica» (Borges, Tlön, Uqbar, Orbis tertius, in Finzioni, «Tutte le opere», Mondadori 1991, vol. I,  p. 631). Letteratura fantastica appunto, come anche questo coinvolgente film dimostra.

Post-ecologia

Transcendence
di Wally Pfister
USA, 2014
Con: Johnny Depp (Will Caster), Rebecca Hall (Evelyn Caster), Paul Bettany (Max Waters), Morgan Freeman (Joseph)
Trailer del film

Trascendenza è il modo in cui il Dottor Will Caster chiama la Singolarità. Nel linguaggio della Artificial Intelligence quest’ultima è l’ipotizzato momento nel quale i software, l’hardware, l’insieme delle ‘macchine per pensare’ prenderanno coscienza di esistere, diventeranno Dasein.
A questa singolarità lavorano davvero, nella realtà non al cinema, vari centri di ricerca sparsi per il mondo. La finzione del film comincia quando Caster, un informatico strepitoso e visionario, subisce un attentato da parte di gruppi neoluddisti. Sembra che la pallottola lo abbia colpito di striscio ma è stato sufficiente a immettere nel suo corpo un veleno radioattivo che a poco a poco lo uccide. Dandogli però il tempo, con l’aiuto della moglie/collega e di un amico medico e informatico, di sperimentare su se stesso le procedure del PINN (Physically Independent Neural Network), il progetto da lui ideato di ibridazione tra un organismo biologico e la Rete. Caster muore e le sue ceneri vengono disperse ma la sua mente sembra rinascere nei circuiti digitali. Sino a moltiplicarsi, espandersi, diventare così potente da guarire i ciechi, gli storpi, restituire vita. Vite che però diventano delle entità sottomesse al Grande Essere Digitale, il GED del quale parlai nel 2009:

«la forma nella quale probabilmente i corpi e le intelligenze si fonderanno in una connessione continua di memoria operativa, database conservativi e comunicazioni in tempo reale. Se il GED sarà, esso verrà costituito non da robot diventati padroni del mondo o da androidi ma da quella fusione di biologico e protesico che l’umanità è da sempre. Non bisogna, infatti, confondere entità assai diverse come –appunto- i robot, gli androidi e il cyborg. […] Il cyborg, invece, costituisce il presente e la stessa storia dell’umanità, poiché è la fusione tra un organismo biologico e una macchina o una funzione che modifica la struttura di base dei corpi. […] La natura protesica, metamorfica, estendibile del corpo, che è da sempre pronto a trasformarsi, adattarsi, evolvere, potenziarsi; il legame profondo e articolato dell’umano con le macchine intelligenti da esso prodotte»
(La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci, p. 253).

A questo punto del film il governo si allea con i gruppi luddisti per fermare l’entità che si sta espandendo nello spazio e nel tempo, nella materia e nella memoria. Un’entità che si incarna nel  Dott. Caster di nuovo fisicamente vivo, capace di abbracciare la moglie e stabilire con lei che cosa fare, come sopravvivere o morire, in che cosa trasformarsi.
Come si vede, l’idea di Transcendence è profonda, direi preziosa e visionaria. La realizzazione è invece  banale, come se Hollywood non riuscisse quasi mai ad andare al di là del genere western. È comprensibile, vista la natura infantile e manichea della società statunitense, ma rimane un limite che taglia le ali anche ai progetti più interessanti. In questo caso l’interesse sta nell’atteggiamento panteistico e animistico dell’agente Smith di Matrix diventato qui PINN/Caster. L’agente Smith -lo ricordo– è una macchina in forma umana la quale afferma che all’inizio del loro potere i computer/software avessero immaginato un mondo felice, tranne però poi constatare che gli umani non riuscivano a viverci dentro, tanto da costringerli a modificare il programma. In quel film fondativo l’agente Smith si rivolge agli umani con queste parole:

«Voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. E l’unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un’altra zona ricca. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un cancro per questo pianeta»
(Andy & Larry Wachowski, The Matrix, 1999).

Concordo con l’agente Smith.
L’immagine di apertura è stata scattata su Marte, dove non ci sono sofferenze, non ci sono virus, non c’è la morte, non c’è nessuna crudeltà; ci sono soltanto materia e luce, ci sono soltanto campi di energia, c’è soltanto la potenza delle rocce e delle stelle dalle quali derivano.

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