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Inesorabile

Il sacrificio del cervo sacro
(The Killing of a Sacred Deer)
di Yorgos Lanthimos
Gran Bretagna – USA, 2017
Con: Colin Farrel (Steven Murphy), Barry Keoghan (Martin), Nicole Kidman (Anna Murphy), Raffey Cassidy (Kim Murphy), Sunny Suljic (Bob Murphy), Bill Camp (Matthew Williams), Alicia Silverstone (La madre di Martin)
Trailer del film

Un minuto di buio. Un cuore che pulsa. Chirurghi che operano. Una agiata e serena famiglia composta da medici e dai loro due figli adolescenti. Steven fa il cardiologo e incontra periodicamente Martin, adolescente anche lui e che sembra essergli molto legato. È il figlio di un suo vecchio paziente. Steven lo presenta ai propri familiari. Cominciano ad accadere eventi sempre più drammatici sui corpi dei due figli del medico. Una qualche enigmatica potenza li colpisce. Una potenza che richiede il sacrificio.
Come in Kynodontas la perversione della famiglia, come in The Lobster l’incubo. Come in entrambi la freddezza delle parole, l’impassibilità degli sguardi, l’ordine dei movimenti, con l’unica e significativa eccezione di una scena nella quale il padre reagisce in modo furibondo a ciò che giudica la superstizione della madre. Ma stavolta il Grande Altro non è soltanto l’autorità del Padre o la maestà del Potere. Il Grande Altro è vendetta e giustizia. «Non so se quanto sta accadendo sia giusto. So che è la cosa più vicina alla giustizia che riesca a immaginare».
Forse Martin è la proiezione negli eventi di un inconsapevole senso di colpa di Steven. A conferma che il senso di colpa è una vera e propria maledizione e di quanta ragione abbia Friedrich Nietzsche: «Non rimorso! Bensì compensare il mal fatto con una buona azione!» (Frammenti postumi 1881-1882, in «Opere», V/2, fr. 11 [345], p. 391).
Forse Martin è l’Erinni, che sempre richiede e ottiene vendetta e giustizia. A proposito dei Sette contro Tebe scrivevo che il grido di vittoria, il «δυσκέλαδόν θ᾽ ὕμνον Ἐρινύος» -il dissonante inno dell’Erinni- (verso 867, trad. di Monica Centanni) risuona all’infinito dentro il mito e mostra la forza implacabile degli eventi concatenati gli uni agli altri, dentro più dentro le passioni umane, il cui andare è stabilito dall’ininterrotto divenire dei desideri, delle ambizioni, del gelo e delle follie.
In questo film il mito esplicitamente citato -sin dal titolo- è quello del sacrificio di Ifigenia da parte del padre Agamennone per volontà degli dèi. E dunque Martin è forse il dio crudele, vale a dire il dio.
Ciò che risulta chiaro è che Martin è una potenza sciamanica la quale non ha bisogno di contatti fisici, che agisce da lontano e nella mente. La potenza più grande, quella che invidio agli sciamani che sono capaci di colpire senza esserci.
Di fronte a tutto questo il disperato e ingenuo razionalismo del cardiologo Steven non può che naufragare e arrendersi alle forze che sovrastano il mondo. Forze che qui sono totalmente materiche. Il sangue dal quale tutto comincia e che cala dagli occhi. Lo sperma di cui narra  il padre al figlio Bob e che costituirà il prezzo di una conoscenza. Le mestruazioni di Kim delle quali si parla più volte.
L’attrito tra la fisicità dei contenuti e il formalismo dello stile rende straniante e coinvolgente l’opera.
La quale dimostra tuttavia che anche quando ci si avvicina a loro i Greci rimangono inattingibili, come rimane inattingibile Kubrick, al quale si ispirano i corridoi, i silenzi e le forme ma dalla cui splendente semplicità siamo lontani.
Comune ai Greci, a Kubrick, al greco Lanthimos è invece il riconoscimento di Ἀνάγκη, della sua potenza, dell’Inesorabile alla quale tutto è sottomesso. Al di là di ogni illusione di volontà, di valori e di trame, «in rerum natura nullum datur contingens sed omnia ex necessitate divinæ naturæ determinata sunt ad certo modo existendum et operandum» (Nella natura delle cose nulla si dà di contingente ma tutte sono determinate dalla necessità della divina natura a esistere e ad agire in un certo modo; Spinoza, Ethica, parte I, proposizione 29). In modo inesorabile.

Lager

The Lobster
di Yorgos Lanthimos
Grecia, Gran Bretagna, Irlanda, Paesi Bassi, Francia – 2015
Con: Colin Farrel (David), Rachel Weisz (La donna miope), Aggeliki Popoulia (La donna spietata), Ariane Labed (la cameriera), Léa Seydoux (il capo dei solitari), Olivia Colman (la direttrice dell’albergo), Ashley Jensen (la donna biscotto)
Trailer del film

In un albergo di lusso. Serviti da camerieri inappuntabili. Ottimi pasti, saune, piscine. Splendidi panorami. Può un luogo come questo essere un lager? Sì, può. Perché l’essenza di un lager non è il cibo, le baracche, il freddo -che pure contano, certo- ma è il terrore di un potere implacabile e diffuso. Il potere, in questo caso, che si esercita su chi ha la ventura di rimanere da solo. Che il motivo sia la volontà del soggetto, l’abbandono da parte del compagno/moglie/marito o la sua morte, nessuno può e deve rimanere da solo. In questo albergo gli ospiti hanno 45 giorni di tempo per trovare un altro partner. Se non vi riusciranno, saranno trasformati in un animale a loro scelta. Possono incrementare i giorni loro assegnati catturando dei solitari, gruppi di ribelli che vivono nei boschi e il cui  comportamento è speculare rispetto a quello delle istituzioni. Tra di loro, infatti, nessuno può innamorarsi o accoppiarsi ma deve rimanere da solo e provvedere in solitudine a tutte le proprie esigenze affettive. Per chi trasgredisce le pene sono terribili.
David è stato lasciato dalla moglie e viene ospitato in questo albergo. Nonostante la sua profonda indolenza, tenterà varie strategie per sopravvivere, compresa la fuga con i solitari.

Dogtooth (Kynodontas, 2009) rappresentava la famiglia come luogo claustrofobico e perverso. Qui la distopia riguarda i sentimenti, i legami, il naturale, totale, disperato bisogno che gli umani hanno di vivere con gli altri, di scegliere un proprio simile con il quale condividere l’esistenza. Che questo sentimento diventi obbligatorio o venga proibito, in entrambi i casi le conseguenze sono ipocrisia, menzogna, aridità, disperazione, vuoto. Quando infatti si tratta dei sentimenti umani, ogni carezza può diventare uno schiaffo, ogni tocco una violenza. Se le istituzioni entrano in questa sfera -e lo fanno da sempre- un’etica potenzialmente totalitaria invade i comportamenti e li rende fonte di dolore.
Il mondo grottesco, triste, patetico e feroce descritto da questo film è fondato sulla accentuazione di elementi già presenti nella nostra società. Il Grande Altro, infatti, si impone su ciascun individuo con tutta la forza di un condizionamento sociale ed etico al quale è quasi impossibile sfuggire. Le regole della convivenza istituzionale vanno al di là del codice civile e toccano il cuore delle persone e dei loro desideri. Per regolarli, certo, ma anche e soprattutto per controllarli, poiché il desiderio che da sé si costruisce e in sé si appaga è dirompente per l’ordine individuale e collettivo. Vivere in due o vivere da soli, più che  una scelta consapevole e meditata è in gran parte un dovere introiettato dalla famiglia, dall’ambiente sociale, dallo Stato. Il film trasforma l’imposizione collettiva in norma totalitaria inderogabile ma il controllo, la repressione e il terrore abitano nelle morali eteronome prima che nei codici giuridici.
La struttura formale di Lobster è una delle sue migliori qualità. La tragedia viene raccontata con un distacco quasi totale. La forma è cadenzata e geometrica. Umano, animale e disumano si mescolano come un dato di fatto e non come una stravaganza. Lobster è l’aragosta nella quale David chiede di essere trasformato nel caso non riuscisse a trovare una compagna. La troverà là dove è proibito averla e questa donna sarà miope come lui. Forse non vedere troppo lontano nel futuro del dominio è una delle condizioni per sopportare il presente del potere. Il disincanto di Lanthimos è profondo e tuttavia anche un film come questo è uno sguardo gettato sulla struttura sadica dell’autorità, è una sfida all’accettazione di ciò che si presenta come ineluttabile.

Tutto in famiglia

Dogtooth
(Kynodontas)
di Yorgos Lanthimos
Grecia 2009
Con: Christos Stergioglou (il padre), Michelle Valley (la madre), Aggeliki Papoulia (la figlia maggiore), Mary Tsoni (la figlia minore), Hristos Passalis (il figlio), Anna Kalaitzidou (Christina)
Trailer del film

Due sorelle, un fratello, i genitori. Una villa isolata, circondata da un muro. I tre figli non ne sono mai usciti. Padre e madre hanno insegnato loro tutto. Hanno insegnato quanto pericoloso sia il mondo che sta fuori e la sicurezza, invece, della propria casa. Hanno insegnato che i gatti sono animali terribili che divorano i bambini, che gli aerei cadono nel giardino, che il pube si chiama tastiera, che la parola fica vuol dire “grande lampada” e che “mare” indica una poltrona. Hanno insegnato che un ragazzo può comunque lasciare la casa quando perde uno dei canini, “destro o sinistro che sia, non importa quale”. E molto altro ancora hanno insegnato, soprattutto a competere duramente fra loro tre. Ogni tanto arriva una donna che soddisfa le esigenze sessuali del figlio, sino a quando tradisce la fiducia dei genitori che la sostituiranno con una delle sorelle. Ma la volontà di conoscere, liberi, il mondo sembra che non possa essere cancellata neppure da questo orrore travestito da agiata serenità familiare.

La scena chiave del film non accade dentro la villa. Consiste nel dialogo tra il padre e un allevatore di cani che gli spiega come la sua azienda sia capace di addestrare un animale secondo i desideri del suo padrone: servizievole, aggressivo, giocherellone, solitario. Come lo vuole lui. È il sogno di questi genitori comportamentisti, i quali programmano a tavolino -come Rousseau e come Watson- ciò che i loro figli dovranno essere: «Datemi una dozzina di neonati di sana e robusta costituzione fisica e lasciate che li tiri su in un ambiente scelto da me e garantisco che di qualunque di loro potrò fare qualunque cosa: medico, avvocato, artista, capovendite, e, sì, persino straccione o ladro, indipendentemente dalle sue capacità, tendenze, inclinazioni, abilità, vocazioni, e dalla razza dei suoi antenati» (J.B.Watson, Behaviorism, Norton 1930, p. 104).
Il coacervo di proiezioni del non essere dei genitori nell’essere dei figli è uno degli elementi che rendono la famiglia un’istituzione emotivamente insostenibile. Come Teorema di Pasolini e Gruppo di famiglia in un interno di Visconti ma in modo assai diverso da entrambi, lo stile iperrealista e raffinato, asciutto e insieme grottesco di questo bellissimo film restituisce per intero la claustrofobica perversione dell’amore familiare.

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