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«Di che lagrime grondi e di che sangue»

Steve Jobs
di Danny Boyle
Sceneggiatura di Aaron Sorkin
Con: Michael Fassbender (Jobs), Kate Winslet (Joanna Hoffman), Seth Rogen (Steve Wozniak), Jeff Daniels (John Sculley), Michael Sthulbarg (Andy Hertzfeld)
USA, 2015
Trailer del film

steve-jobs-movie-poster.-headerNon è un film su Steve Jobs, tanto meno sulla Apple. Dell’azienda vengono presentati tre soli prodotti e di Jobs i giorni della loro rispettiva presentazione. E basta. È un film sulle lacrime e sul sangue che porta con sé un obiettivo perseguito con tutte le proprie forze, strumenti, debolezze e volontà. Obiettivi ai quali sacrificare ogni altro fine, tempo, persona, relazioni, giustizia, serenità.
Scandito in modo manifestamente teatrale, sino alla ripetizione pressoché identica delle stesse situazioni per tre volte nel tempo, Steve Jobs può essere letto anche come una doppia metafora.
La prima è quella della paternità/maternità, rifiutata da chi si pone obiettivi totali. Come Jeshu-ha-Notzri a chi gli chiedeva chi fossero sua madre e i suoi parenti rispose «chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc., 3, 35), così a chi gli chiese se sapesse chi fosse suo padre, Jobs rispose «sì, mio padre è Macintosh».
La seconda, più ampia, è la metafora del Capitale -del quale la Apple rappresenta un’azienda davvero d’avanguardia nel far sentire i propri acquirenti assai più che clienti- che non si ferma davanti a niente e a nessuno pur di moltiplicare se stesso.
Unendo queste due metafore si può comprendere che la forma Capitale non riconosce nulla al di sopra di sé, strutturandosi come genitrice di se stessa.
Della persona Steve Jobs emerge la componente visionaria, lo sguardo rivolto a ciò che gli altri non vedono, prima ancora che il futuro si dia. Per il resto il film ha giustamente deluso le attese dei fan dell’azienda, che lo trovano noioso e incomprensibile, ad esempio nello spazio spropositato che si dà a Lisa, la figlia di Jobs.
Un’opera dunque sottilmente ironica, sufficientemente straniante, nella quale ciò che conta è il modo della narrazione -la metafora- e non i suoi espliciti contenuti.

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