Skip to content


Decadenze

La nostra è una civiltà che dall’evo moderno, in particolare dall’affermazione dell’etica calvinista, ha sacralizzato il lavoro, che invece è una esigenza data dai limiti del vivente.

Alla vista del lavoro -e con ciò si intende sempre quella faticosa operosità che dura dal mattino alla sera- si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. […] Così una società in cui di continuo si lavora duramente, avrà maggior sicurezza: e si adora oggi la sicurezza come la divinità somma.

(Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, trad. di F. Masini, Adelphi 1964, § 173, pp. 126-127).
Un’etica del successo/guadagno che si sta capovolgendo nella privazione del lavoro – e quindi dei mezzi necessari alla sopravvivenza – per gli umani, sostituiti sempre più da macchine, robot, algoritmi.
Una civiltà che ha dimenticato, e direi proprio smarrito, le differenze nella melassa della globalizzazione che tende a cancellare «l’aspirazione e la decisa volontà dei popoli di affermare e conservare la loro principale ricchezza, incarnata nella rispettiva specificità» (M. Tarchi, Diorama Letterario 363, settembre/ottobre 2021, p. 2).
Una civiltà, intrisa appunto di «un calvinismo puritano ossessionato dalla purezza morale e dall’espiazione illimitata» (A. de Benoist, ivi, p. 10), dove la colpa va diventando l’essere bianchi e quindi per definizione sterminatori, l’essere maschi e quindi per definizione stupratori. In realtà è l’universalismo  negatore delle differenze a favorire l’imperialismo sterminatore degli umani e delle loro varietà. Non è un caso che l’Inghilterra, da dove iniziò il dominio storico del calvinismo anglosassone, abbia nel corso dei secoli «aggredito, invaso, occupato 173 dei 193 attuali Stati membri delle Nazioni Unite» (E. Zarelli, ivi, p. 24). L’universalismo/globalismo tende a cancellare le identità, le differenze, le culture, i costumi e i riti che «trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo curano» (Zarelli, p. 38).
Prendersi cura del tempo che si è significa riconoscerne ogni giorno e sempre la potenza e quindi avere qualche strumento in più per comprendere e accogliere la finitudine che siamo senza cadere in un fanatismo securitario che è destinato al fallimento poiché, semplicemente, tutto ciò che è nato è destinato a perire. Discutendo del volume di Simone Regazzoni La palestra di Platone (Ponte alle Grazie, 2020), Davide D’Intino ricorda quanto distante sia la civiltà greca -e in generale antica- dal timore e tremore contemporaneo, dalla

indecorosa risposta offerta sul piano antropologico alla vicenda epidemica da una società ormai incapace di rapportarsi alle idee stesse del dolore e della morte, disallenata a combattere e quindi a reagire senza farsi fagocitare dal panico, misurandosi con uno dei suoi naturali attributi: la componente rischio. Secoli di mortificazione della corporeità, derubricata irresponsabilmente al rango di peccaminosità, non potevano che dar corpo, nel perfetto compiersi di una eterogenesi dei fini, ad un individuo  introflesso nel solipsismo più deteriore, così inerte da accettare senza neppure un sussulto di ribellione la caduta della sua esistenza dalla condizione del vivere a quella del vegetare, talmente ossessionato dalla propria salute da rinchiudersi in casa sprofondando nella sedentarietà, aduso alle salubri prelibatezze dell’industria alimentare e pago di farne incetta trascorrendo le proprie giornate alienandosi davanti ad uno schermo (ivi, p. 36).

Una civiltà stanca, in fondo, della vita. Lo si sta vedendo ogni giorno, tutti i giorni.

Schmitt, die Zeit in das Spiel

Carl Schmitt
Amleto o Ecuba
L’irrompere del tempo nel gioco del dramma
(Hamlet oder Hecuba. Der Einbruch der Zeit in das Spiel, Eugen Diederichs Verlag, 1956)
Trad. di Simona Forti
Presentazione di Carlo Galli
il Mulino,  2012
Pagine 132

Carl Schmitt chiama Zeit la Historie, la realtà storica che irrompe dentro l’opera artistica, la produce, la trasforma, la segna. Uno dei numerosi elementi soggettivistici e idealistici dell’estetica moderna consiste nella rimozione di questo sostrato e senso storico, a favore della esclusiva fantasia e creatività personale dell’autore. E invece l’ermeneutica schmittiana -assai diversa da quella di Gadamer- intende far parlare il testo scritto, la lingua del suo autore determinata dal mondo da cui quella lingua parla e non soltanto dal modo in cui lo fa.
Hamlet è uno degli esempi più complessi e riusciti di questa irruzione del dramma storico nel dramma estetico. Della regina Gertrude non si arriva a sapere se fosse a conoscenza dell’intenzione di uccidere suo marito da parte del cognato Claudio o se fosse addirittura sua complice. A questa incertezza il figlio Amleto risponde con un singolare atteggiamento di vendicatore dubbioso, il quale -allontanandosi di molto dalla tradizione tragica greca (Oreste) e dalle saghe nordiche (l’Amleto scandinavo)- non uccide la madre né si allea con essa contro Claudio.
Come si spiegano questi due fattori? Quali sono le motivazioni e il significato del tabù della madre e della amletizzazione del vendicatore? La risposta di Schmitt è nella Zeit, nella storia. Il tabù «ha a che fare con la regina di Scozia, Maria Stuarda. Suo marito, Henry Lord Darnley, il padre di Giacomo, fu atrocemente assassinato dal conte di Bothwell nel febbraio 1566. Nel maggio dello stesso anno Maria Stuarda sposava proprio questo conte di Bothwell, l’assassino del marito» (p. 53). Il figlio di Maria, Giacomo, dovette collaborare con la regina Elisabetta -responsabile dell’uccisione di sua madre- per poter diventare a sua volta il successore di lei sul trono d’Inghilterra. E dunque davanti agli occhi di Shakespeare «stava, nella sua esistenza concreta, un re che nel suo destino e nel suo carattere era egli stesso il prodotto della lacerazione della sua epoca» (67-68).

L’argomento si fonda anche sulla circostanza che le opere teatrali rinascimentali -e quelle di Shakespeare in particolare- non vengono concepite per i posteri o per la stampa, bensì per la messa in scena davanti a un ben determinato pubblico presente, il quale era consapevole delle allusioni, dei sottintesi, delle circostanze che intessevano il dramma sulla scena. Erano opere pensate per il pubblico londinese, per la corte inglese, per la Londra dell’età elisabettiana. Ed è per questo che Amleto dice e non dice, allude e sottintende, abita nella sospensione della storia, là dove essa accade ma là dove il suo accadere ha bisogno di una spiegazione che partendo dalla storia conduca oltre la storia.
Schmitt sgombera in questo modo il terreno da ogni soggettivismo sia psicologico/psicoanalitico sia biografico (poiché in ogni caso Amleto non è Giacomo I) e propone una distinzione raffinata e feconda fra Trauerspiel e Tragödie. Il primo è il dramma, il gioco del dramma, il gioco teatrale. Esso può diventare tragedia soltanto se esce dai limiti della fantasia soggettiva e della pura forma estetica per farsi espressione, interrogativo, spiegazione di «una realtà storica tremenda [che] balena dunque attraverso le maschere e i costumi dello spettacolo teatrale; e, su questo punto, nulla possono fare o modificare le interpretazioni filologiche, filosofiche o estetiche, per acute che siano» (56). In generale, uno dei principi dell’estetica storica -non storicistica- di Schmitt è che «né nell’antichità classica né nell’epoca moderna si è inventato l’avvenimento tragico. Accadere tragico e libera inventività sono incompatibili tra di loro e si escludono a vicenda» (90).
Il Trauerspiel di Hamlet si è elevato a tragedia ed è diventato in questo modo uno dei più potenti miti di una modernità che fa di tutto per cancellare i miti attraverso un razionalismo il quale non può che generare altri miti, spesso volgari.

Schmitt dialoga non soltanto con l’ermeneutica gadameriana ma -come in tutti i suoi scritti- con una serie assai ricca di prospettive, autori, opere. Benjamin, ad esempio, il cui Dramma barocco tedesco (1928) è uno dei tre libri esplicitamente indicati come fonte dell’opera. O con Nietzsche, verso il quale esprime perplessità non soltanto e non tanto perché la tragedia non nascerebbe ‘dallo spirito della musica’ bensì da quello della storia, quanto perché il giurista tedesco appare molto legato a un’idea tradizionale, oggettiva e prenietzscheana di verità: «Possiamo piangere per Ecuba, possiamo piangere per molte cose, molte cose suscitano la nostra tristezza, ma il tragico ha origine in primo luogo da un dato di fatto, da una realtà che è data come ineluttabilmente presente ed effettuale a tutti i partecipanti, sia al poeta, sia all’attore, sia agli ascoltatori. Un destino inventato non è un destino; l’invenzione più geniale, in questo caso, non serve a nulla» (86).
Piangere per Ecuba. Sta qui la spiegazione del bel titolo di questo libro: Hamlet oder Hecuba, perché Amleto -mettendo in scena il dramma che dovrà rivelare l’assassino del padre- si chiede come possa accadere che un attore pianga per Ecuba di Troia, per qualcuno quindi al quale niente lo lega, in nessun modo. E tuttavia è capace di pianto. Da qui la riflessione, e il libro stesso, di Schmitt: «Non è pensabile che Shakespeare, in Amleto, avesse come unica intenzione di fare del suo Amleto un’Ecuba, di farci piangere su Amleto come l’attore piange sulla regina di Troia. Ma noi finiremo davvero col piangere allo stesso modo per Amleto come per Ecuba se volessimo separare la realtà della nostra esistenza presente dalla rappresentazione teatrale. Le nostre lacrime sarebbero in tal caso lacrime di attori. Non avremmo più nessuna causa e nessuna missione, e le avremmo sacrificate per godere del nostro interesse estetico al gioco del dramma. Ciò sarebbe grave, poiché dimostrerebbe che a teatro abbiamo altri dèi che al fòro o sul pulpito» (83-84).

La centralità del Politico, dell’elemento pubblico, della storia, è in Schmitt talmente pervasiva da non poter pensare che qualcosa di essenziale possa sfuggire al suo dominio. È un aristotelico, come il suo contemporaneo Heidegger. Per entrambi l’umano è anzitutto Mitsein e ζῷον πολιτικόν. Ma da Aristotele entrambi appresero anche che l’essenziale va sempre al di là dell’umano e quindi  al di là della storia:
φανερὸν δὲ ἐκ τῶν εἰρημένων καὶ ὅτι οὐ τὸ τὰ γενόμενα λέγειν, τοῦτοποιητοῦ ἔργον ἐστίν, ἀλλ᾽ οἷα ἂν γένοιτο καὶ τὰ δυνατὰ κατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸἀναγκαῖον. […] διὸ καὶ φιλοσοφώτερον καὶσπουδαιότερον ποίησις ἱστορίας ἐστίν: ἡ μὲν γὰρ ποίησις μᾶλλον τὰκαθόλου, ἡ δ᾽ ἱστορία τὰ καθ᾽ ἕκαστον λέγει. ἔστιν δὲ καθόλου μέν, τῷ ποίῳ τὰ ποῖα ἄττα συμβαίνει λέγειν ἢ πράττεινκατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸ ἀναγκαῖον, οὗ στοχάζεται ἡ ποίησις ὀνόματαἐπιτιθεμένη.
«È chiaro anche questo: compito del poeta è dire non ciò che è accaduto ma quello che potrebbe accadere  in base al verosimile e al necessario. […] E per questo la poesia è più filosofica e più nobile della storia, perché la poesia tratta dell’universale, mentre la storia del particolare. L’universale è questo: che cosa a quale genere di persona capiti di dire o di fare in base al verosimile e al necessario; a questo è rivolta la poesia anche quando utilizza nomi propri» (Aristotele, Poetica, 1451 a-b), compresi i nomi di Amleto e di Ecuba.

«Per favore non aiutateci più!»

Mi è stato segnalato da Dario Sammartino questo articolo di Massimo Fini, uscito su il Fatto Quotidiano. Lo riporto per intero, con una postilla. Le evidenziazioni sono mie.

==============

Aiutiamo l’Africa andandocene via

«Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell’aiuto umanitario, ma sarebbe meglio chiamarli tecnici dell’assassinio. Sono stati loro a proporci i canali di finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano le cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la crescita del nostro popolo e il suo benessere…Hanno fatto in modo che l’Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranee. Hanno fatto in modo che ciascuno di noi sia, oggi e domani, uno schiavo finanziario».

Questo discorso fu tenuto nel 1987 da Thomas Sankara all’ ‘assemblea dei Paesi non allineati’, OUA. Fu assassinato due mesi dopo.
Debbo la conoscenza di questo straordinario discorso, ampiamente dimenticato, a un mio giovane amico, Matteo Carta, che lo aveva ripreso da un servizio di Silvestro Montanaro per il programma di Rai3 “C’era una volta” andato in onda alle undici di sera il 18 gennaio 2013. E questa fu anche l’ultima puntata di quel programma.
Thomas Sankara arrivò al potere con un colpo di Stato che rovesciò la pseudo e corrottissima democrazia. Nei quattro anni del suo governo fece parecchie cose positive per il Burkina: si impegnò molto per eliminare la povertà attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate, finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione estremamente povera, fece un’importante lotta alla desertificazione con il piantamento di milioni di alberi nel Sahel, cercò di svincolare il Paese dalle importazioni forzate. Inoltre si rifiutò di pagare i debiti coloniali. Ma non fu questo rifiuto a perderlo, Francia e Inghilterra sapevano benissimo che quei debiti non potevano essere pagati. A perderlo fu il contenuto sociale della sua opera che i Paesi occidentali non potevano tollerare. Tanto è vero che nel controcolpo di Stato che portò all’assassinio di Sankara, all’età di 38 anni come il Che, furono coinvolti oltre a Francia e Inghilterra anche gli Stati Uniti che ‘coloniali’ in senso stretto non erano stati. Sankara doveva quindi morire. Non approfittò mai del suo potere. Alla sua morte gli unici beni in suo possesso erano un piccolo conto in banca di circa 150 dollari, una chitarra e la casa in cui era cresciuto.
Questo discorso di Sankara è più importante di quello che Gheddafi avrebbe tenuto all’Onu nel settembre del 2009 e che gli sarebbe costato a sua volta la pelle. Gheddafi, in un linguaggio assolutamente laico, come laico era quello di Sankara, si limitò, in buona sostanza, a denunciare le sperequazioni istituzionali e legislative fra i paesi del Primo e del cosiddetto ‘Terzo Mondo’ (questa immonda e razzista definizione ha un’origine abbastanza recente, fu coniata dall’economista Alfred Sauvy nel 1952 – Poca terra nel 2000). Sankara, a differenza di Gheddafi, centra l’autentico nocciolo della questione: le devastazioni economiche, sociali, ambientali provocate dall’introduzione in Africa Nera, spesso con il pretesto di aiutarla, del nostro modello di sviluppo. Ecco perché bisogna stare molto attenti quando, con parole pietistiche, si parla di “aiuti all’Africa”. Non per nulla parecchi anni fa durante un summit del G7 i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin (Sankara era già stato ucciso) organizzarono un controsummit al grido di “Per favore non aiutateci più!” (mi pareva una notizia ma si guadagnò solo un trafiletto su Repubblica). Per questo tutti i discorsi che girano intorno al “aiutiamoli a casa loro”, che non appartengono solo a Salvini, sono pelosi. Noi questi Paesi con la nostra presenza, anche qualora, raramente, sia in buonafede, non li aiutiamo affatto. Li aiutiamo a strangolarsi meglio, a nostro uso e consumo.

Il solo modo per aiutare l’Africa Nera è che noi ci togliamo dai piedi. E dai piedi devono levarsi anche quelle onlus come l’Africa Milele per cui lavora, o lavorava, Silvia Romano, attualmente prigioniera nelle boscaglie del Kenya, formate da pericolosi ‘dilettanti allo sbaraglio’. Pericolosi perché -e almeno questo dovrebbe far rizzare le orecchie al nostro governo- sono facili obbiettivi di ogni sorta di banditi o di islamisti radicali a cui poi lo Stato italiano, per ottenerne la liberazione, deve pagare cospicui riscatti. È stato il caso, vergognoso, delle “due Simone” e dell’inviata dilettante del Manifesto Giuliana Sgrena la cui liberazione costò, oltre al denaro che abbiamo sborsato, la vita a Nicola Calipari. In quest’ultimo caso il soldato americano Lozano, del tutto legittimamente perché avevamo fatto le cose di soppiatto senza avvertire la filiera militare statunitense, a un check-point sparò alla macchina che si avvicinava e uccise uno dei nostri migliori agenti segreti.

Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018
==============

Il colonialismo è una realtà camaleontica. È transitato dai missionari con la buona novella agli scienziati e ingegneri con le trivelle, dal nazionalismo terzomondista agli aiuti finanziari. Sempre in nome della civiltà, dell’umanità e del progresso. Anche per questo studio e amo filosofie incivili, antiumanistiche e barbariche come quelle di Schopenhauer, di Spinoza, di Heidegger, di Nietzsche, il quale raccomandava di guardarsi dai «Gutmüthigen Mitleidigen» (Frammenti postumi 1884, 25[296]), dai buoni e compassionevoli, come da persone pericolose. Aveva naturalmente ragione.
L’intero frammento è molto interessante perché Nietzsche auspica un «nuovo illuminismo» che si opponga «come Machiavelli» all’ipocrisia delle chiese, dei politici, dei preti, dei buoni, dei civilizzati. Ecco il testo: «Die neue Aufklärung.  / Gegen die Kirchen und Priester / gegen die Staatsmänner / gegen die Gutmüthigen Mitleidigen / gegen die Gebildeten und den Luxus / in summa gegen die Tartüfferie. / gleich Macchiavell». Il colonialismo occidentalista è in ogni sua forma una delle massime espressioni della «Tartüfferie».

Schmitt

Carl Schmitt
Terra e mare
Una riflessione sulla storia del mondo

(Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, 1942)
Traduzione di Giovanni Gurisatti
Con un saggio di Franco Volpi
Adelphi, 2002
Pagine 149

Uno dei fatti che meglio esprimono la presunzione della specie umana consiste, secondo Nietzsche, nel chiamare «la sua storia, storia del mondo» (Umano, troppo umano II, af. 12). I pochi ma potenti tratti con i quali Carl Schmitt delinea la storia dell’umanità si sottraggono, almeno in parte, a questo rimprovero. Essi, infatti, coniugano la nostra storia con i grandi elementi della terra, dell’aria, dell’acqua, del fuoco.
L’uomo è un animale terrestre che chiama Terra un pianeta composto per tre quarti dall’elemento liquido e «la storia del mondo è una storia di conquiste di terra» (pag. 76). E tuttavia il mare ha rappresentato per numerose popolazioni ed epoche la dimensione decisiva dell’esistenza, tanto che la storia del mondo può essere definita anche come «la storia della lotta delle potenze marittime contro le potenze terrestri e delle potenze terrestri contro le potenze marittime» (18). L’animale più grande -la balena- e quello più furbo –l’uomo- hanno avuto nel mare lo spazio di uno scontro millenario. Sono state le balene e i balenieri ad aprire le rotte e le vie d’acqua più sconosciute e ardite, fino a quando tra di loro il rapporto è stato paritario, fino a che non sono apparsi i «macellai di balene meccanizzati» (35).

A partire dalle civiltà del Mediterraneo orientale sino a Lepanto (1571), le battaglie navali non furono altro che scontri di fanteria trasferiti sulle tolde delle navi, ma già dalla sconfitta della Armada spagnola nella Manica (1588), con le bocche di fuoco dei cannoni e con i nuovi agili velieri inventati dagli olandesi, lo scontro di mare assunse le sue caratteristiche specifiche, che contribuirono a trasformare gli inglesi, un popolo di allevatori di pecore, nei dominatori del globo.
I pirati, i corsari, gli schiumatori del mare furono tra i protagonisti di una trasformazione radicale con la quale l’Inghilterra trasferì completamente la propria esistenza dall’elemento terrestre a quello marittimo. Un mutamento che fu contemporaneo –e strettamente intrecciato- non solo alle grandi scoperte geografiche, non soltanto alle nuove tecnologie belliche e navali, non solo allo scontro fra cattolicesimo e protestantesimo ma anche alla lotta che oppose il calvinismo “marittimo” al gesuitismo “terrestre”. Integrando e rendendo così più plausibile il quadro di Max Weber, Schmitt scrive che «se invece ci volgiamo al mare, vediamo immediatamente la coincidenza o, se così posso dire, la fratellanza che, nella storia del mondo, unisce il calvinismo politico alle nascenti energie marittime europee» (86-87).
Con la comparsa del grande Impero inglese sull’acqua, muta radicalmente il modo di combattersi degli uomini tra di loro. Nella guerra terrestre a fronteggiarsi in campo aperto sono quasi sempre soltanto le truppe, i soldati, gli armigeri. La guerra marittima, invece, tende a colpire le risorse dell’avversario, a strozzare la sua economia, a cannoneggiare le sue coste e le città, a coinvolgere l’intera popolazione diventata tutta e inevitabilmente «nemica».

È la guerra totale, inventata dalla potenza marittima e calvinista inglese. Il suo dominio durò per più di due secoli sino a quando, trasformandosi da “pesce” in “macchina”, con la Rivoluzione industriale la Gran Bretagna sembrò attingere a una potenza incontrastata che invece di fatto rappresentò l’inizio della sua crisi. Con la meccanizzazione vennero meno lo slancio iniziale e il dominio sulle tecniche della navigazione a vela; da allora un’altra e più potente “isola” calvinista si sostituì progressivamente all’antica madrepatria. Agli inizi del Novecento, l’ammiraglio americano Mahan propose infatti la riunificazione fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, allo scopo di garantire la perpetuazione del dominio anglo-americano sul mondo.
La potenza secolare dell’elemento marino –il Leviatano- ha contribuito allo sviluppo dell’aviazione e del fuoco che distrugge dall’alto. I due nuovi elementi –l’aria e il fuoco- delineano un’ulteriore trasformazione tesa alla sconfitta e al controllo dell’antico elemento terrestre. Il grande uccello mitologico, il Grifo Ziz, combatte per la sottomissione della Terra Behemoth. Nella prima metà del Novecento nacque così, attraverso scontri e distruzioni immani, un nuovo Nomos der Erde, Nomos della Terra, quello che dal 1945 al tempo presente ha controllato il pianeta, sconfiggendo l’Europa continentale, lanciando un fuoco immane e distruttore sul Giappone, imponendo all’intera umanità la globalizzazione dei suoi modelli di vita e della sua economia. Non sono pochi i segnali che indicano l’esaurirsi anche di questo Nomos, tanto che possiamo forse fare nostre le fiduciose affermazioni conclusive del libro: «Anche nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate. Anche qui sono e qui regnano Dei / e grande è la misura» (110; i versi sono tratti da Hölderlin, Il viaggiatore, 17-18].

Al di là della geopolitica, oltre la grandiosità del quadro cosmogonico nel quale prendono luce gli avvenimenti umani, uno dei meriti di questo splendido libro consiste nel dimostrare che prima c’è lo spazio interiore, la cultura dei popoli, il potere e i suoi obiettivi, prima c’è il mondo e solo dopo gli spazi geografici: «La scoperta di nuovi continenti e la circumnavigazione della terra furono solo manifestazioni e conseguenze di metamorfosi più profonde. Soltanto per questo lo sbarco su un’isola sconosciuta poteva condurre a un’intera epoca di scoperte» (69).
La Terra, elemento spesso negletto, è stata al centro della riflessione di Heidegger, di Jünger, di Schmitt. Quest’ultimo sembra ripercorrere la gerarchia platonica della conoscenza, andando al di là delle impressioni soggettive, dei fatti immediati, della deduzione razionale e attingendo in modo intuitivo le strutture profonde del tempo e della storia. La frase chiave del libro mi sembra quella che individua nella salvezza «alla fin fine, a dispetto di qualsiasi idea razionale, il senso decisivo di ogni storia del mondo» (85).
La forza del pensiero di Schmitt è la potenza della Gnosi, quella capacità di andare oltre l’ovvio che permetteva al “giurista del Terzo Reich” di tenere alla parete il ritratto dell’ebreo Disraeli e di ammirarne con timore la dimensione iniziatica che gli fece definire il cristianesimo una forma di ebraismo per il popolo. Anche se Schmitt respingeva sdegnato questa affermazione, essa è nondimeno vera e conferma la vittoria, nonostante tutto, di Behemoth sul Leviatano, del primato del popolo del deserto sugli spazi del mondo.

Geometria / Rivolta

FLATLANDIA
Racconto fantastico a più dimensioni
di Edwin A. Abbott 
(Flatland. A Romance of Many Dimensions, 1882)
Traduzione e prefazione di Masolino D’Amico
In appendice un saggio di Giorgio Manganelli
Adelphi, Milano 1999 (1966)
Pagine XX – 166

 

FlatlandiaUn Quadrato parla. E racconta la propria vita nel Paese della Superficie, dove le dimensioni della materia sono soltanto due –lunghezza e larghezza- e non si ha idea alcuna dell’altezza. Narra usi e costumi di questa terra piatta, di questa società assolutamente gerarchica nella quale i criteri del valore sono il numero dei lati e degli angoli. Dalle donne che sono Linee -e dunque poste al livello più basso dell’essere e del capire, tenute nell’ignoranza, inaffidabili e vessate ma sempre pericolosissime con la loro micidiale punta acuminata- ai Triangoli isosceli stupidi e violenti con i loro angoli acuti; dagli Equilateri operai ai Quadrati professionisti; dai Pentagoni ed Esagoni -sempre più raffinati e colti- fino alle somme Circonferenze, che sono –in realtà e naturalmente- dei Poligoni con un numero altissimo di lati estremamente piccoli.
Questa società dura, armoniosa e implacabile come può esserlo solo la Geometria, vive della morte continua di ogni Figura che con i suoi angoli mal gestiti possa costituire un pericolo per gli altri; viene scossa da periodiche rivolte capeggiate da Forme irregolari; è governata da una casta sacerdotale potentissima e pervasiva: «Da noi i Preti sono gli Amministratori di ogni Affare, Arte e Scienza […] senza far nulla direttamente, essi sono la Causa di ogni cosa che valga la pena di fare e che viene fatta da altri» (pag. 81). La dottrina che pervade questo spazio è una Razionalità geometrica consapevole della Necessità di ogni ente ed evento poiché non l’educazione o l’esperienza ma è «la Configurazione che fa l’uomo» e dunque «a un giudizio sereno, buona e cattiva condotta non sono ragioni sufficienti né di lode, né di biasimo» (84).
Al Narratore accade di ricevere la sconvolgente rivelazione -da parte di una Sfera- dell’esistenza della Terza dimensione e dunque dello Spazio. Poco prima il Quadrato aveva sognato un Paese della Linea ai cui abitanti lui stesso tentava inutilmente di dimostrare la parzialità della loro struttura. Ora riceve dalla Sfera un’analoga lezione. Rifiuta però questa saggezza e allora viene letteralmente “rapito” nel Paese dei solidi e lì finalmente vede ciò che fino ad allora aveva soltanto dedotto. Si scioglie così alla sua mente l’enigma che non comprendeva quando la Sfera gli parlava. Incapace dello sforzo di volontà che gli garantirebbe, a detta della Sfera, di lasciare il suo piatto mondo, una violenza pedagogica lo trasporta «verso l’Alto, ma non verso il Nord» (139), secondo la formula con la quale cercherà –tornato nella Pianura- di ricordare la ricchezza senza fine della prospettiva spaziale.
Infatti questo Quadrato regolare, pedante e insieme avventuroso -questo «povero Prometeo della Flatlandia» (150) come da sé si definisce- comincia a chiedere al suo maestro e salvatore di insegnargli anche la Quarta, la Quinta e le altre dimensioni. Ma questo dio circolare mostra anch’egli la povertà delle proprie vedute quando respinge tali aspirazioni come follie e sogni, non avendo dunque appreso la verità essenziale: che ogni ente vive nel proprio ambiente commettendo l’errore di pensarlo come l’unico, quando invece lo Spazio è davvero senza fine. Anche la Sfera somiglia insomma a quella creatura infima e adimensionale che vive in Pointlandia e che di se stessa si compiace come dell’unico e totale universo, chiamandosi It, Esso: «Infinita beatitudine dell’esistenza! Esso è: non c’è altro al di fuori di Esso» (141). Altrettanto convinta che oltre le tre del proprio mondo altre dimensioni non si diano, la Sfera scaglia il Quadrato là da dove lo trasse. Nella insensata speranza di convertire i suoi simili alla sapienza dello Spazio, il Narratore viene imprigionato ed è da un carcere quindi che egli racconta.
Così si chiude «questo universo di visioni tragiche e gnostiche» permeato di «una gelida grazia astratta» come con esattezza lo definisce Giorgio Manganelli (165 e 155). Un libro intriso di ironia e di rigore, di invenzioni fantastiche e di dimostrazioni matematiche, di intenti satirici (verso la società vittoriana e non solo) e di serietà mitologica. Un’autentica visione della mente. Un invito a cogliere la plausibilità dell’ipotesi che -oltre alla materia e al movimento- la struttura delle cose sia fatta di un’ulteriore dimensione che è il Tempo.
Il libro di Abbott ha una Wirkungsgeschichte ampia, imprevedibile e carsica. La sua eco riaffiora, ad esempio, anche nelle scenografie di Dogville (2003), il film per il quale Lars von Trier sceglie una scenografia bidimensionale fatta di semplici linee che consente di vedere dall’alto la città, esattamente come il Quadrato vedeva la sua Terra una volta uscito da essa.
Un libro sovversivo, alla fine, con la sua tenace ambizione di suscitare «con qualsiasi mezzo nell’intimo dell’umanità sia Piana che Solida uno spirito di rivolta contro la presunzione che vorrebbe limitare le nostre Dimensioni a Due, a Tre o a qualsiasi numero che non sia Infinito» (132).

 

Esotiche vecchiaie

The Best Exotic Marigold Hotel
di John Madden
Con: Judi Dench (Evelyn), Tom Wilkinson (Graham), Bill Nighy (Douglas), Penelope Wilton (Jean), Dev Patel (Sonny), Celia Imre (Madge), Ronald Pickup (Norman), Maggie Smith (Muriel), Diana Hardcastle (Carol), Tena Desae (Sunaina)
USA 2012
Trailer del film

 

«Delocalizzare la vecchiaia» è il programma con il quale un giovane indiano di Jaipur intende rivitalizzare un albergo ormai decadente. Nel mondo occidentale gli anziani non contano più nulla, qui invece potranno diventare i protagonisti assoluti. Per attirare i primi clienti Sonny ritocca un po’ le immagini dell’hotel. A cadere nel benevolo inganno è un variegato gruppo di inglesi: un giudice in pensione, una coppia in crisi, due signore sole, un attempato casanova, una governante licenziata dopo aver speso l‘intera vita al servizio di una famiglia britannica. Nonostante l’iniziale sorpresa nel trovarsi in un luogo ben diverso rispetto a quello pubblicizzato su internet, queste persone si fanno quasi tutte avvolgere e travolgere “dal fascino dell’India”, luogo dove ciascuno cerca se stesso, vecchi ricordi, nuova vita.
Il rischio che un film del genere potesse cadere nell’esotismo di maniera era altissimo e non è stato evitato. Una cultura assai complessa come quella indiana e indù viene ridotta alle solite cartoline e a luoghi comunissimi. Si respira, inoltre, una greve atmosfera british nei rapporti tra gli ex colonizzatori e gli ex colonizzati. La bravura degli interpreti -tutti caratterizzati da una misura veramente anglosassone- e alcune riuscite battute nei dialoghi non riscattano l’evidente forzatura di tutta l’operazione, confermata dal lieto fine.

Per un regista e per degli sceneggiatori europei è forse semplicemente impossibile capire l’India e restituirne con un minimo di correttezza l’antropologia. Tra i dipendenti del Marigold Hotel c’è, ad esempio, una ragazza che appartiene ai “paria”, vale a dire agli infimi fuori casta. Bene, come si fa a rendere il significato e la peculiarità del sistema indiano delle caste da un punto di vista occidentale? Gli “intoccabili”, infatti, sono sì molto spesso ma non necessariamente dei “poveri”. Anzi, numerosi paria sono piuttosto ricchi. Ed è a volte il modo in cui hanno raggiunto tale ricchezza che conferma il fatto che si tratta di intoccabili. Un appartenente alla casta dei bramini può essere, invece, poverissimo ma viene giudicato un individuo superiore. Le caste esistono anche in Occidente e sono quasi altrettanto rigide. Solo che da noi il criterio di appartenenza all’una o all’altra è dato dal possesso del danaro e dall’esercizio del potere politico. (Una notazione personale: nel conversare attribuisco a volte ad alcuni uomini politici nazionali e a degli amministratori locali che conosco la qualifica di “miserabili e intoccabili”, pur essendo costoro ricchissimi tanto che al loro confronto sono un vero poveraccio. Mi ispiro, per l’appunto, al sistema indiano delle caste).

This is England

di Shane Meadows
Con: Thomas Turgoose (Shaun), Stephen Graam (Combo), Joe Gilgun (Woody), Jo Hartley (Cynth), Andrew Shim (Milky), Rosamund Hanson (Smell)
GB, 2006
Trailer del film

Gran Bretagna, 1983. Shaun è un dodicenne che ha perso il padre nella guerra per le Falkland. A scuola lo prendono in giro e la sua vita sociale è minima. Viene però accolto da un gruppo di ragazzi e ragazze che cercano di non annoiarsi troppo ma anche di non fare troppo danno. Finché riappare Combo, un amico adulto del gruppo, che in carcere ha maturato idee ultranazionaliste e razziali. Alcuni rifiutano di farsi condizionare, altri aderiscono alle sue proposte. Tra questi c’è Shaun, che comincia ad avere i modi e i comportamenti di un naziskin sino a prender parte ad azioni violente nei confronti della comunità pakistana. Un fallimento sentimentale subìto da Combo contribuisce a scatenare la sua violenza verso tutti. L’ultima scena, che vede ancora una volta protagonista Shaun tornato alla propria solitudine, è la più  emblematica.

Il film è uscito nel 2006 ma soltanto oggi viene distribuito in Italia. Ed è un film bellissimo. Prima di tutto per la sua tecnica, fatta di campi lunghi alternati a primissimi piani, di dissolvenze tra il visivo e il sonoro,  di una fotografia impastata e documentaristica, di un’efficace colonna sonora, di filmati d’epoca ben integrati nella trama del racconto, di una cinepresa che scava dentro volti e gesti dei protagonisti. Poi per la capacità di analizzare e svelare il mondo degli skinhead dal di dentro, senza troppi giudizi moralistici né semplice oggettività sociologica ma mostrando i modi e le ragioni per le quali si può entrare o non entrare in quell’ambiente. È un grande film, infine, perché analizza con un linguaggio artistico rude e insieme raffinato la catastrofe sociale e antropologica che l’ultraliberismo thatcheriano ha prodotto e che ha fatto dell’Inghilterra il posto orribile che forse è sempre stato ma che adesso ha pochi paragoni in Europa quanto a politiche antisociali e a squallore esistenziale. This is England, davvero.

 

Vai alla barra degli strumenti