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«L’odeur et la saveur restent encore longtemps»

Io, Luca Vitone
Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Luca Lo Pinto e Diego Sileo
Sino al 3 dicembre 2017

L’arte contemporanea è greca ed è wagneriana. Tende infatti a essere opera d’arte totale, Gesamtkunstwerke, a diventare colore, tatto, suono, odore, parola intrecciati, diversi, unici. Le invenzioni/installazioni/spazi di Luca Vitone corrispondono a tale intento.
Vitone ha pitturato l’intero Padiglione d’Arte Contemporanea di un bianco macchiato da spesse punte nere, realizzate con la polvere raccolta nello stesso PAC. Polvere che ritorna in quattro grandi acquarelli monocromi intitolati Raüme (Stanze), dipinti anch’essi con le polveri di alcuni edifici pubblici tedeschi.
Un’opera grafica e sonora è dedicata all’identità delle regioni europee. Le loro musiche tradizionali compongono una cacofonia che si dipana in un brusio universale, il suono stesso degli insetti e della terra che li nutre. Corteggiamenti è fatta di 9 opere in legno, strumenti musicali, luci elettriche. 9 come sono le Muse, che danno infatti il loro nome a ciascuna opera. Imperium è una stanza vuota ma intrisa di sensazioni olfattive, seducenti e insieme aspre. L’ambizione è restituire l’odore del potere. Ultimo viaggio racconta di un’avventura in Persia prima che si trasformasse nell’Iran khomeinista. Una vecchia Peugeot è poggiata sulla sabbia e circondata da immagini di quel viaggio.
Anche altre opere descrivono l’itinerario dei corpimente dentro le memorie individuali e collettive, cantano la polvere del tempo e la nostalgia della musica, meditano l’andare, la sabbia, l’avventura e i simboli: bandiere, anagrammi, strumenti musicali. Domina ovunque la potenza degli oggetti risignificati, risemantizzati, pervasi di ironia e di concetto.
L’intenzione politica di quest’artista anarchico è esplicita. Le due opere all’ingresso sono dedicate alla P2: su una parete il triangolo massonico, su quella di fronte un grande foglio sul quale sono scritti i nomi dei membri della Loggia Propaganda 2, tra i quali ci sono politici, giornalisti, professionisti, dirigenti, banchieri, ancora vivi e facenti danno.
Una mostra politeistica e molteplice, fatta di identità etniche, simboliche, territoriali, e insieme di differenze culturali, estetiche, linguistiche, percettive. La mostra ha altre due sedi milanesi: i Chiostri di Sant’Eustorgio e il Museo del Novecento, come a voler riempire gli spazi di questa bellissima città.
Abbiamo l’arte per non naufragare nell’unicità del comando, della sua spina, e sentire invece che davvero «quand d’un passé ancien rien ne subsiste, après la mort des êtres, après la destruction des choses, seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore longtemps, comme des âmes, à se rappeler, à attendre, à espérer, sur la ruine de toute le reste, à porter sans fléchir, sur leur gouttelette presque impalpable, l’édifice immense du souvenir» (Proust, À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 46).

Mente & cervello 93 – Settembre 2012

L’esperienza che più di ogni altra plasma di sé l’esistere è apparentemente una non esperienza. È il morire. Morire, appunto, e non morte. Se la propria morte non è per definizione esperibile, la consapevolezza di dover morire ci accompagna quasi sin dall’inizio del vivere. Non pensarci non serve a nulla, anzi peggiora la situazione, come mostra M. Weiderman. Intendendo per “motivi estrinseci” degli obiettivi puramente economici ed esteriori e per “motivi intrinseci” stili di vita che si soffermano sugli elementi gratuiti e immateriali della vita, si è scoperto che «le persone che perseguono obiettivi intrinseci riescono meglio di chi persegue cose materiali a tenere a bada l’ansia associata alla morte. […] Obiettivi di vita intrinseci e creazione di significato appaiono centrali nel venire a patti con la nostra mortalità» (p. 74).

Non temiamo solo la morte. Tra le altre numerose ragioni di inquietudine c’è l’insicurezza costante sull’integrità del corpo che siamo. Insieme alla propriocezione -la percezione della condizione del corpo a ogni istante- è sempre attivo anche lo spazio peripersonale, i circa dieci centimetri intorno a noi nei quali non deve entrare nessuno senza il nostro permesso, né persone né altri animali né oggetti. «È come una bolla di sicurezza, che espande i bordi del corpo percepito oltre i suoi limiti fisici, in modo non cosciente» (G. Sabato, 51). Lo spazio peripersonale è una delle strutture fondamentali del Leib, del corpo proprio, vivente e vissuto. È una condizione che discende direttamente dal meno valorizzato dei sensi ma che forse è il più importante di tutti, il tatto. Aristotele ne aveva ben compreso la rilevanza. Nel II libro del De Anima scrive infatti che «in tutti gli animali la prima facoltà sensitiva è il tatto»; «anche a proposito dei sensi accade qualcosa di simile, perché alcuni animali li possiedono tutti, altri ne possiedono alcuni, e altri infine solo uno, quello cioè che è il più necessario, il tatto» (413b); «senza la facoltà tattile non esiste alcun altro senso, mentre il tatto può esistere senza gli altri sensi, perché molti animali non possiedono né vista né udito né il senso dell’odorato» (415a); «l’uomo ha quest’ultimo senso, cioè il tatto, in forma assolutamente acuta; negli altri sensi, infatti, l’uomo è inferiore a gran parte degli altri animali, ma per il tatto è particolarmente più acuto rispetto agli altri animali; perciò è anche l’animale più saggio» (421a) [traduzioni di Giovanna R. Giardina].
Un ampio articolo dà ragione ad Aristotele mostrando come il tatto «non solo ci procura una varietà di informazioni vitali sull’ambiente, ma è anche alla base della rappresentazione che costruiamo del nostro corpo, dell’autocoscienza fisica»; «la pelle è il confine del corpo, e ogni contatto con un oggetto circostante non ci informa solo sull’ambiente esterno ma anche sul corpo stesso» (G. Sabato, 48 e 50).
In generale tutti i sensi sono tra di loro profondamente intrecciati e su tale unione si fonda la percezione dell’esistere e la possibilità di pensare. La “memoria involontaria” di Bergson e di Proust scaturisce da tale intrico di sensibilità e ricordo, come numerose ricerche neurobiologiche vanno confermando. Siamo tutti un po’ sinestetici, tutti intrecciamo in forme blande e inconsapevoli le differenti percezioni. Anche per questo le intelligenze artificiali rimangono così stupide, perché sono incapaci di vedere suoni o toccare odori: «È proprio ai sensi, prima che alla velocità di elaborazione, che dovranno guardare gli esperti di intelligenza artificiale per riuscire a costruire una macchina pensante» (M. Cattaneo, 3).

Un altro importante tema discusso in questo numero di Mente & cervello è il rapporto tra empatia e violenza. Rispondendo alle domande di P.E. Cicerone il ricercatore britannico S. Baron Cohen spiega che «ci sono tre disturbi psichiatrici che possiamo definire a empatia zero, un termine che uso per indicare un livello negativo per gli individui stessi e per la società. Il disturbo borderline di personalità, che porta chi ne soffre a frequenti sbalzi di umore e ricatti affettivi. Poi la personalità psicopatica o antisociale: chi ne soffre è una persona apparentemente attraente, che però usa il proprio fascino per ottenere dagli altri ciò che vuole. E una patologia meno nota, il disturbo narcisistico di personalità, che spinge gli individui a preoccuparsi solo di se stessi. Queste sono le classificazioni ufficiali, ma potremmo definire questi disturbi anche in relazione alla mancanza di empatia» (69). Dato che il grado di empatia di un soggetto è un fattore sia ambientale sia genetico, ritorna -inesorabile come il convitato di pietra presente in tutte le discussioni etiche- la questione del libero arbitrio: «Se qualcuno commette un crimine a causa dello sviluppo o del funzionamento del suo cervello, fino a che punto possiamo considerarlo responsabile?» si chiede Baron Cohen (71). La risposta, come più volte ho ripetuto anche su questo sito, consiste nel separare la colpa dal danno. Non è necessario che un soggetto sia responsabile di ciò che fa perché se ne limiti l’eventuale azione dannosa. Come anche Spinoza ha chiarito assai bene, la confusione tra questi due concetti -danno e colpa- è grave e ingiustificata.

Vedere la crudeltà, vedere le illusioni (come il libero arbitrio). Vedere è la capacità prima dell’umano. E anche questo i Greci sapevano. Theorein vuol dire insieme osservare e pensare. E «ora si sta scoprendo che alcuni dati visivi sono sfruttati per usi differenti dalla vista, magari per scandire interiormente il tempo e per controllare inconsciamente il movimento. In effetti, i meccanismi sensoriali potrebbero essere del tutto differenti, e avere inizio da minuscoli sensori luminosi della retina» (A. Bleicher, 28).
Luce e tempo sono forme diverse della stessa realtà, come tutti i saggi hanno sempre saputo.

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