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Dal profondo

Bill Viola
Palazzo Reale – Milano
A cura di Kira Perov
Sino al 25 giugno 2023

Perché è così difficile colpire una mosca? La ragione sta nel fatto che questo insetto percepisce il movimento in modo più veloce rispetto ai sensi umani e quindi un gesto che a noi appare fulmineo viene recepito dalla mosca come assai più lento e ha tutto l’agio di spostarsi. Veloce / lento, più veloce più lento. Il movimento non è altro che tempo, come anche la semplice formula v= s/t e le sue varianti dimostrano.
Bill Viola ha intuito il profondo rapporto non soltanto tra tempo e percezione ma ciò che lo sostanzia: la relazione tra temporalità e ontologia. La sua opera è capace di mostrare il tempo, di renderlo visibile anche mediante il rallentamento della percezione del moto.
L’artista ha coniugato l’intuizione heideggeriana (e prima ancora eraclitea, platonica, aristotelica…) dell’identità tra essere e tempo con una grande competenza tecnologica, in particolare relativa alla videoarte. Ha quindi inventato un modo radicalmente originale di ridare vita alle forme classiche e rinascimentali, non più attraverso delle opere statiche ma per mezzo di opere che si distendono nel tempo, mediante dei video la cui peculiarità è di essere rallentati sino a mostrare ogni dettaglio dei personaggi, dei loro volti, delle espressioni, dei movimenti, dei gesti.
Al ritmo rallentato (slow motion) Viola coniuga spesso un montaggio all’inverso. L’effetto di queste due modalità tecnologiche non sarebbe tuttavia sufficiente se non fosse unito a una grande competenza sulla storia dell’arte e soprattutto a un vivo amore per il Rinascimento italiano. La visitazione  di Pontormo e la Pietà di Masolino da Panicale (qui a sinistra, con il titolo Emergence, 2000) ispirano ad esempio due affreschi in movimento che permettono di entrare nei sentimenti, negli sguardi, nei corpi di personaggi che sono inseparabilmente di Pontormo, di Masolino e di Viola.

 

Magnifico, poi, è The Quintet of the Silent (2000; qui sopra), opera caravaggesca nella quale cinque uomini sembrano sopraffatti da un’emozione/luce che li investe e alla quale reagiscono in modi diversi ma insieme convergenti. Quest’opera testimonia anche la sapienza cromatica di Viola, i cui colori sono sempre espressivi e, naturalmente, esaltati dall’alta definizione dei video.
E questo è un altro fecondo paradosso di Bill Viola. I video costituiscono infatti un materiale ormai universale, diffusissimo, con il quale i prosumer, i produttori/consumatori della Rete, invadono ogni spazio proprio e altrui con narrazioni di tutti i generi, per lo più completamente vane. E però l’arte di Bill Viola non si può apprezzare in Rete. È possibile, certo, trovare e vedere dei filmati su Internet e tuttavia oltre a essere per lo più delle riprese di visitatori delle sue mostre – e quindi video assolutamente impoveriti, come lo sono le foto che ho scattato e che pubblico qui – tali filmati non possiedono lo splendore cromatico e la definizione che sono rese possibili soltanto dai grandi schermi sui quali le opere vengono riprodotte nelle mostre, come questa di Palazzo Reale a Milano.
Le opere di Bill Viola hanno quindi bisogno dei musei o delle chiese, esattamente come i grandi dipinti e affreschi dell’arte europea prima del Novecento. Questo le rende preziose nel panorama dell’arte contemporanea. Soltanto negli spazi costruiti e organizzati appositamente per ospitarle, tali opere possono restituire i tipici volumi armoniosi dell’arte classica e i suoi colori scanditi, pieni, scintillanti. Chi dunque vede le opere di Viola sul proprio computer in realtà vede delle copie modeste e malfatte, non vede Viola. Esattamente come per vedere davvero Rembrandt, Veronese, Caravaggio, de la Tour, Raffaello e tutti gli altri bisogna recarsi nei musei e negli spazi che ospitano le loro opere.
Il legame profondo tra tecnologia e tradizione fa sì che Viola eviti un altro degli elementi più caratteristici dell’arte contemporanea: il narcisismo del performer che mette al centro della propria arte se stesso, il proprio corpo, la propria immagine. Che invece in Viola non compare mai. I suoi temi sono quelli dell’arte dalle sue origini nelle grotte neolitiche agli impressionisti: la vita, la morte, il tempo, il sacro, gli elementi del cosmo, sia esso il microcosmo umano sia il macrocosmo celeste.
La natura empedoclea di questo artista emerge di continuo, sino a farsi tema esplicito in Martyrs Series (2014), quattro video intitolati Earth Martyr, Air Martyr, Fire Martyr, Water Martyr nei quali dei martiri/testimoni vengono investiti dalla terra, dal vento, dalle fiamme e dalle acque, ma mantengono intatta la loro forza silenziosa, il loro stare al mondo ed essere nel tempo.
Dato che il tempo è un altro nome della fine, in Viola la meditatio mortis è costante e giunge al culmine in due opere: Fire Woman e Tristan’s Ascension, entrambe del 2005. Nella prima la morte di una donna diventa onde di acqua e di luce, nelle quali il fuoco si metamorfizza in un’opera astratta.

Nella seconda (qui accanto) si assiste a una vera e propria resurrezione spinta dalla potenza dell’acqua che porta in alto, purifica, trasforma. Perché la resurrezione è questa μεταβολή della materia che è stata in altra materia che sarà, rimanendo sempre la materia eterna del cosmo, anche dentro l’infima misura dei viventi. Il transito e lo scambio tra morte e vita sembra fondarsi in Viola anche nell’indeterminato, nell’ἄπειρον  che diventa Lux.
Come si vede, si tratta di un artista anche mistico, esoterico; non c’ė nulla di realistico nell’arte di Viola ma astrazione e simbolismo, che sono altri due elementi ben presenti nella vicenda estetica europea.
L’opera forse più emblematica tra quelle esposte a Milano è The Raft (2004; immagine di apertura e qui sotto): un gruppo di 19 persone di varia condizione ed etnia sono intente a se stesse e improvvisamente vengono travolte da potenti getti d’acqua che provengono da idranti ad alta pressione. Le riprese rallentate consentono di scorgere e comprendere la sorpresa, la paura, il tentativo di fuga, la caduta, l’abbraccio per resistere, il disorientamento e l’angoscia, sino a quando tutto si placa. È una trasparente metafora della condizione umana dentro la zattera della finitudine, sempre sottoposta alla insecuritas e al naufragio.


Infine, ancora un paradosso, il più ironico e anche il più significativo: l’arte di Bill Viola è del tutto refrattaria ai ritmi digitali. Essa richiede infatti lentezza, pazienza, meditazione. In cambio regala una delle esperienze più profonde e più belle dell’arte del XXI secolo.

Tempi medioevali

Aa. Vv.
TEMPUS AEVUM AETERNITATIS
La concettualizzazione del tempo nel pensiero tardomedievale
A cura di Guido Alliney e Luciano Cova
Olschki Editore, 2000
Pagine XI- 281

Le questioni oggi dibattute sul tempo/temporalità, sulla sua natura fisica e psichica, oggettiva e interiore, sono in gran parte le stesse che vennero affrontate anche dalla Scolastica del XIII e XIV secolo. I testi di filosofi come Alberto Magno, Enrico di Gand, Nicole Oresme costituiscono dei tentativi molto raffinati, analitici, differenti sino all’incompatibilità, di comprendere la natura oggettiva e quella fenomenologica del tempo, cercando poi di coniugarle. Per Enrico di Gand, ad esempio, «scartate le soluzioni estremistiche nelle due opposte direzioni, si tratta quindi di spiegare in che modo si possa dire che il tempo esiste sine anima quanto non sine anima, in conformità per altro alla stessa articolazione della descrizione aristotelica» (P. Porro, p. 95). Il riferimento ad Aristotele, in particolare al IV libro della Physica e alla sua definizione del tempo, è costante e fondativo. Ma di quel riferimento gli Scolastici fanno un uso assai differente, a volte spregiudicato.
Essi si rendono conto che molte delle aporie inerenti la temporalità aristotelica derivano da una spazializzazione del tempo, in particolare dal legame che Aristotele sembra istituire tra il tempo e il movimento. Come ha fatto nel Novecento Sydney Shoemaker, Nicole Oresme cerca invece di separare il tempo dal movimento, tanto che «la dimostrazione dell’indipendenza del tempo dal movimento mette ancor più in luce l’originalità dell’analisi del filosofo normanno. Il tempo non è né la cosa che si muove, come sostiene Ockham, né una conseguenza del movimento: esso, infatti, si moltiplicherebbe in entrambe le eventualità all’infinito. […] La parola tempus, dunque, non equivale concettualmente a motus» ed è piuttosto la «duratio rerum successiva» (F. Zanin, 257). Una durata diversa da quella bergsoniana, più ampia e più comprensiva, poiché si tratta di un durare che non ha luogo soltanto nella mente ma nella struttura stessa della materia di cui le cose sono composte, è la loro materia. Infatti per Oresme

il tempo non è né una sostanza né un accidente strictu sensu; se fosse un accidente, peraltro, di esso non vi sarebbe scientia. È inoltre un esse in senso equivoco, poiché non è annichilabile come una res qualsiasi. Oresme, infine, dimostra che il tempo è unico e indipendente dall’anima e dal moto […] il tempo, che è concettualmente distinto dal moto e dall’anima, è tale anche realmente (Id., 258-259).

Il tempo è dunque «primus omnium successivarum, poiché precede qualunque successione e ne è la misura»; esso non è il movimento ma costituisce «la successio ipsius mobilis: se tutto fosse in quiete, infatti, esisterebbe comunque e scorrerebbe sempre allo stesso modo anche se ogni cosa si muovesse più velocemente di ora» (Id., 259). In sintesi, il tempo non è una cosa ma è un modo d’essere della realtà, «non est aliqua res sed est modus rei» (Id., 260). L’enigma dell’istante va sciogliendosi nella sua struttura profonda, che è una struttura del reale, nel senso della condizione in cui ogni ente si trova in un punto che non è soltanto spaziale ma è spaziotemporale: il punto nello spazio è il luogo, il punto nel tempo è l’istante. Come un luogo non è tutto lo spazio, così un istante non è tutto il tempo. Si superano dunque molte delle presunte aporie legate allo statuto ontologico dell’adesso.

Tutto questo è anche espressione del realismo temporale dell’ortodossia scolastica, quello che indusse il vescovo Tempier a condannare nel 1277 la proposizione secondo la quale «aevum et tempus nihil sunt in re, sed solum in apprehensione» (qui a p. 99). La Scolastica ha certamente ragione a ritenere che il tempo costituisca  una dinamica della realtà tutta intera, che esso sia anche nella mente ma non soltanto in essa.
Che tipo di dinamica? Il tempo è molteplice, lo affermano pensatori assai diversi come Bonaventura, che «a più riprese teorizza una molteplicità di significati del termine ‘tempo’» (L. Cova, 39) e Alberto, il quale scrive che «tempus multipliciter accipitur. Uno modo secundum Theologos alio modo secundum physicos» (Summa de creaturis, I, tr. 2. q. 5, art. 2. sol.; qui a p. 241); la differenza è relativa anche agli enti ai quali si applica.
La distinzione fondamentale è quella tra tempus, aevum ed aeternitatis. La prima è il tempo degli enti contingenti e corruttibili, degli enti finiti. L’ultima è la struttura extratemporale di Dio, la quale non ha un inizio né vedrà mai una fine. Il concetto più interessante è il secondo, aevum. In esso Dante coglie «una possibile continuità tra tempo ed eternità» (I. Sciuto, 8) poiché aevum indica una molteplicità di temporalità che non sono destinate a finire, come il tempo degli enti che nascono e si dissolvono, ma che non sono neppure eterni. È questo il tempo/movimento dei corpi gloriosi -angeli, beati, corpi celesti-, movimento che ha avuto un inizio ma si prolungherà all’infinito. 

Con un gesto di grande interesse, Enrico di Gand cerca di applicare questa forma del tempo anche alle sostanze corruttibili, che sono senz’altro contingenti e destinate a finire ma che se durano e mentre durano partecipano della realtà non mentale del tempo, di un tempo oggettivo e quindi del tutto sostanziale. In Quod., V, q. 13 di Enrico «non ci sono più tre regioni ontologiche ben distinte tra loro (Dio, sostanze incorruttibili, sostanze generali e corruttibili), ciascuna con la propria durata e la propria misura (eternità, aevum, tempo), ma una serie di casi in cui i confini, almeno per quel che riguarda le durate create (aevum e tempus) finiscono in qualche modo per  confondersi e sovrapporsi» (P. Porro, 115).
La fecondità e il grande interesse della riflessione della tarda scolastica stanno dunque nel suo muoversi sì ancora nell’alveo dell’aristotelismo ma nell’attraversarne costantemente i confini, andando anche oltre la tradizionale contrapposizione tra l’interiorità agostiniana e il movimento spaziale. Sempre Enrico di Gand ritiene che «dire che il nostro intelletto concepisce sempre in maniera temporale è ben diverso dal dire che il tempo ‘è’ solo nell’intelletto» (Id., 110). E anche «Alberto non aderisce né ad Aristotele, né ad Agostino», condividendo la tesi di Avicenna «secondo cui il tempo esiste indipendentemente dall’anima» (R. Blasberg, 246). Questi filosofi rifiutano dunque come parziali sia la concezione del tempo come un insieme discreto di istanti/luoghi, sia la concezione del tempo come un insieme anch’esso discreto di atti mentali/interiori, ritenendo invece che il tempo sia «insieme come discreto e come continuo, o meglio come discreto nel  continuo» (P. Porro, 97).
La temporalità umana è salvaguardata nella sintesi dantesca, la quale non è interessata in primo luogo -e come sempre- a una concettualizzazione soltanto teoretica della questione ma anche e soprattutto a «una sua semantizzazione che, in termini generali, potremmo definire ‘esistenziale’» (I. Sciuto, 4).
Per tutti i filosofi medioevali, non soltanto per Alighieri, il corpomente consegue la sua pienezza quando coglie l’unità molteplice del tempo che esso stesso è. Vedere in Dio, nel suo essere un punto/luce matematicamente infinito, «ciò che per l’universo si squaderna» (Paradiso, XXXIII, 87) significa raggiungere una pienezza/compiutezza che è la stessa plenitudo del καιρός, dell’istante perfetto e durevole nel quale si raccoglie l’unità molteplice del tempo, quella che tiene insieme «eternità e tempo, divino e umano» (I. Sciuto, 20).

«Movimento, ritmo, spazio»

Inge Morath
La vita. La fotografia

A cura di Brigitte Blüml-Kaindl, Kurt Kaindl, Marco Minuz
Museo Diocesano – Milano
Sino al 1 novembre 2020

Un lungo video, un vero e proprio film di Sabine Eckard, racconta Inge Morath (1923-2002) tornata a New York nel 1991 insieme al marito Arthur Miller. Dalle parole, dai gesti, dalla narrazione emerge la personalità vivace di questa artista, per la quale la fotografia è veicolo di comprensione antropologica ed etnologica. Segnale evidente è il suo voler apprendere e parlare le lingue dei popoli e dei luoghi che fotografa, compreso il russo e il mandarino.
Dalla Venezia quotidiana e povera del 1955 al lama che si sporge in un taxi a New York, dalla stanza da letto che fu di Tolstoj ai beduini che danzano, gli spazi disegnano sempre un equilibrio che trasmette fiducia nelle società umane, nonostante tutto. I ritratti di Malraux, Giacometti, Monroe, Steinberg, Calder, Neruda, Stravinsky, Roth, Pinter e tanti altri, sono sempre intrisi di gioco oltre che di psiche e di mondo. Il bianco e nero dell’Agenzia Magnum, con la quale Morath collaborò a lungo, è parte della storia della fotografia come lavoro da artigiani a caccia dell’istante. Ma non è soltanto storia, società, persone. È anche e sempre forma. Morath consigliava infatti di capovolgere l’inquadratura dei negativi come modo per verificare l’equilibrio e la forza dell’immagine, che diventa così del tutto astratta, pura forma appunto.
Perché la fotografia, dice in un’intervista, è «una combinazione di movimento, ritmo e spazio». Il movimento senza fine degli eventi, il ritmo irreversibile del tempo, lo spazio come puro istante, ancora tempo

Heidegger a Bilbao

El Arte y el Espacio
Bilbao – Museo Guggenheim
Sino al 15 aprile 2018

Il 18 ottobre 1997 sorse sul fiume e tra le case di Bilbao questo sogno di pietra immaginato da Frank O. Gehry, fatto di curve, ellissi, parabole. Nessuna retta. Ricoperto di titanio splendente sotto il  sole che si fa cupo nelle sere. Gehry ha messo in costante movimento l’idea architettonica di Lloyd Wright, trasformando le linee razionali e pulite in una dinamica dialogante con lo spazio tutto intorno, con l’intera struttura urbana, con l’idea stessa -platonica- di luogo. Gehry ha così pienamente obbedito alla richiesta che la città di Bilbao aveva rivolto ai progettisti: «Un edificio che sarà maggiore della somma delle sue parti e avrà una identità iconica tanto potente da indurre le persone a visitarlo per se stesso, nel pieno rispetto comunque delle opere che vi saranno esposte».
Il risultato è che il Guggenheim è diventato Bilbao e Bilbao il Guggenheim. Un luogo in costante dialogo con la città e il suo fiume, un edificio dentro lo spaziostoria, un divertito tempio consacrato all’arte degli anni successivi alla Seconda guerra mondiale.
La prima opera -all’ingresso- è la nebbia che si alza dalle acque e che rafforza l’impressione che l’edificio sia una nave in movimento. Si entra poi nell’ampio e lungo spazio che accoglie The Matter of Time di Richard Serra. Potenti e magnifiche strutture geometriche nelle quali si penetra come nell’enigma, nel timore, nella gloria. Pur essendo pura opera spaziale, in essa vive il tempo come esperienza, non il tempo matematico. Un capolavoro bergsoniano.

Tra le altre opere permanenti, i Nine Discourses on Commodus (1963) di Cy Twombly, esempio tra i massimi di espressionismo narrativo, grumi di colore che narrano l’impero e l’assassinio di Commodo. E poi ancora Man from Naples (1982) di Basquiat, Barge (1962) di Robert Rauschenberg e la Marilyn seriale di Andy Warhol.
Tra le numerose mostre temporanee, sino al 15 aprile 2018 è da visitare El Arte y el Espacio, uno splendido esempio di dialogo tra la filosofia di Heidegger -in particolare il suo testo del 1969 Die Kunst und der Raum (l’arte e lo spazio, appunto)- e artisti come: Lucio Fontana con i suoi Concetti spaziali; Robert Gober con il piccolo ready-made Drain: la parte finale del tubo di un lavandino installato in verticale su una parete del museo; Damián Ortega che in Cosa cósmica ha trasformato un Maggiolino Volkswagen in efficace esempio di esplosione di un oggetto nello spazio, un’opera nella quale il vuoto conta dunque quanto il pieno.

Ma è soprattutto lo scultore basco Eduardo Chillida a dialogare con Heidegger. Le sue creazioni intendono infatti essere «las vibraciones de mente, cuerpo y mundo», essere dunque il Dasein, l’unità profonda di sé e di ambiente, di organicità e comprensione, di concettualità ed esistenza.

Questa mostra heideggeriana e l’intero Museo Guggenheim confermano che non esiste un luogo assoluto nel quale si nasce e si impara a vivere. Individui e collettività germinano da precise strutture linguistiche, comportamentali, narrative, urbanistiche, politiche e quindi ermeneutiche. L’ermeneutica non è una disciplina e neppure un metodo, è la struttura stessa in movimento dell’essere, compreso l’essere vivente. La φύσις viene infatti definita da Aristotele ἀρχὴ των κινήσεως καὶ μεταβολῆς, principio del movimento e del cangiare (Phys., Γ 1, 200 b 12). Moto e mutamento che del Guggenheim di Bilbao sono scopo, archetipo, struttura.

Ontologia

The Ontology of Time
Being and Time in the Philosophies of Aristotle, Husserl and Heidegger
di Alexei Chernyakov
Kluwer, Dordrecht, Boston, London 2002
Pagine 234

La rivoluzione copernicana attuata da Heidegger, il passare dalla centralità degli enti a quella dell’essere, ha radici molteplici e antiche. Il debito dell’ontologia heideggeriana nei confronti di Husserl è evidente. Profondo è quello verso Aristotele e Francisco Suarez.
Aristotele ha difeso contro Parmenide la piena realtà del tempo, in particolare nel IV libro della Fisica, dove Corisco che si muove è sempre Corisco e nello stesso tempo Corisco è in luoghi ogni volta diversi; identità e differenza stanno dunque nella realtà del movimento e -insieme- nella mente che lo enumera: «We distinguish between the prior (the before) and the posterior (the after) in movement because we recognize identity in diversity. […] It is only if now Coriscus is at point A, and the same Coriscus is now at point B, and the soul notes (counts) the two ‘now’ and the internal between them, that we recognize movement and what is prior and what is posterior in it» (pp. 69-70). Anche il concetto heideggeriano di Eigentlichkeit (autenticità) sarebbe la traduzione dell’aristotelica εὐπραξία, il miglior modo d’essere di ogni cosa, così come «‘εὐδαιμονία’ is to be translated into the language of the existential analytic of Dasein as ‘authenticity’ (Eigentlichkeit)» (114). Per quanto riguarda Suarez, le sue Disputationes metaphysicae hanno insistito molto sulla dimensione della finitudine umana e di ogni ente.
Il soggetto trascendentale husserliano -e prima ancora kantiano- viene assunto e oltrepassato da qualcosa di assai più completo, caldo, legato al tempo: la Cura. «Curo ergo existo’ determines a new foundation of post-modern ontology; the existentiale of care is the central concept of Heidegger’s existential analytic of Dasein, just as the trascendentale subject is the ultimate ontological fundamentum in modern philosophy since Descartes» (21). Importante è però non confondere il concetto ontologico di Cura con quello ontico di semplice preoccupazione e attenzione quotidiana alla vita. La Cura è certamente anche questo ma non è soltanto questo, poiché essa «is the common root of three constitutive structures of Dasein’s being, existentiality (Existenzialität), facticity (Faktizität) and fallenness (Verfallenheit)» (178). La Cura, in altri termini, «is the primordial articulation of time; it is that from which on time temporalizes itself» (193).

Il contributo più interessante di questo studio ricco e approfondito consiste nel legare temporalità e cura alla differenza ontologica, della quale Heidegger parla per la prima volta già nei corsi marburghesi del 1927, dove discute dei Grundprobleme der Phänomenologie. Da subito il filosofo fa propria la centralità husserliana del tempo, contro tutte le filosofie che sulla scorta dell’eleatismo negano realtà al divenire e ritengono che parole come ‘fu’ e ‘sarà’ siano dei suoni privo di significato e persino pericolosi.
In realtà, lo ‘è’ parmenideo è in se stesso plurale e diveniente. L’ora può essere statico o dinamico. Nunc stans è l’adesso che sta e permane. Nunc fluens è l’accadere degli eventi che di volta in volta sono l’ora. Nunc aeternitatis e Nunc temporis sono tra di loro diversi ma non opposti. L’eternità è infatti l’intero che scaturisce dalla potenza senza fine del divenire. L’Aἰών è la materia qui e ora, pensata tutta insieme, il Χρόνος è tale materia nella forma di un’energia senza requie che si esprime in una molteplicità innumerevole di modi e di forme. La distinzione tra l’adesso che sta e l’adesso che diviene è il nucleo più profondo della differenza ontologica, vale a dire della differenza tra l’essere e gli enti. L’adesso che sta è reale, l’adesso che diviene è reale. Gli enti sono reali, l’essere è reale. Anche questo significa che l’essere è tempo, che «onto-logy is chrono-logy» (11). La comprensione della dinamica essere/enti è la temporalità. È dunque chiaro che la mente che comprende è inseparabile dall’essere come tempo. È la medesima struttura, è lo stesso tempo che nell’umano diventa corpomente e nella materia è l’essere.
La differenza tra questi orizzonti temporali è proprio la differentia differens, la differenza che costruisce se stessa nel mentre diventa altro, che è se stessa nel divenire altro. L’identità/differenza implicita in questa formula è ciò che rende ontologicamente possibile ed epistemologicamente comprensibile sia il permanere di un ente nella varietà radicale delle sue trasformazioni sia il trasformarsi di un ente nella costanza del suo rimanere. 

Dio

aristotele_2La filosofia è per Aristotele conoscenza delle cause, degli elementi, dei principi primi del reale. Il mondo, infatti, è assai complesso e i concetti che cercano di darne conto non sono mai univoci. Anche per questo nella Fisica (trad. di A. Russo e O. Longo, Laterza 1983) lo Stagirita afferma che a dirsi «in molti modi» non è soltanto l’essere (A, 185 a) ma anche l’uno (A, 185 b), il divenire (A, 190 a), le cause (B, 195 a). Agli «antichi» che, «spinti dalla loro inesperienza» (A, 191 a), cercarono un principio o una modalità unica del divenire e dell’essere, Aristotele oppone delle indicazioni metodologiche molto precise. In generale, la sensazione è in grado di apprendere il particolare, il “pensiero” -invece- l’universale (A, 189 a); coniugando dunque sensazione e pensiero Aristotele cerca di costruire una teoria completa e plausibile del cielo, del movimento e del tempo.
«Che la terra sia immobile, valga per ammesso» (De caelo, Ivi, B, 289 b); qui l’empirismo mostra tutta la propria efficacia come anche i suoi limiti. Il constatare con i sensi l’immobilità e la centralità della Terra non rende per questo meno falsa tale concezione; avevano maggior ragione, invece, i Pitagorici con il loro fare “mistico e matematico”, poiché ritenevano «che al centro è posto il fuoco, mentre la terra è uno degli astri, e si muove in circolo attorno al centro, producendo in tal modo la notte e il giorno» (De caelo, B, 293 a).
Tra le due ipotesi alternative della sfericità o piattezza del nostro pianeta, Aristotele opta per la prima: la Terra è «una sfera non molto grande, perché altrimenti non renderebbe così rapidamente visibile il mutamento degli astri, quando noi ci spostiamo di così poco» (De caelo, B, 298 a). Incorruttibile, ingenerato, eterno, il cielo è mosso di moto uniforme (De caelo, B, 289 a), formando con la Terra tutta la materia; la quale è soggetta a trasformazione sul nostro pianeta e che invece nel resto del cosmo è immodificabile perché perfetta. Fuori del cielo non si dà luogo, né vuoto, né tempo.
L’eternità del movimento è gemella dell’eternità del tempo. Una tesi, questa, che separa con chiarezza la prospettiva aristotelica da quella cristiana, in particolare agostiniana, per la quale il divino è fuori dal tempo. Per Aristotele, invece, il divino è il tempo stesso: «Ma se sono impossibili l’esistenza e il pensiero del tempo senza l’istante, e se l’istante è una certa medietà e ha simultaneamente principio e fine -principio del futuro, fine del passato-, è necessario, allora, che ci sia sempre un tempo […] Ma se c’è un tempo, è ovviamente necessario che ci sia anche un movimento, dato che il tempo è un’affezione del movimento» (Θ, 251 b).
Tuttavia non è di solo movimento che il tempo si compone. Aristotele coniuga infatti il tempo della materia con quello della psiche. Lo Stagirita riconosce un’aporia di fondo che fa apparire il tempo come esistente e insieme inesistente poiché «una parte di esso è stata e non è più, una parte sta per essere e non è ancora. E di tali parti si compone sia il tempo nella sua infinità, sia quello che di volta in volta viene da noi assunto. E sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non-enti, possegga un’essenza» (Δ 218 a). Impalpabile e sfuggente, il tempo sembra anche motore della corruzione e della fine (Δ 221 b e 222b) ma soprattutto esso è presente ovunque e «in ogni cosa, sulla terra e nel mare e nel cielo» (Δ 223 a).
Nel mondo oggettivo della quantità, il tempo irrompe con la misura scandita dalla mente:

Si potrebbe, però, dubitare se il tempo esista o meno senza l’esistenza della mente. Infatti, se non si ammette l’esistenza del numerante, è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è o ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto la mente o l’intelletto che è nella mente hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella della mente […]. Ma il prima e il poi esistono in un movimento, e appunto essi, in quanto sono numerabili, costituiscono il tempo. (Δ 223 a)

L’ordine fisico e la razionalità matematica della Natura trovano dunque nel tempo il loro emblema, la realtà più piena, la prova della unità di ogni ente e dimensione. Tempo e movimento, insieme, costituiscono ancora una volta l’eternità. Tale è il cosmo ordinato dei Greci: eterno come il tempo, essendo il tempo Dio.
Oltre che del movimento, il tempo è anche «numero della sfera, perché mediante questo si misurano gli altri movimenti ed il tempo medesimo» (Δ 223 b). Una circolarità che coniuga la mente e l’Universo nell’istante eterno: «Anche questo nome di αἰών si direbbe pronunciato dagli antichi quasi per divina ispirazione: si dice infatti αἰών di ciascuno l’ultimo termine che circoscrive il tempo di ogni singola vita, al di fuori del quale non c’è più nulla secondo natura. Parimenti, anche il termine perfetto di tutto il cielo, che contiene ed abbraccia la totalità del tempo e l’infinità di esso, anche questo si dice αἰών, e prende questo nome da αιει εἶναι [essere sempre], immortale e divino» (De caelo, A, 279 a).
La materia è eterna, il tempo è sempre. Materia e tempo sono Dio.

Immagine / Movimento

GLITCH
Interferenze tra arte e cinema

PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Davide Giannella
Sino al 6 gennaio 2015

di_Martino8A questa mostra si attaglia benissimo la definizione del cinema come «immagine in movimento». L’opera esposta è infatti il cinema stesso, sono i film. Tre luoghi del PAC sono trasformati in sale nelle quali è possibile vedere senza interruzione 64 opere, lunghe e brevi, provenienti da tutti i continenti, permeate di stili diversi ma tutte con l’intenzione di far diventare il cinema ciò che è: invenzione, documentazione, sogno, filosofia.
Solo due esempi: Petite histoire des plateaux abandonnès (Rä di Martino) trasforma in metafisica i set utilizzati per alcuni film e poi abbandonati nel deserto del Marocco. Pura archeologia cinematografica, rovina, tempo.
In Pattini d’argento (Anna Franceschini, Diego Marcon, Federico Chiari) gli esercizi di alcune ragazze sul ghiaccio diventano -per merito del taglio e del montaggio- un’epifania del movimento,
Ai film si alternano sculture, installazioni, fotografie. Le sculture di Rosa Barba fanno muovere pellicole e fotogrammi al ritmo della meditazione. Nell’opera di Virgilio Villoresi, Click-Clack, le immagini sono in movimento meccanico mediante l’utilizzo di tre flipbook motorizzati e dell’ombro cinema. Il Tiberio di Francesco Vezzoli è fatto di lana e ricamo in filo metallico. Paolo Gioli isola e trasforma vari fotogrammi da vecchi film di inizio Novecento.
In alcuni artisti emerge l’inevitabile manierismo del contemporaneo ma l’insieme della mostra costituisce una riuscita ibridazione tra le forme del vedere.
Propongo la visione del film di Rä di Martino: Copies récentes du paysages ancienne / Petite histoire des plateaux abandonnés

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