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Il tempo, le larve

Piccolo Teatro Strehler – Milano
La notte dell’Innominato
da Alessandro Manzoni
Regia e adattamento Daniele Salvo
Con: Eros Pagni (L’Innominato), Gianluigi Fogacci, Valentina Violo, Simone Ciampi
Produzione Centro Teatrale Bresciano e Teatro de Gli Incamminati
Sino al 31 ottobre 2021

La notte è il luogo della pace ma anche dell’angoscia, dei tormenti che da nulla possono essere attutiti, risolti, ribaltati. L’intero peso della vita a volte si raggruma nell’insonnia, nelle ragioni disperate e violente che impediscono al corpomente di placare la propria fame di dolori. Onde su onde allora rendono il tempo un istante che non finisce più e al quale l’albeggiare sembra offrire solo i segni lividi della morte che si è stati, della morte che si è desiderato essere. Questo può accadere anche a un uomo spietato, sicuro sino alla tracotanza, portatore di morte e di dolore per tanti. Ma Francesco Bernardino Visconti (1579-1647) non sentiva più soddisfazione nel crimine e anzi «già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze» (I Promessi Sposi, a cura di Giovanni Getto, Sansoni Editore, Firenze 1985, cap. XX, p. 475).
E allora bastò -nella finzione del romanzo- che davanti a quest’uomo di malaffare piangesse una donnetta per ridurlo all’angoscia più insostenibile. «Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?» (Ivi, cap. XXI, pp. 502-503), dice nella notte a se stesso rimproverando nella notte se stesso, cercando a tentoni nel buio l’uomo che è stato e che ora non è più. A ogni modo pur di scrollare da sé quel tormento, è pronto a liberare la ragazza. Lo farà. Subito, al mattino. Ma «poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!» (Ivi, cap. XXI, p. 506).

Questo il nucleo di una messa in scena fedele al testo del romanzo e capace di rinnovarne la lettura tramite dipinti che diventan vivi -Bosch, Antonello e altri-; mediante il trasformarsi dei terrori interiori dell’Innominato in figure orribili e potenti; attraverso quella tonalità gotica che costituisce uno dei segreti dei Promessi Sposi.
È in questa notte che Manzoni ha toccato uno dei vertici della sua arte: il tempo, la noia, il vuoto, l’essere per la morte. Sì, gli esistenziali di Essere e tempo: «Ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti» (Ibidem). Quest’ultima frase non vale soltanto per un criminale incallito, per un delinquente diventato vecchio, per un personaggio di romanzo, per una psiche ormai consunta. Questa frase suona per noi, vale per tutti; è vera per l’umano fatto di tempo, divenire, attesa; costituito di «gewesen-gegenwärtigende Zukunft», ‘avvenire essente-stato-presentante’ (Sein und Zeit, §§ 7C e 65).
Quando il tempo diventa il nemico e l’andare delle ore si trasforma nell’insostenibile itinerario dell’assurdo, vuol dire che intorno a noi si addensano le allucinazioni delle quali questo spettacolo è cosparso: nere come la notte, lugubri come il terrore, impersonali come il vuoto. Larve che scandiscono il fallimento dell’esistere e trasformano i corpi nel battere irrefrenabile dei denti, della febbre, di un’alba che è ancora notte.

La grandezza di Manzoni sta anche nel disvelamento della psiche umana ma abita soprattutto nella piena consapevolezza gnostica del male. L’Innominato è questa  psicologia, è questa conoscenza. Certo, poi tale consapevolezza si dissolve nella gloria edificante della provvidenza incarnata dal cardinale Borromeo. Ma a quel punto interviene un bisogno di superficiale redenzione morale. La sostanza profonda sta nelle altre poche pagine dalle quali l’assurdo dell’esserci, di ciò che si è fatto, del vuoto che si farà, emerge come un mostro indicibile dal lago del tempo.
«Un qualche demonio ha costei dalla sua, – pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate. – Un qualche demonio, o… un qualche angelo che la protegge… Compassione al Nibbio!… Domattina, domattina di buon’ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e, – proseguiva tra sé, con quell’animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, – e non ci si pensi più. Quell’animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che… non voglio più sentir parlar di costei. L’ho servito perché… perché ho promesso: e ho promesso perché… è il mio destino» (ivi, cap. XXI, p. 496).
Il destino, appunto, il demone che esso è per l’umano. Ἀνάγκη, l’inevitabile. Sino a che la morte verrà a offrire a questo grumo di passioni la grazia. E allora la notte sarà solo pace.

In principio la parola

Teatro Greco – Siracusa
Coefore / Eumenidi
di Eschilo
Traduzione di Monica Centanni
Scene e costumi di Arnaldo Pomodoro
Musiche di Marco Podda
Con: Francesco Scianna (Oreste), Francesca Ciocchetti (Elettra), Elisabetta Pozzi (Clitemnestra), Graziano Piazza (Egisto), Ugo Pagliai (Apollo), Paola Gasmann (Pizia)
Regia di Daniele Salvo
Sino al 21 giugno 2014

Mentre Atena proclama il Diritto, e con ciò fa nascere la città umana, ricorda però ai Greci e a noi tutti che le forze ctonie delle figlie della Notte -le Erinni- andranno onorate per sempre. E che quindi sarà necessario rispettare la terra feconda, il mare infinito, i venti che portano forza. Esattamente quello che non facciamo più, nel disprezzo antropocentrico per ciò che chiamiamo «Natura» separando da essa l’umano. «Sciagurati!», potremmo dire al modo dei Greci.
E invece la Pizia sa bene che persino nel luogo sacro ad Apollo -a Delphi- Dioniso «possiede il paese -no, non mi fugge di mente!- da quando, capo divino, capitanò le Baccanti» (Eum., vv. 24-26; trad. di Ezio Savino). Il rapporto triplice tra Atena -femmina nata senza bisogno di madre e il cui «favore va sempre alla parte maschile» (ivi, 737)-, Apollo -maschio che nega recisamente alla madre che sia lei a produrre il suo frutto, «solo, nutre il gonfio maturo del seme» (ivi, 659)- e Dioniso -immagine senza sesso e splendente ma pur sempre vicina alle Furie- scandisce l’ambigua identità della donna nell’Orestea. La trilogia sembra decisamente ostile all’elemento femminile. Alle origini e nei modi di ogni male ci sono infatti delle donne, la loro follia umana e divina: Elena, Clitemnestra (della quale il figlio esclama «Mai mi affianchi nella casa una consorte simile!»  [Coe., 1005]), Elettra, le Erinni. E tuttavia le perdenti e poi vincenti -le Erinni/Eumenidi- e il giudice supremo, Atena, sono forma femminile al comando del mondo, della storia, del cosmo.
La Dea della mente dopo aver finalmente persuaso le Furie a trasformare in benedizione la loro funesta e implacabile ira, così di se stessa canta il trionfo:

Ho ottenuto il successo:
legare spietate,
possenti creature divine ad Atene.
È loro campo fatale reggere
l’universo umano: chi non ebbe mai caso
d’incrociarle rabbiose, ignora
la fonte dei colpi che devastano la vita.
(Coe., 928-934)

E in che modo, con quale mezzo, Atena è riuscita a simile impresa? Con la parole, lo dice lei stessa. Con le parole che Πειθώ -la Persuasione- le ha suggerito. È la Parola dunque a fondare il campo umano, a dare alla specie la forma che salvaguarda dall’orrore che Furia diffonde nel mondo.
Il bisogno di Vendetta impellente, trafelato e insieme incerto, che guida Elettra, Oreste e il coro nelle Coefore  e che sùbito diventa balbettio e terrore di fronte al matricidio, può sciogliere il nodo violento della propria incertezza soltanto di fronte alla persuasione di Apollo, il quale disprezza le Erinni, e alla persuasione di Atena che sa renderle amiche. Entrambi, Atena e Apollo, emblema della parola che pensa e che nel pensare produce le azioni, il senso, la vita.
Non erano necessarie, per narrare questo prodigio, una recitazione e una regia a volte un po’ troppo urlate e lontane dall’equilibrio che sempre in Eschilo splende tra il furore e la calma dei versi, soprattutto nelle Coefore. Efficace, invece, la nebbia che dà inizio alle Eumenidi e la sua conclusione nel sole di Apollo. Le scene di Arnaldo Pomodoro sono le più adeguate a esprimere la presenza della parola di Eschilo sin nei gangli più antichi dell’essere umano e nei nostri.

 

Dark Edipo

Teatro Greco – Siracusa
Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Guido Paduano
Impianto scenico e costumi di Maurizio Balò
Musiche di Marco Podda
Con: Daniele Pecci (Edipo), Melania Giglio (Spettro della Sfinge), Laura Marinoni (Giocasta), Maurizio Donadoni (Creonte), Ugo Pagliai (Tiresia), Mauro Avogadro (Servo di Laio, Sacerdote)
Regia di Daniele Salvo
Sino al 22 giugno 2013

Pecore insanguinate e cadaveri di appestati. Una grande testa della Sfinge. Scale che portano alla reggia e al nulla. Su tutto vaga, aleggia, vola lo spettro della morte. Avanzano su questa scena i cittadini di Tebe, malati e angosciati per la peste che stermina la città. Chiedono a colui che già una volta li ha liberati dal male, a Edipo, di fare di tutto per salvarli ancora. E il re promette che tenterà ogni strada, che non abbandonerà Tebe, che porterà davanti ai propri occhi e a quelli del popolo la causa di tanto lutto. Promette che saprà.
E questa conoscenza arriva. Lo raggela. Lo distrugge. Lo rende cieco di dolore.

ὥστε θνητὸν ὄντα κείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν
ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν
τέρμα τοῦ βίου περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών.

Davvero non puoi dire sereno nessuno degli effimeri, se prima non sia giunto libero da mali al giorno della sua morte. (Οἰδίπους Τύραννος, vv. 1528-1530)

Tutto questo è interpretato a Siracusa in una chiave profonda, dark e funerea. Vi appare lo spettro della Sfinge a volare sopra i tebani, a punirli, a gridare il proprio orrore in un urlo trattenuto e sconvolgente. Espressivi anche i costumi e adeguata la recitazione di tutti tranne, ahimè, quella del protagonista: enfatica, patetica, romantica e televisiva.
La musica che intride questa messa in scena restituisce all’antico dramma la sua natura completa: visuale, scritta e cantata. Si chiude con Edipo che se ne va mentre gli si spalancano le porte di una luce che egli non può vedere. A volte è meglio non sapere. Detto da un greco, è questa la vera tragedia.

 

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