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Roth

Philip Roth
L’animale morente
(The Dying Animal, 2001)
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi, 2002
Pagine 113

Il Professor David Kepesh ha sessantadue anni; ha vissuto da docente la contestazione e la liberazione sessuale, da esse si è sentito restituire alla propria natura di macchina del desiderio, oltre che di dispositivo concettuale. Vive quindi da molti anni da solo e colleziona rapporti, avventure, sesso anche con le sue studentesse –ma rigorosamente solo dopo la conclusione dei corsi e degli esami. Nessuna di queste relazioni lo ha mai coinvolto emotivamente, finché non gli si è presentata davanti Consuela Castillo, una splendida ragazza cubana dai capelli nerissimi, dai seni meravigliosi, dal corpo irresistibile. Per un anno e mezzo Consuela diventa la sua passione, la sua gioia e il suo tormento. Quando lei lo lascia la sofferenza è totale ma alla fine è Consuela l’animale morente, colpita da un tumore ai suoi splendidi seni.
Il lungo monologo di David è a volte banale, ripetitivo e persino noioso, giocato sin troppo sull’apologia di quegli anni Sessanta dei quali si dice che «no, non furono aberranti» (pag. 46), e che spesso rappresentarono «una farsa infantile ma una farsa infantile di vastissima portata» (47). Il monologo di un uomo con ancora tanta vitalità nel corpo, consapevole che la vita offre soltanto un assaggio –che la vita è soltanto un assaggio- e che il desiderio di legami più stabili ci rovina e ci perde. Il monologo di un professore che vede nella didattica il proprio destino ed è consapevole che il suo potere su Consuela sta proprio nell’insegnamento. Il monologo di un uomo che ha studiato sino in fondo l’oggetto del suo amore e sa che Consuela è nello stesso tempo «comune ma senza essere prevedibile» (21) ed è anche sfuggente, come tutti gli oggetti del desiderio.
Un uomo così disincantato e persino cinico non può tuttavia fare nulla contro la potenza di Afrodite, contro l’innamoramento che lo afferra senza che quasi se ne accorga. Ed è proprio nella descrizione della passione che il monologo si riscatta e diventa una vera e propria fenomenologia dell’amore, una delle più sincere che la letteratura abbia saputo creare.
L’amore è ossessione: «Per questo Consuela era sempre nei miei pensieri; per questo, con lei o lontano da lei, non mi sentivo mai sicuro di lei» (19).
L’amore è potere: «Aver conquistato il totale interesse, essere diventata la passione divorante di un uomo che in ogni altro campo le sarebbe inaccessibile […] Questo è il potere, ed è il potere che lei vuole» (26).
L’amore è frattura, come ricorda a David il suo amico George: «L’unica ossessione che vogliono tutti: l’ ‘amore’. Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due» (73-74).
L’amore è adulazione: «Io l’avevo proclamata una grande opera d’arte […] Perché la devo adulare quando chiacchieriamo? Perché non la finisco di dirle che è perfetta?» (29).
L’amore è una costruzione dell’innamorato e l’Altro, come scrive Proust, è solo  «ce choc en retour de notre propre tendresse». («À l’ombre des jeunes filles en fleurs» in À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 482), un riflesso e rimbalzo della nostra stessa tenerezza. David ammette infatti che «io sono l’autore del suo dominio su di me» (25).
L’amore non può essere, quindi, che lo strazio impossibile dell’anima, tanto che «non riesci ad avere ciò che vuoi nemmeno quando riesci ad avere ciò che vuoi» (30), essendo «tormentato per tutto il tempo che ero stato con lei, cento volte più tormentato per averla perduta» (68) e «se avessi insistito, non avrei fatto altro che prepararmi nuovi tormenti» (70).
L’amore «è anche la vendetta sulla morte» (52) ma la morte arriva lo stesso, prima a consumare il «volto cavernoso e immensamente solo» dell’amico George (89) e poi a intaccare lo splendore statuario, sensuale, apparentemente integro di Consuela.
Dai Greci a Proust, dentro i miti di tutte le menti e civiltà, l’amore è quindi lotta, estasi, tormento, piacere, metafora della fine, poiché niente davvero conduce gli umani sull’orlo dell’abisso come la potenza incomprensibile e gratuita del sentimento e del desiderio che fanno dell’Altro –che è soltanto una parte- il Tutto nella cui assenza manca il respiro e all’infuori del quale non ci sono orizzonti.

[Segnalo anche American Pastoral (1997)]

Gli USA, la guerra

American Pastoral
di Ewan McGregor
USA, 2016
Con: Ewan McGregor (Seymor ‘Lo Svedese’ Levov), Dakota Fanning (Merry Levov), Jennifer Connelly (Dawn Levov), Peter Riegert (Lou Levov), Valorie Curry (Rita Cohen), David Strathaim (Nathan Zuckerman)
Trailer del film

Guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam. Guerra dei neri contro i bianchi. Guerra dei giovani contro lo Stato. Guerra del passato contro il presente. E soprattutto guerra dei sentimenti dentro una famiglia. Guerra degli umani contro se stessi. Anche questo è American Pastoral di Philip Roth, dal quale Ewan McGregor ha tratto un film sobrio, doloroso, assai teso.
Romanzo e film raccontano di un giovane del New Jersey negli anni Cinquanta, figlio di un piccolo industriale dei guanti. Seymor è un uomo bello, atletico, marito di una ragazza affascinante, padre amatissimo della bimba Merry. Ma. Le passioni, il corpo sociale e il tempo distruggono questo idillio pastorale, questa così invidiabile esistenza. Merry detesta la madre, vorrebbe il padre tutto per sé, diventa una contestatrice appassionata ma anche ingenua del sistema americano, del suo imperialismo, della sua ipocrisia. Seymor cerca di convincerla che non è necessario andare a New York per vivere questi ideali. Che anche la loro piccola città è America e che dunque «puoi portare qui la guerra». E Merry la guerra la porta veramente. Facendo saltare l’ufficio postale con dentro l’impiegato. La ragazza scompare, diventa clandestina, si perde. La madre impazzisce e poi rinasce dimenticando la figlia e odiando il marito. Il padre non si rassegna, la cerca, la trova nei sobborghi più squallidi, diventata induista, rispettosa di ogni forma di vita e dalla vita ferita sino in fondo.
Un grumo di passioni, d’amore e di stoltezza è questa storia, come l’intera vicenda umana. Attaccarsi a un proprio simile -figlia, padre, compagna, amante che sia- sino a farne respiro e tessuto dei giorni che vanno, è qualcosa che a molti umani riesce facile. E rischiosa. Le ragioni dell’abbandono possono essere le più diverse, nel caso di Merry una confusa motivazione politica, ma se questo accade bisogna lasciare andare le persone per la loro strada. Se l’abbandono è stato precipitoso -quasi sempre lo è quando l’abbandonato ci amava veramente- la vita si incaricherà di illuminare tale imprudenza, come accade a Merry.
«Tutto è politica, anche lavarsi i denti è politica» dice la ragazza. Vero. Tutto è politica e tutto è sentimento. Per questo la storia universale e quella di ciascuno è tanto irrazionale, perché le passioni guidano la vita di ognuno, palesi o mascherate che siano. Non esiste idillio nelle relazioni umane, non esiste pastorale.

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