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Ossessione / Puzza

Maps to the Stars
di David Cronenberg
Canada-Usa, 2014
Sceneggiatura di Bruce Wagner
Con: Julianne Moore (Havana Segrand), Mia Wasikowska (Agatha Weiss), Evan Bird (Benjie Weiss), John Cusack (Stafford Weiss), Robert  Pattinson (Jerome Fontana), Olivia Williams (Christina Weiss), Sarah Gadon (Clarice Taggart)
Trailer del film

maps_to_the_starsUn ragazzino che guadagna milioni di dollari recitando commedie televisive. La madre che lo adora. Il padre psicologo ambiziosissimo e glaciale. Un’attrice scadente che sogna di interpretare il ruolo della propria madre, anche lei attrice e morta in un incendio. Un autista di limousine che vorrebbe recitare. Costoro sono circondati da agenti, registi, colleghi. Circondati da adolescenti i quali sembrano spaventosamente adulti nel modo di vestire, parlare, drogarsi, progettare, morire. I vivi sono spesso visitati dai morti, dai fantasmi generati dalla loro frenetica arroganza, dai loro delitti.
In questa Los Angeles arriva la ventenne Agatha. Non si sa da dove e come. Ha cicatrici da ustioni su gran parte del corpo. Recita ossessivamente Paul Éluard: «Sur mes cahiers d’écolier / Sur mon pupitre et les arbres / Sur le sable sur la neige / J’écris ton nom. […] Sur l’absence sans désir / Sur la solitude nue / Sur les marches de la mort / J’écris ton nom // Sur la santé revenue / Sur le risque disparu / Sur l’espoir sans souvenir / J’écris ton nom // Et par le pouvoir d’un mot / Je recommence ma vie / Je suis né pour te connaître / Pour te nommer // Liberté». La libertà a cui Agatha aspira è quella dell’amore, del crimine, della morte. È figlia dello psicologo e sorella del divo. Non la vogliono. Agatha è pazza e saggia. Lei e il fratello sono frutto di un incesto non voluto, come quello di Edipo. Ma tutti devono pagare. L’altra protagonista, l’attrice fallita, ripete più volte la parola «puzzare». Parola detta ad Agatha, a se stessa, a tutti. Grande è la sua gioia quando la morte di un bambino le offre la parte alla quale ossessivamente aspirava.
È forse questo il momento più feroce di un film estremo. La ferocia di una gioia sincera e completa che si nutre del dolore altrui. Maps to the Stars è commedia, è tragedia, è iperbole, è sarcasmo, è volgarità, è fissazione, è  putrefazione. Un film gelido e mortale, nel quale la mostruosità che percorre tutta l’opera di Cronenberg non ha più bisogno del doppio, degli insetti, della tecnologia, della claustrofilia. E si dispiega assoluta e compiuta in una metafora dell’umanità priva di luce, moribonda nel bagliore di un fuoco che divora le stelle.

 

«Non mi hai salvato»

Cosmopolis
di David Cronenberg
Canada, 2012
Con: Robert Pattinson (Eric Packer), Paul Giamatti (Benno Levin), Kevin Durand (Torval), Sarah Gadon (Elise Shifrin), Juliette Binoche (Didi Fancher), Samantha Morton (Vija Kinski)
Trailer del film

«L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza», il potente è il superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili. Questa definizione di Elias Canetti (Massa e potere, Adelphi, p. 273) si attaglia perfettamente a Eric Packer che nella sua Limousine diventata per lui tana, casa, ufficio, tempio, attraversa New York da un capo all’altro di un giorno imprecisato. Inimmaginabilmente ricco, questo giovane squalo vive della morte altrui. Morte dei loro beni, della loro autonomia, dei loro progetti, del loro eros. Tutti assorbiti, divorati e defecati nello spazio inattaccabile della lunga, lunghissima automobile bianca alla quale i colpi e le scritte dei cortei antisistema sembrano solo regalare il glamour di un’opera d’arte pop. Ma dove sta andando Packer in un giorno così sbagliato? Dal vecchio barbiere della sua infanzia, per farsi «sistemare il taglio». Un medico lo visita durante il tragitto facendogli un check-up completo. Scopre di avere «la prostata asimmetrica», così come il taglio sbagliato dei capelli. È questa asimmetria che il finanziere freddo e calcolatore non ha previsto. E che lo porterà a perdere centinaia di milioni di dollari in poche ore. Packer va verso colui che lo sta cercando per ucciderlo, un oscuro impiegato del suo impero finanziario che è stato da lui stritolato come tanti altri. Nella magnifica scena finale, costui gli punta la pistola dicendogli due volte «Tu non mi hai salvato, tu non mi hai salvato». Esattamente come il capitalismo non ha salvato dalla miseria miliardi di esseri umani, mentre era proprio questa salvezza che prometteva e che promette ancora.

Inquietante e gelido, fisico e virtuale, metafisico e antispettacolare, Cosmopolis è un film di enorme intelligenza anche perché basato sulla scrittura dell’omonimo romanzo di Don DeLillo. Come una volta venne detto dei film di Debord, qui non si esprime una teoria attraverso un racconto cinematografico ma si cerca di filmare direttamente la teoria. Una teoria che spiega come «il tempo sia diventato un bene aziendale». Poiché siamo tempo incarnato, questo significa che il Capitale sta succhiando il sangue dei nostri corpi sino a uccidere se stesso. L’interpretazione apparentemente scadente di Robert Pattinson nel ruolo del protagonista è forse funzionale all’asimmetria del film. Questo attore che sembra un “vampiro rincoglionito” -giusta l’efficace espressione dell’amica Silvana Mazza- sembra infatti dare al film tutto il suo non senso. Un non significato che, naturalmente, non è del film ma è della Finanza sprofondata nella sua propria luccicante barbarie.

La carne, le parole

A Dangerous Method
di David Cronenberg
Con: Michael Fassbender (Jung), Keira Knightley (Sabina Spielrein), Viggo Mortensen (Freud), Sarah Gadon (Emma Jung), Vincent Cassel (Otto Gross)
Dal romanzo A Most dangerous Method di John Jerr e dall’opera teatrale The Talking Cure di Christopher Hampton
Gran Bretagna, Germania, Canada, 2011
Trailer del film

Sùbito è la follia. Sabina Spielrein urla e scalcia mentre una carrozza la conduce all’ospedale di Zurigo dove sarà curata da Carl Gustav Jung. È il 1904. Il nuovo metodo inventato da Freud -parlare- conduce Jung a risultati eccellenti. Sabina guarisce, diventa medico e anche amante di Jung. Freud e il suo più promettente allievo si incontreranno prima a Vienna poi a Zurigo e andranno insieme negli Usa. Ma Freud impone una nuova ortodossia e si circonda di personaggi mediocri facendo di se stesso e delle sue teorie un vero totem paterno. Jung è troppo profondo, libero, interessato a ciò che va oltre la sfera sessuale -per quanto importante essa sia- e tocca gli archetipi universali della mente. La rottura sarà inevitabile. Nel mezzo, le relazioni, le verità, le bugie fra i tre personaggi.

La materia sentimentale ed emozionale del film viene da Cronenberg raffreddata in una magnifica eleganza formale e nel rigore scientifico dei dialoghi e delle situazioni, senza che però si perda nulla della “pericolosa” intensità di una vicenda che tanto contribuì alla nascita della psicoanalisi. Il film è dunque insieme elegante, colto e appassionato. Gli attori sono così plausibili da dare l’impressione di assistere ai dialoghi tra i veri Jung e Freud. Keira Knightley è inquietante nella verosimiglianza con la quale interpreta i gesti, gli sguardi, le parole di una donna folle. Cronenberg è la prova -ormai da molto tempo- di come si possano realizzare film popolari e spettacolari che non rinuncino però al rigore della forma e dei pensieri. Prima delle lacrime conclusive di Sabina Spielrein una scena raffigura l’immagine del suo collo in primo piano che dialoga con il profilo di Jung. E tutto il film è intessuto della densità inchiostrica delle lettere scambiate fra i tre. La carne, la parola e la mente diventano immagine.

Accident

di Soi Cheang
(Yi ngoy)
Hong Kong / Cina 2009
Con: Louis Koo, Richie Jen, Feng Tsui Fan, Michelle Ye

 

Le strade di Hong Kong sono sempre trafficatissime e gli scontri automobilistici risultano inevitabili. Trasformare dunque degli omicidi in incidenti significa compiere il delitto perfetto. È questa l’attività di un killer e dei suoi collaboratori, coi quali organizza incidenti apparentemente del tutto casuali ma progettati sino al centimetro e realizzati con la precisione dei secondi. Fino a quando lui stesso rischia di essere vittima di un bus impazzito, proprio nel giorno in cui dei ladri gli entrano in casa. «Non può essere un incidente». L’uomo si sente tradito, braccato, e organizza una vendetta. Ma il caso è l’altro nome della necessità.
Pensato forse anche come omaggio a Cronenberg, il film è elegante e geometrico. Nel finale intesse in una sola congiuntura il tempo climatico e quello degli orologi, forme dello spazio e della temporalità. Freddo e implacabile al modo delle antiche tragedie.

La montagna sacra

di Alejandro Jodorowsky
(La montaña sagrada)
Messico-USA, 1973

Un percorso di iniziazione dalla pianura politica e sociale alla montagna splendente e solitaria. La ricerca dei nove immortali che vi abitano è una foresta di simboli attinti dalle più diverse tradizioni religiose -compresa la cristologica-, magiche, astrologiche, esoteriche, alchemiche. Paure e potenze ancestrali si coniugano a un erotismo quasi meccanico e freddo; l’animalità intride ogni scena; i corpi vengono dipinti, sventrati, crocifissi, imbalsamati, ibridati; le istituzioni ecclesiali rappresentano la decadenza di ogni autentico sentimento religioso e sono punite con una costante irrisione; il potere è pura e insensata violenza; l’individuo un frammento del mondo.
Lo stile underground tipico dei Settanta appesantisce la già strabordante simbologia di colori, di costumi, di sfondi, nei quali prevalgono spesso il grottesco e l’orrorifico. L’invenzione espressiva è però ammirevole e probabilmente frutto di sostanze allucinogene. Il surrealismo diventa psicomagia e Jodorowsky -che del film è anche interprete, compositore, sceneggiatore- sembra porsi tra i Buñuel-Dalí di Un chien andalou e il Cronenberg di Videodrome e Naked Lunch. Lo scarto rispetto a ogni genere codificato emerge nell’imprevedibile chiusa, dove la finzione è svelata e il percorso deve ricominciare. Come sempre.

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