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Dicitencello

Alan Sorrenti
Dicitencello Vuje
(1974)
da «The Prog Years Box» (2018)

Le arti sono anche contaminazione e ibridazione, sono costituite dall’insieme di varianti che a partire da un testo riprendono, riscrivono, riformulano e ricreano l’opera nel corso del tempo, a volte dei millenni. E spesso accade che quanto più lontana sia la rilettura e ricomposizione, tanto più essa sembra rimanere fedele all’opera originaria, regalandole freschezza e profondità.
Dicitencello Vuje è una delle più celebri canzoni d’amore in napoletano. Composta nel 1930 da Enzo Fusco (testo) e Rodolfo Falvo (musica) è stata eseguita da molti artisti. Ma chi l’ha proprio ricreata è Alan Sorrenti, nel 1974. Un Sorrenti che veniva dalla ricca esperienza del cosiddetto rock progressivo, un ambito della musica rock che rappresenta il vertice sperimentale e qualitativo di quell’arte.
Dicintencello diventa quindi un’occasione per sonorità tese, per vocalizzi estremi che confermano il talento naturale di Alan Sorrenti, diventa una sorta di percorso nei meandri labirintici e solitari del sentimento amoroso.

Il capolavoro di Sorrenti è Aria del 1972, un brano di venti minuti nel quale la voce e le sue modalità diventano davvero l’elemento nel quale siamo immersi: SpotifyYouTube

Dicintencello Vuje è anche una sintesi di quell’opera quasi sinfonica: SpotifyYouTube


Testo e traduzione
(Fonte)

Dicitencello
a ‘sta cumpagna vosta
ch’aggio perduto ‘o suonno
e ‘a fantasia.
Ch’ ‘a penzo sempe,
ch’ è tutt”a vita mia.
I’ nce ‘o vvulesse dicere,
ma nun ce ‘o ssaccio dì­.
‘A voglio bene
‘A voglio bene assaje.
Dicitencello vuje
ca nun mm’ ‘a scordo maje.
E’ na passione
cchiù forte ‘e na catena,
ca mme turmenta ll’anema
e nun mme fa campà.
Dicitencello
ch’ è na rosa ‘e maggio,
ch’ è assaje cchiù bella
‘e na jurnata ‘e sole.
Da ‘a vocca soja,
cchiù fresca d”e vviole,
i già vulesse sèntere
ch’è ‘nnammurata ‘e me.
‘A voglio bene.
‘A voglio bene assaje.
Dicitencello vuje
ca nun mm’ ‘a scordo maje.
È na passione
cchiù forte ‘e na catena,
ca mme turmenta ll’anema
e nun mme fa campà.
Na lacrema lucente
v’è caduta,
dice­teme nu poco:
a che penzate?
Cu st’ uocchie doce,
vuje sola mme guardate.
Levammoce ‘sta maschera,
dicimmo ‘a verità.
Te voglio bene.
Te voglio bene assaje.
Si’ tu chesta catena
ca nun se spezza maje.
Suonno gentile,
suspiro mio carnale,
te cerco comm ‘a ll’aria,
te voglio pe’ campà.
Te voglio pe’ campà!

Diteglielo
a questa vostra amica
che ho perduto il sonno
e la fantasia.
Che la penso sempre,
che è tutta la mia vita.
Io glielo vorrei dire,
ma non glielo so dire.
Le voglio bene.
Le voglio bene assai.
Diteglielo voi
che non la dimentico mai.
È una passione,
più forte di una catena,
che mi tormenta l’anima
e non mi fa vivere.
Diteglielo
che è una rosa di maggio,
che è molto più bella
di una giornata di sole.
Dalla sua bocca,
più fresca delle viole,
io già vorrei udire
che è innamorata di me.
Le voglio bene.
Le voglio bene assai.
Diteglielo voi
che non la dimentico mai.
È una passione,
più forte di una catena,
che mi tormenta l’anima
e non mi fa vivere.
Una lacrima lucente
vi è caduta,
ditemi un poco:
a cosa pensate?
Con questi occhi dolci,
voi solo mi guardate.
Togliamoci questa maschera,
diciamo la verità.
Ti voglio bene.
Ti voglio bene assai.
Sei tu questa catena
che non si spezza mai.
Sogno gentile,
sospiro mio carnale,
ti cerco come l’aria,
ti voglio per vivere.
Ti voglio per vivere!

Sulla Cina

Henri Cartier-Bresson
Cina 1948-49 / 1958

Museo delle Culture (Mudec) – Milano
Sino al 3 luglio 2022

In Cina nel 1948 l’esercito e il governo nazionalisti si dissolvono e l’esercito comunista occupa Pechino, le altre grandi città, le campagne. Tutto sembra crollare in pochi giorni. La moneta torna a diventare la carta che è. Le persone si accalcano davanti alle banche sperando di trasformare quella carta in oro reale. La fame riappare ma la vita quotidiana in qualche modo continua. Il passato millenario si trova di fronte alla durezza del presente e all’incertezza del futuro. Nei templi continua a vivere indistruttibile il sacro, mescolato alle superstizioni, alla fede. Il tifone che colpisce Shangai a fine luglio 1949 ricorda a tutti che il tempo non è soltanto storia umana ma è anche materia e cielo che continuano indifferenti a essere ciò che da milioni di anni sono.
Cartier-Bresson osserva e fotografa tutto questo con una grande oggettività dello sguardo unita a una profonda pietà.
Oggettività, pietà e curiosità che esercita dieci anni dopo, quando torna in Cina per documentare la nuova vita, il nuovo potere, le nuove fedi che muovono quel Paese immenso. E vede volontari che costruiscono una diga con l’ebbrezza dell’essere massa, di un progetto e di un fare che somigliano a quelli di un formicaio. Vede parate e manifestazioni celebrative con giovani che danzano, saltellano, sorridono. In ogni caso una festa, qualunque ne sia stato e ne sarà il prezzo. Vede il paesaggio sconfinato e i manufatti millenari che lo abitano, per i quali la storia umana rimane in ogni caso una piccola parte della vera storia, quella degli elementi.
Storia che per Cartier-Bresson è inseparabile dalla geometria dello sguardo, dalla capacità del suo occhio e della sua macchina fotografica di inserire i corpi viventi e i loro movimenti dentro le strutture formali che i corpi attraversano e con i quali si armonizzano. Per lui sono queste e soltanto queste le immagini che valgono, che sceglie, che vuole. Immagini nelle quali l’elemento umano, quello architettonico/spaziale e quello naturale convivono sino a diventare una cosa sola.
Tutto ciò conferma la natura ermeneutica della fotografia. L’artista lo afferma apertamente: a contare non sono i fatti ma il punto di vista che li coglie, l’interpretazione che se ne dà. Tra i due viaggi in Cina, nel 1952, scrisse infatti questo: «Per me la fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento e di una precisa organizzazione di forme che danno a quell’evento la sua giusta espressione» (Images à la sauvette, Verve).
L’imprendibilità della storia è colta tramite l’invenzione geometrica dell’istante, del tempo.
Che cosa è la Cina adesso? Che cosa è diventata la Cina rivoluzionaria e dispotica fotografata da Cartier-Bresson? Che cosa potrà diventare? Lo racconta e lo spiega bene Simone Pieranni, parlando di WeChat, l’analogo cinese di Facebook ma ancora più pervasivo, se possibile. E sembra possibile. Leggete questo breve articolo, assai istruttivo: Cos’è WeChat? (17.6.2022). Leggetelo alla luce di un’affermazione che nel testo di Pieranni non c’è e che sembra entrarci poco e invece a me sembra centrale: l’Europa che sta morendo perché diventata colonia della potenza anglosassone sarà pronta -al momento opportuno- a diventare colonia della Cina. Perché in entrambi i casi non c’è e non ci sarà più la filosofia greca a difenderne le libertà. 

 

Interpretans

Giovedì 7.6.2018 alle 15,15 terrò una relazione nell’ambito della «Giornata dei Dottorati Italiani di Scienze del Testo e dell’Interpretazione». L’evento ha per argomento Leggere, tradurre, pensare e si svolgerà il 7 e l’8 giugno nell’Auditorium del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict.
Il titolo della mia relazione è Animal Interpretans.

Il cuore dell’ermeneutica è costituito dal gioco tra il dato e il significato. Pervasività, varietà e universalità del segno sono state da sempre oggetto del discorso filosofico. Il segno significa in un tessuto di relazioni e regole combinatorie inserite in un mondo più ampio di azioni ed eventi.
Heidegger e Gadamer hanno trasformato l’ermeneutica da metodica delle scienze dello spirito a ontologia. Un’ontologia che affonda nella temporalità; nell’insieme di rimandi fra il passato della tradizione e il presente della comprensione; nella Wirkungsgeschichte, la «storia degli effetti» che l’opera ha generato e nella quale consiste il suo significato più pieno; nella Horizontverschmelzung, la «fusione di orizzonti» che accade sia fra gli interlocutori del dialogo sia tra loro e il testo che proviene dal passato e parla nell’adesso.
L’essere degli umani è sempre storico, temporale, linguistico. Il che equivale a dire che l’essere degli umani è costitutivamente ermeneutico.

ἐν Δελφοῖς

La morte della Pizia
di Friedrich Dürrenmatt
(Die Sterben der Pythia, 1976)
Trad. di Renata Colorni
Adelphi, 1988
Pagine 68

Ai filosofi neorealisti

Giunta alla fine dei suoi giorni, Pannychis XI -sacerdotessa a Delphi- ripercorre la propria vita, intessuta di fantasie, imposture, assurdità. Ha di fronte a sé le inquietanti ombre di una sanguinosa vicenda che ebbe origine da una improbabile risposta da lei data in una sera di stanchezza e di noia, durante la quale «stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci […] ascoltò le domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori, come se fosse facile stabilire una cosa del genere nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti, i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giaciuto con loro» (p. 9).
Per toglierselo di torno profetizzò a Edipo che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. E tuttavia quell’oracolo per lei insensato sarebbe diventato realtà. Ascoltando le voci diverse e convergenti di Meneceo, Laio, Giocasta, Edipo, Tiresia, della Sfinge, la Pizia si trova dentro un confine dove è diventato impossibile stabilire che cosa siano i fatti e che cosa le interpretazioni. In un sapiente e vorticoso gioco di incastri, Dürrenmatt moltiplica le versioni del medesimo evento e le dissemina in un variare di intrecci che costituisce l’essenza della verità, l’arcano della decifrazione, il potere del taciuto. La realtà «non smetterà di cambiare faccia se noi continueremo a indagare» poiché «la verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta» (64).
Dürrenmatt lotta con la razionalità e con il caos, con il potere e con la libertà, con le fedi e con la salvezza. E ne distilla metafisica: «Tutto è connesso con tutto. Dovunque si cambi qualcosa, il cambiamento riguarda il tutto» (48). Ignoriamo, per nostra fortuna, l’esito degli eventi prima che gli eventi accadano. Ed è «solo la non conoscenza del futuro [che] ci rende sopportabile il presente» (41). Perché la conoscenza ultima è la morte. Il dono più grande che Prometeo ha fatto agli umani consiste nell’ignoranza del giorno in cui moriremo: «Prometeo: Gli uomini avevano davanti agli occhi il giorno della loro morte e io li ho liberati. Coro: Quale medicina hai trovato per questo male? Prometeo: Li ho colmati di speranze: così si illudono senza vedere quello che li aspetta. Coro: Con questo dono li hai davvero aiutati» (Eschilo, Prometeo, vv. 248-253, trad. di Davide Susanetti).
La beffarda intelligenza di Dürrenmatt restituisce la forza dell’enigma e giunge alla eterogenesi di un racconto che vorrebbe dissolvere il mito e ne testimonia invece in ogni riga la potenza. «Come sempre in effetti la verità è atroce» (33). Guardare a fondo tale verità e non tremare, anche questo è la filosofia.
«ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει»
(‘Il signore, il cui oracolo è a Delphi, non dice e non nasconde ma fa segno’, Eraclito, fr. B 93)

Enciclopedia

Aa. Vv.
Enciclopedia Einaudi
Volume 15 – SISTEMATICA
Einaudi, 1982
Pagine XXIII – 1146

«Il libro conservò a lungo, genericamente, un carattere magico» (J. Le Goff, Sacro/profano, p. 558).  E tale carattere continua a possedere, se magia significa anche vedere l’invisibile attraverso dei segni impressi sulla carta o altrove. Una magia che l’Enciclopedia Einaudi ha rinnovato creando tra gli anni Settanta e Ottanta un’opera da leggere e non soltanto da consultare, nonostante il suo impianto alfabetico e sistematico. Non nel senso di un sistema del sapere che immobilizza il fluire della conoscenza ma di una sistematica che si propone e tenta di fare da guida dentro il labirinto di ciò che ignoriamo, attraverso la guida di quello che sappiamo.
Una conoscenza quindi antica e rinnovata. Antica perché dialettica, anche nel senso platonico di «analisi dei concetti e delle loro relazioni» (D. Marconi, Dialettica, 174); rinnovata perché questa Enciclopedia ha inventato e prefigurato la Rete digitale prima ancora che essa vedesse la luce. Il volume dedicato alla Sistematica ben lo dimostra con i suoi continui rimandi interni, veri e propri link contenuti in due grandi sezioni: Sistematica locale e Ricoprimenti tematici.
L’Enciclopedia mostra anche quanto superficiale sia diventato l’approccio al sapere negli ultimi decenni, che hanno visto il riemergere mediatico di un realismo tanto plausibile quanto banale, che sembra ignorare secoli di complessità. Perché è certamente vero che la realtà materica è indipendente da chiunque la osservi ma filosofia è anche ed esattamente indagare il modo nel quale individui e culture guardano, intendono, interpretano e dunque vivono. Un esempio soltanto, riferito a una delle tesi più importanti di Peirce: «Un segno (un significante, una espressione) può essere interpretato solo da altri segni, ma non una volta per tutte, bensì all’infinito -una idea che può essere rintracciata in Abelardo e persino in Aristotele, dove continuamente si sospetta che la definizione possa non essere una e una sola» (U. Eco, Segno, 571-572).
I segni si stratificano nella memoria, negli enti, negli eventi. E in tal modo l’esistere umano diventa ciò che è perché diventa tempo, diventa un «mettersi in rapporto, sempre restando nel presente, con il passato, a seconda dei casi, esclusivamente con il proprio, con quello della specie, con quello degli altri individui» (K. Pomian, Memoria, 389). Sul fondamento di tale memoria, l’esistere dà senso al presente e apre al futuro individuale e collettivo. «Materiale fondamentale della storia è il tempo» (J. Le Goff, Storia, 629). il quale intesse i corpi, il loro agire, i loro ricordi e l’essere stesso di tutte le cose. Il tempo, questo «oggetto paradossale che è contemporaneamente invisibile e misurabile, e che si incomincia con il riconnettere ad altri oggetti invisibili» (K. Pomian, Tempo/temporalità, 654). L’interazione senza sosta dei moti visibili della materia e dei moti invisibili della mente produce una stratificazione la quale costruisce «un’architettura temporale che non è solo una creazione della ragione, perché è incorporata nelle azioni umane, nelle istituzioni sociali, negli strumenti e nelle tecniche; essa pertanto s’impone a ogni individuo come un dato su cui egli può influire molto poco. Quest’architettura temporale, prodotto dell’interazione tra l’uomo e l’ambiente, è insieme ‘soggettiva’ e ‘oggettiva’ o, più precisamente, dipende dalle caratteristiche biologiche e storiche dell’uomo come pure da quelle proprie delle cose» (Ivi, 655).
L’approfondirsi e l’intrecciarsi delle questioni antropologiche, mentalistiche, fisiche, cosmologiche, va dimostrando con sempre maggiore forza che fare a meno del tempo nella comprensione del mondo è cosa del tutto illusoria. Simmetrie e squilibri, cicli e irreversibilità, costituiscono insieme l’essere e il divenire di tutte le cose. «È infatti la temporalità a consentire, al contrario di una unilaterale ed esclusiva spazialità, di scorgere l’unità profonda pur sempre dall’interno del campo qui delineato, di fenomeni apparentemente eterogenei e di chiarire, senza dissolverlo, il loro specifico paradosso» (E. Garroni, I  paradossi dell’esperienza, 895).

Pur nell’impianto illuministico -dal quale nessuna pensabile enciclopedia può uscire- l’Enciclopedia Einaudi riconosce la presenza e la potenza dell’irrazionale dal quale sgorga anche ciò che chiamiamo ragione: «Nozione di razionalità, intesa come un tipo di conoscenza che presenta i caratteri dell’universalità, della necessità e dell’obiettività: i suoi contenuti sono cioè comprensibili, almeno in linea di principio, da tutti gli uomini, sono vincolanti in virtù della loro stessa intelligibilità e presumono di svelare aspetti della realtà naturale e umana. La conoscenza razionale della realtà è, infatti, solo una delle componenti della cultura occidentale, anche se per certi aspetti ne è la componente caratteristica; essa ha sempre dovuto, oggi come nel periodo delle origini, cimentarsi e confrontarsi con le concomitanti esigenze rappresentate dalla conoscenza empirica e dalla conoscenza religiosa; sempre risorgenti e mai sopite o controllate in modo totale. Si spiega così come la conoscenza razionale non sia mai stata un dato acquisito una volta per sempre. […] E si spiega anche come nella civiltà greca sia esistita, e sia rimasta in modo concomitante e parallelo alla conoscenza razionale, la dimensione irrazionale della conoscenza. Le radici del razionalismo e dell’irrazionalismo occidentale ed europeo emergono da un medesimo humus culturale. […] La peculiarità che la cultura occidentale manifesta fin dall’inizio, quella di essere profondamente divisa e dilacerata; questo fatto, lungi dall’essere un elemento di debolezza, è la ragione principale della sua straordinaria fecondità ed efficacia» (G. Micheli, Natura, 436).
Va dunque superata anche la contrapposizione tra Mythos e Logos, va oltrepassata la dualità «tra una psiche fondamentalmente razionale e un corpo sostanzialmente carico di desideri contingenti, di emozioni labili, di bisogni caduchi e marcescibili» (G. Trentini, Soma/psiche, 602), come vanno superati altri dualismi, in modo da comprendere che ciò che chiamiamo essere, realtà, mondo, è un insieme complesso, stratificato e molteplice di differenze che vivono nella identità di un comune fondamento.

Fatti / Interpretazioni

Mente & cervello 108 – dicembre 2013

M&C_108Provate a guardare con attenzione la copertina qui a sinistra del numero 108 di Mente & cervello. Che cosa notate? Lo scaffale di un supermercato. Certamente. Guardate  meglio e troverete dell’altro.
In filosofia esiste un segnale quasi sempre efficace per individuare la stanchezza teoretica o la subordinazione della filosofia stessa a esigenze esterne. Questo segnale è l’approccio ingenuo che presume di poter indagare una realtà assoluta. Il realismo insomma. Basta, infatti, tener conto della grande complessità del corpomente e delle sue relazioni con la materia nella quale è immerso e in cui consiste per rendersi facilmente conto che «quello che vediamo non è un’immagine fedele della realtà, ma la ricomposizione eseguita dal cervello di molti dettagli colti dagli occhi in rapida successione. E il modo in cui il cervello crea la realtà […] è fonte di innumerevoli inganni, o per lo meno di clamorosi errori di interpretazione» (M. Cattaneo, p. 3). Il corpomente non è una videocamera che registra qualcosa a essa esterno ma costituisce piuttosto una lampada che fa essere la strada mentre la illumina percorrendola. Ecco perché da scienziati e quindi anche da filosofi si può sostenere -come fa Cattaneo citando Enrico Bellone, entrambi fisici di chiara impronta scientista- che quanto definiamo realtà è una materia grezza plasmata dalla nostra percezione e ordinata dalla nostra attività cerebrale. Si può dunque concludere con serena razionalità che fatti e interpretazioni sono tra di loro inestricabili e dalla loro convergenza deriva la complessità -e anche l’interesse- del mondo. Se, infatti, «vedessimo effettivamente ciò che incamerano i nostri occhi, il mondo sarebbe un luogo confuso», che diventa ordinato perché quella umana «è una specie di cercatori visivi, costantemente a caccia di novità, di bellezza, di compagnia, di cibo e di significato» (M.C. Hout e S.D. Goldinger, 26 e 31); un elenco che mi sembra sintetizzi bene gran parte di ciò che siamo: dispositivi semantici.
Lo dimostra anche la memoria, che è sempre dinamica, cangiante, creativa, ermeneutica per l’appunto. Lo studio delle strutture mnemoniche del cervellomente è tra gli ambiti più aperti e più difficili, nel quale le interpretazioni sono diverse e interessanti. Una di esse sostiene che «nel tempo, l’ippocampo insegnerebbe come rappresentare un ricordo alle parti circostanti del cervello: la corteccia. Quando il ricordo è maturo, l’ippocampo lo scaccia, ed esso va a risiedere nella corteccia. […] Una teoria alternativa spiega queste discrepanze proponendo che l’ippocampo immagazzini selettivamente un certo tipo di memoria -quella ‘episodica’- mentre la corteccia circostante ne immagazzinerebbe un’altra, quella ‘semantica’» (E. Reas, 102). Quando si torna a un certo ricordo esso viene trasformato, ricontestualizzato, ancora una volta interpretato. E questo è una conferma della dimensione e della funzione costruzionista, e non semplicemente rappresentativa, della vita mentale.
Una struttura così complessa non può funzionare sempre alla perfezione. Bizzarrie, errori, eccessi e tristezze sono parte ineliminabile e sana della vita. E invece la convergenza di interessi tra le case farmaceutiche e la pretesa egemonica della psichiatria sta medicalizzando la vita. L’ho scritto anche qui più volte ma adesso è uno degli stessi autori del Manuale Diagnostico Statistico -lo psichiatra Allen Frances- a denunciare tale gravissimo andazzo. Si assiste a una vera e propria «epidemia di autismo o di disturbo bipolare infantile, o nuove malattie inventate di sana pianta. La normale timidezza può essere ‘fobia sociale’, la tristezza che segue un lutto diventa depressione clinica» (M. Capocci recensendo Frances, 105)  e così via medicalizzando, prescrivendo farmaci e terapie, arricchendo gli innumerevoli avvoltoi che pretendono ci sia un solo modo di vivere una condizione mentale che dichiarano assoluta, mentre si tratta anche in questo caso e in gran parte di interpretazioni. Lo dimostra la diversa reazione che si può avere di fronte agli stessi eventi: «Chi non rumina e non si rimprovera per le difficoltà che deve fronteggiare presenta minori livelli di ansia e va meno incontro alla depressione, anche quando nella sua vita si sono verificati eventi negativi» (A. Oliviero, 18). Nei termini come di consueto chiarissimi di Schopenhauer: «Il mondo in cui un uomo vive dipende anzitutto dal suo modo di concepirlo. […] Quando ad esempio degli uomini invidiano altri per gli avvenimenti interessanti in cui si è imbattuta la loro vita, dovrebbero piuttosto invidiarli per la dote interpretativa che ha riempito siffatte vicende del significato, quale si rivela attraverso la loro descrizione» (Parerga e Paralipomena, tomo I, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, p. 426). È in questa direzione semantica, prima che ermeneutica, che il mondo è un’interpretazione.

 

Realtà / Simulacro

Quanti pensano che si dia una realtà del tutto autonoma dalla semantica e dalla comunicazione non comprendono che il virtuale e lo spettacolare delle società contemporanee costituiscono  «il capitale a un tale grado di accumulazione da diventare immagine» (Guy Debord, La société du spectacle, Gallimard, 1992 [1967], § 34). Per parafrasare Horkheimer e Adorno, la terra tutta virtuale splende all’insegna di sventurata realtà. La vita è diventata riproduzione di figure dietro e dentro le quali non si dà nulla se non la perpetuazione del dominio di chi possiede gli strumenti della rappresentazione rispetto a chi non li detiene. Perché «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediatizzato da immagini»; soggetti ed eventi che non si fanno spettacolo è come se non esistessero, e questo fa sì che lo spettacolo non sia «un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo della società reale» (Ivi, §§ 4 e 6). La fine dell’illusione produce un mondo di immagini nel quale non c’è niente da vedere, un mondo di informazioni in cui non c’è nulla da sapere.

È rimuovendo la realtà/simulacro che diventa possibile comprendere la potenza della realtà materiale e semantica dentro la quale si dà l’accadere. Se la regola dello scambio è di restituire sempre più di quanto si è ricevuto, allora rendere il mondo un po’ più libero significa anche renderlo più inintelligibile di quanto non ci sia stato dato; significa sostituire alla realtà della comunicazione servile l’irrealtà di progetti che esistono tra il già e il non ancora; significa fare dell’interpretazione un luogo di invenzione trasformatrice che dissolva la realtà; significa, in un parola, non rassegnarsi. In questo modo il costruzionismo e l’ermeneutica mostrano la propria natura libertaria e più anarchica di qualunque ideologia realista, progressista e politicamente corretta, il cui umanitarismo è l’evidente gemello dell’oppressione, la cui volontà di delicatezza nasconde a stento la ferocia della realtà: «Ogni destino negativo dev’essere ripulito da un trucco ancora più osceno di quel che vuole nascondere», in modo da legittimare nella propria compiaciuta tranquillità interiore «tutti coloro che fanno abbronzare la loro coscienza tranquilla al sole della solidarietà» (Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà, Raffaello Cortina Editore 1996 [1995], pp. 143 e 137). È anche su questi ex rivoluzionari, che hanno barattato le loro giovinezze radicali con la solidarietà caritatevole dei clericali di ogni chiesa, che il potere fa affidamento e gongola tranquillo.

Lo spettacolo si rivela come una forma economica che «non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni» (La société du spectacle, § 66), una forma nella quale non troviamo ciò che desideriamo ma desideriamo ciò che ci inducono ad acquistare. Condizionati sin nell’intimo del loro pensare, inconsapevoli d’essere condizionati, vaganti tra illusioni, luccichii e menzogne, gli spettatori/consumatori sono il soggetto politico amorfo e passivo che Debord definisce con estrema chiarezza: si tratta di «morti che credono di votare» (Opere cinematografiche, Bompiani, 2004, p. 135), una morte che è consustanziale alle immagini che sopravvivono assai più a lungo di ciò che rappresentano. Ed è anche per questo che «lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente» (La société du spectacle, § 2). In questa società di zombie la democrazia è un simulacro. Il suffragio universale è diventato «il primo dei mass-media» in cui «propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo marketing e merchandising di oggetti o di idee-forza», nel quale le differenze tra programmi e progetti si annullano mediante la distribuzione statistica del 50% per ogni coalizione, tanto che «il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie. A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia –bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore» (Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, 2007 [1976], pp. 77 e 81). Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media» (Ivi, p. 79). Coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici mentre –a livello di economia universale- il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata» (Ivi, p. 35). È esattamente quanto sta accadendo -anche con l’euro- negli anni Dieci del XXI secolo.

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