Skip to content


L’anima e il corpo

Recensione a:
L’anima e il corpo.
Un’introduzione storica alla filosofia della mente
di Sandro Nannini
(Laterza, 2011; pp. XXX-272)
in Diorama Letterario – numero 331 – maggio/giugno 2016
pagine 34-35

nannini

Questa nuova edizione del libro di Nannini conferma tutto il suo rigore e la sua capacità di introdurre in modo vivace e articolato alla complessa riflessione sull’anima e il corpo che da più di venticinque secoli segna la filosofia europea. L’opzione dell’Autore per un naturalismo forte, che di fatto dissolve il mentale a favore del cerebrale, non toglie comunque valore a un testo tra i più chiari e i più ricchi che si possano leggere sulla mente e la sua storia.

Riscoprire Husserl

Husserl
di Vincenzo Costa
Carocci, 2009
Pagine 232

 

Costa_HusserlLa fenomenologia fu dal suo fondatore sempre concepita e praticata come un metodo, anzi «come il metodo stesso della filosofia», in grado di «abbracciare la totalità dei problemi filosofici» (p. 24).
Il rifiuto del naturalismo non è soltanto metodologico ma è anche metafisico e consiste nella critica a ogni forma di ingenuo realismo che ritiene di poter cogliere un mondo indipendente dal fenomeno, vale a dire da come la soggettività trascendentale (non quella empirica) costruisce la realtà stessa mentre la percepisce, la valuta, la vive. Il contenuto di qualsiasi percezione può costituire un errore ma il fatto che io veda ciò che vedo non può essere mai un inganno, proprio in quanto è ciò che la mia coscienza sta in questo momento vivendo. Come anche Meinong sostiene, gli enti possono consistere (Bestehen) anche quando il loro correlato fisico ed empirico non esiste: «L’albero che vedo forse non esiste, ma non vi è dubbio che io vedo un albero» (27). Se «posso essere colpito da oggetti che non esistono» questo significa che a costituire il mondo della coscienza, e dunque il mondo, non sono le cause empiriche bensì le motivazioni intenzionali poiché -scrive Husserl- «la relazione reale viene meno quando la cosa non esiste, la relazione intenzionale invece sussiste» (134). La riduzione fenomenologica è quindi il darsi del mondo senza presupporne l’esistenza al di là del suo apparire, della sua radicale fenomenizzazione. Possiamo essere certi dell’immanenza degli enti, del modo in cui ci appaiono, non della loro trascendenza, del mondo in cui sarebbero al di là del loro apparire. È esattamente questo il luogo della certezza filosofica. Esso si chiama intenzionalità ed è fatto della materia sensibile che appare (hyle), del modo in cui appare -come percezione, immaginazione, credenza, calcolo o altro- (noesi), del contenuto di tale apparire in quanto apparire, dell’ente/evento come viene percepito, immaginato, creduto, calcolato (noema).
Materia, noesi e noema sono sempre semantici e temporali; sono «il senso che lega in unità una molteplicità di sensazioni» (46); sono « la forma che essi delineano» (90); sono l’insieme degli enti, degli eventi e dei processi per noi colmi di significato. E tutto questo è possibile perché questo senso e tale forma costituiscono se stesse come strutture temporali, essendo la temporalità «una forma di ordinamento senza della quale niente potrebbe apparire» (51). Non, però, come struttura esterna ed estranea agli enti, agli eventi e ai processi ma come il modo stesso della loro manifestazione, che in fenomenologia equivale al modo stesso del loro costituirsi ed essere.
È anche a motivo di questo nostro percepire il tempo che intesse le cose e le loro relazioni che «noi vediamo costantemente più di quanto ci è dato sensibilmente» (82), poiché ciò che Aristotele e Kant hanno chiamato ‘categorie’ non viene soltanto pensato ma ci è dato intuitivamente attraverso la capacità che il nostro corpomente possiede di collocare ogni singolo ente e ogni evento in un tessuto semantico e temporale che non sta evidentemente nella materia ma abita nel modo in cui essa si costituisce nella coscienza, sta -appunto- nel fenomeno.
Un radicale teleologismo della ragione sta al cuore della rigorosa presentazione che Vincenzo Costa ci offre del filosofo. Dalle Ricerche logiche alla Crisi delle scienze europee e alla mole sterminata di manoscritti, la fede -non c’è altro modo di definirla- di Husserl consiste nella convinzione che «storia non significa semplicemente cambiamento, ma sviluppo guidato da un’idea infinita, orientato verso un telos» (178) che affonda nel Wille zum Leben inteso non come volontà senza senso e senza scopo ma in quanto «nucleo di assoluta razionalità in via di dispiegamento, in corso di manifestazione» (203). Non dunque l’accoglimento dell’umano come finitudine consapevole di se stessa ma come vita di un io trascendentale che -scrive Husserl- «è la vita di un essere finito diretto verso l’infinità» (cit. a p. 206).
Qui la differenza con Heidegger è chiara e fu anche esistenzialmente drammatica nel passaggio dalla formula «la fenomenologia siamo io e Heidegger» (anno 1916) al netto distacco testimoniato da una lettera a Ingarden del dicembre 1929: «Sono giunto alla conclusione che non posso inquadrare l’opera [Sein und Zeit] nell’ambito della mia fenomenologia, e purtroppo, anche dal punto di vista del metodo e addirittura nell’essenziale, dal punto di vista del contenuto (sachlich), la devo rifiutare» (pp. 211 e 213).
E tuttavia -e pur nella differenza- Husserl e Heidegger condivisero sempre e sino in fondo lo sguardo fenomenologico verso enti eventi e processi, pur diversamente declinato. Il logicismo si declina -nei manoscritti che via via vengono pubblicati- anche come metafisica fenomenologica che ha nella soggettività trascendentale e nel richiamo all’esperienza i propri fondamenti, qualcosa di non così dissimile e così lontano dall’analitica esistenziale: «Non si tratta più di comprendere perché appare un mondo, ma che cosa caratterizza la struttura profonda dell’essere, e questa è accessibile appunto interrogando quell’essere che noi stessi siamo. Mentre la metafisica classica (compresa quella di Spinoza e Schopenhauer), almeno agli occhi di Husserl, cercava di accedere alle strutture dell’essere oltrepassando il fenomeno, per Husserl non si tratterà di niente di simile, bensì di scavare all’interno della vita del soggetto per mettere in luce ciò che ha permesso e permette ogni storia e ogni movimento dell’essere. Per accedere alle strutture profonde della realtà e dell’essere bisogna cioè interrogarsi e interrogare quella vita trascendentale che costituisce ogni mondo, che permette al mondo di apparire» (193).
Sarebbe stato davvero possibile per Heidegger soffermarsi così a lungo e così genialmente sul Dasein senza avere dietro e a fondamento il primato della coscienza genetica e del Leib? Il primato di quel corpo isotropo per il quale «lo spazio si organizza a partire da un luogo privilegiato, quello di volta in volta occupato dal mio corpo vivo, cioè dal mio qui […] cioè dal mio corpo vivo che funge da punto centrale o centro dello spazio» (128-129). Il primato di una «vita dell’io» che «precede il suo sapersi» (186) prima ancora che esso diventi consapevole di se stesso (e qui sembra di vedere il proto-Sé di cui parla Antonio Damasio). Il primato di una volontà non intellettualistica ma neppure irrazionale, per il quale «la genesi della volontà, e di ciò che chiamiamo soggetto del volere, coincide in primo luogo con la formazione di un soggetto padrone dei movimenti del proprio corpo vivo» (195-196).
L’essere avrebbe potuto coincidere con il tempo senza la convinzione husserliana [Ms. A V 21/61a]  che quanto viene «descritto in termini puramente statici è incomprensibile, e non si sa a questo proposito mai che cosa sia radicalmente significativo e che cosa non lo sia» (192) e che dunque «l’assoluto stesso si dispiega in un processo che è temporale da parte a parte» (199)?
Per entrambi, Husserl e Heidegger, la filosofia si genera dalla differenza tra il dato e il significato. Ontologia e fenomenologia sono due modi radicali di pensare questa differenza. L’ontologia di Heidegger è sempre rimasta radicalmente fenomenologica e la fenomenologia husserliana si è sempre posta nell’orizzonte di un’ontologia genetica. Fu facile profeta di se stesso Edmund Husserl quando nel 1935 scrisse a Ingarden che «le generazioni future mi riscopriranno» (214). Riscoprire Husserl significa infatti scoprire ogni volta la filosofia, il dono di un significato radicale che essa offre alla vita.

 

Consilience

L’armonia meravigliosa
Dalla biologia alla religione, la nuova unità della conoscenza
di Edward O. Wilson
(Consilience, 1998)
Trad. di Roberto Cagliero

Il titolo italiano di quest’opera cerca, senza riuscirci, di restituire la densità di contenuto di un termine dell’inglese arcaico come Consilience. Coincidenza, convergenza, unificazione; questo è il plesso semantico che il titolo originale intende evocare. Convergenza tra che cosa? Tra il sapere scientifico e quello umanistico, non due campi separati e distinti -come induce a pensare lo specialismo che va diventando una palude di discipline minori dentro le quali affonda la comprensione del mondo- ma due ramificazioni dell’unico sapere umano e naturale, da apprendere nella sua unitarietà originaria e profonda. La complessità del mondo è incomprensibile senza una visione capace di sintetizzare science e humanities. Infatti,

l’idea centrale della visione coincidente del mondo è che tutti i fenomeni tangibili, dalla nascita delle stelle al funzionamento delle istituzioni sociali, sono fondati su processi materiali in ultima analisi riconducibili alle leggi della fisica, indipendentemente dalla tortuosità e dalla durata delle sequenze (pag. 305).

Comprendere la condizione umana significa anzitutto capire i geni e la cultura. E non come ambiti e funzioni autonome ma nella loro essenziale coevoluzione. L’evoluzione del cervello e quella dei comportamenti hanno proceduto insieme per milioni di anni. La radice di molti dei pericoli che sovrastano la Terra e l’umanità risiede proprio nel fatto che da alcuni millenni -dalla Rivoluzione neolitica- l’evoluzione culturale è diventata incomparabilmente più veloce di quella genetica. Tuttavia, ancora oggi

la cultura è creata dalla mente comune e ogni mente individuale a sua volta è il prodotto del cervello umano, che è strutturato geneticamente. I geni e la cultura sono dunque collegati in modo inscindibile. Ma il collegamento è flessibile, in termini finora quasi del tutto incommensurabili. Ed è nel contempo tortuoso: i geni codificano regole epigenetiche, che sono i percorsi neurologici e gli aspetti regolari dello sviluppo cognitivo grazie ai quali la mente individuale si assembla. La mente cresce dalla nascita fino alla morte assorbendo parti della cultura esistente che trova disponibili, avvalendosi di selezioni guidate dalle regole epigenetiche ereditate dal cervello individuale (144, corsivo dell’Autore).

I concetti chiave sui quali si fonda questo tentativo di unificazione della conoscenza sono i seguenti: epigenesi, natura umana, naturalismo etico, panteismo biologico.

L’epigenesi «definisce lo sviluppo di un organismo sotto l’influsso congiunto dell’eredità e dell’ambiente» (221-222). Educazione e geni, storia e biologia, appreso e innato non sono per nulla in conflitto tra di loro proprio perché «nell’ampia zona che sta a metà tra le visioni estreme del Modello Standard delle Scienze Sociali e il determinismo genetico, le scienze sociali sono essenzialmente compatibili con quelle naturali» (216).

Homo sapiens è una specie appartenente all’ordine dei Primati, la cui identità è data dalle regole epigenetiche, dalle «regolarità ereditarie dello sviluppo mentale che spingono l’evoluzione culturale in una direzione e non in un’altra, collegando così i geni con la cultura» (188). Non c’è nulla di fatalistico in una simile visione dell’umanità. Nessun sociobiologo ha mai sostenuto che le forme specifiche di cultura, i valori di una popolazione, le sue credenze, siano dettati dai geni. Sono gli scienziati sociali, invece, ad assolutizzare una delle due dimensioni, ignorando -a volte ostentatamente- i contributi della genetica e dello studio del cervello umano, l’organo dal quale, dopotutto, nasce ogni pensiero, valore, principio di comportamento. Anche a causa di tale ignoranza, gli scienziati sociali vengono regolarmente colti di sorpresa dallo sviluppo dei fenomeni che pure studiano con assiduità, data la tipica tendenza a sopravvalutare i sistemi ideologici (credenze religiose, dottrine politiche, strutture economiche) a detrimento di concause di tipo biologico (territorialismo, disponibilità delle risorse, aggressività intraspecifica). La cultura è certo lo scarto della nostra specie rispetto a ogni altra ma anch’essa è -e altro non potrebbe essere- il prodotto più recente della storia genetica dell’umanità. All’ingenuo antropocentrismo dominante nelle scienze sociali e umane bisogna opporre il dato di fatto che «la nostra specie e il suo modo di pensare sono un prodotto, e non il fine, dell’evoluzione» (35). L’universo non è stato certo pensato a misura di una specie abitante su un piccolo pianeta alla periferia della Via Lattea. Piuttosto che crederci padroni della Terra, converrebbe -prima di tutto a noi stessi- mostrarci rispettosi della miriade di forme di vita con le quali conviviamo e da cui dipende la nostra sopravvivenza.

Sta qui la necessità di un’etica naturalistica, i cui capisaldi possono essere così sintetizzati: centralità del corpo; coesistenza di passione e razionalità; rifiuto della credenza nel libero arbitrio; altruismo e fitness. L’etica nasce dal basso del corpo e delle sue esperienze e non dall’alto di una rivelazione. Certo, aggiunge Wilson, «la fiducia nel libero arbitrio è biologicamente proficua. In sua mancanza la mente, imprigionata nel fatalismo, rallenterebbe e finirebbe per deteriorarsi» (137).

L’ultima -ma decisiva- espressione della consilience è ciò che potremmo definire panteismo biologico. Wilson riconosce la profondità del bisogno del sacro nell’uomo e individua nelle realtà fisiche scoperte dalla scienza un fascino superiore a quello delle cosmologie religiose.

Qual è lo scopo finale di questa proposta scientifica? Contribuire, ancora una volta, a capire chi e cosa siamo e -da qui- comprendere una serie di gravi questioni per tentare di affrontarle meglio. Il problema principale è la progressiva scomparsa della biodiversità, causata soprattutto dalle enormi esigenze materiali della specie umana: «la crescita della popolazione può essere giustamente definita il mostro della Terra» (331) e contro di essa bisogna operare con consapevolezza, convinzione e decisione, pena la scomparsa della maggior parte degli ecosistemi, delle specie viventi e, infine, della stessa umanità.
Cervello e cultura sono dunque unificati da questo libro in una prospettiva biologica che è materialistica senza però essere riduzionistica.

La nottola di Minerva

La nottola di Minerva.
Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia della mente

di Sandro Nannini
Mimesis, 2008
Pagine 228

Questo libro è frutto di una duplice passione: per la fantascienza e per il corpomente. E poi di una convinzione: che in filosofia non siano possibili dimostrazioni logiche o prove empiriche e che quindi il miglior metodo filosofico rimanga il dialogo platonico. E infatti il testo consiste in cinque dialoghi, un prologo, un intermezzo e un epilogo. Dialoghi dedicati rispettivamente a scienza e filosofia, alla mente, al suo rapporto col mondo, al linguaggio, alla coscienza e alla verità, alla relazione corpo-mente. In essi una grande competenza viene sciolta ed espressa in pagine insieme lievi e rigorose.

Si immagina che in un lontano futuro attraverso un tunnel spazio-temporale arrivi sulla Terra da un pianeta lontanissimo -di nome Elea- uno Straniero venuto a confrontarsi con alcuni umani e androidi sul tema della mente a partire da una prospettiva naturalistica, «ossia quella concezione secondo la quale l’uomo è un animale come gli altri, frutto anch’egli dell’evoluzione biologica» (pag. 57). Tale cornice generale racchiude un’ontologia materialistica e una posizione eliminativista sul mentale. Anche il materialismo è infatti definito un’«ipotesi e cornice teorica» come ce ne sono altre (p. 206) e «non è vero che tutta la metafisica sia ugualmente cattiva e non è vero che tutte le ontologie si equivalgano» (p. 48). L’eliminativismo qui difeso è davvero assai raffinato e pone alla base dei fenomeni mentali tre condizioni: un sistema autonomo di locomozione; uno o più organi di senso che permettono all’organismo di ricevere stimoli e dati dal mondo; un sistema nervoso in grado di guidare tale sistema. Su questa base, le regolarità del mondo fisico vengono replicate dal cervello allo scopo di consentire all’intero corpo di dare risposte motorie funzionali agli input dell’ambiente e quindi sopravvivere.

Ma, ed è questa una delle tesi più importanti tra quelle sostenute dallo Straniero, tale riconoscimento di regolarità non si limita a rispecchiare il mondo fisico bensì lo plasma: «Il cervello costruisce, a partire dai dati sensoriali, una rappresentazione mentale del mondo, che mette in evidenza, tra le regolarità del mondo esterno, quelle capaci di guidare delle risposte motorie che incrementino, in media, le probabilità di sopravvivenza dell’animale» (77). La realtà è assai più ricca e complessa di quanto una concezione prefilosofica e prescientifica ritenga. Ad esempio, il collegamento (binding) tra i neuroni del colore e quelli della forma mostra la reciproca autonomia di queste aree della percezione, che poi il cervello connette sino a costruire la rappresentazione di un oggetto. «Un percetto», insomma, «è il risultato di un processo di “costruzione” dei dati sensoriali al pari di un concetto, sebbene ad un livello di astrazione più basso» (112).
La mente quindi non è né una sostanza (cartesiana) né un insieme di fasci (humeani) ma consiste in una incessante attività (kantiana) di ordinamento degli input sensoriali e dei relativi stati di coscienza. Il Sé neuronale è «la rappresentazione che noi in ogni momento abbiamo del nostro corpo, attraverso la propriocezione» (187), cioè la consapevolezza che il corpo ha di se stesso nello spazio e nel tempo. Ne consegue che l’identità dell’io è dinamica, molteplice, temporale.
L’epistemologia quineana che sta alla base di questi risultati è altrettanto raffinata, essendosi lasciata alle spalle ogni concezione corrispondentistica della verità -per la quale essa consisterebbe nella adaequatio tra la mente e il mondo fisico- a favore di una teoria coerentistica tra rappresentazioni diverse all’interno di una cornice teorica che le sottende.

Il materialismo di Nannini sembra dunque ben lontano da qualunque ingenuo riduzionismo positivistico ed è talmente ricco di teoria da poter senz’altro essere accolto. Così come del tutto condivisibili sono il rifiuto dell’analogia funzionalistica mente-computer, in quanto «biologicamente implausibile» (83); la critica al cosiddetto “principio antropico”, l’illusione che ci fa apparire straordinarie le condizioni che hanno permesso la comparsa dell’uomo sulla Terra, illusione nata dall’attribuire alla improbabilità di questo evento un valore particolare e diverso rispetto a ogni altra e analoga improbabilità; l’ammissione che «la relazione semantica tra il mio pensiero ed il suo contenuto non è direttamente naturalizzabile» poiché i segnali sonori diventano linguaggio soltanto quando il contenuto della comunicazione ha una sufficiente quantità d’astrazione legata ad altri concetti che formano un sistema (124 e 137). Tra le tante ipotesi descritte in modo davvero assai brillante dallo Straniero e dai suoi interlocutori, la più convincente è il monismo neutrale di Spinoza, Mach, W. James, Husserl, Russel, «che vede, in forme ovviamente spesso diverse, nella materia e nel pensiero due manifestazioni parallele di una sostanza indistintamente estesa e pensante» (195).

L‘onestà intellettuale di questo libro è rara forse quanto la sua inconsueta -per la tradizione accademica- forma dialogica e narrativa. L’Autore enuncia e difende una posizione ben precisa ma non riduce mai le posizioni avverse a delle caricature. Riconosce, piuttosto, i limiti delle proprie quando ammette che essendo un «processo irripetibile, l’evoluzione biologica è perciò solo un’ipotesi storica non definitivamente provata e probabilmente mai definitivamente provabile» (57-58) e, più in generale, si dice convinto «che il sapere umano è solo un piccolo spot di luce gettato in un mare di buio» (65).
Sandro Nannini ha costruito un testo splendido nella sua chiarezza e precisione, un dialogo filosofico sempre vivacissimo e con un finale a sorpresa che ovviamente non posso svelare. Basti sapere che vi sono coinvolti i tunnel spazio-temporali, Pirandello e Matrix: «ciascun essere umano non sa se egli è qualcosa di reale, oppure se è una sorta di avatar che vive entro (ed è parte di) una realtà virtuale costruita dal suo cervello» (227). È anche in questa inoltrepassabile ma feconda ignoranza che la filosofia della mente affonda le proprie radici e produce i suoi frutti migliori.

Vai alla barra degli strumenti