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Cosmologia / Medea

Recensione a:
Aa. Vv.
Cosmos?
Numero 54 di Krisis, octobre 2022
Pagine 142
in il Pequod , anno IV, numero 7, giugno 2023, pagine 196-199

L’ipotesi dell’eternità della materia/universo è confermata dalle critiche sempre più diffuse e argomentate che va ricevendo il modello (ancora) standard del cosiddetto Big Bang, il quale delineerebbe una problematica singolarità, impossibile da comprendere e persino da studiare sulla base delle leggi conosciute e dei metodi di indagine scientifici. Il tentativo perseguito da più parti di unificare la relatività generale e la fisica quantistica ha tra le sue condizioni e conseguenze il superare questa singolarità, riaffermando «l’éternité du temps passé, éliminant ainsi la problématique notion théologique de ‘cause première’» (Luminet).
A fondamento delle cosmologie antiche sta l’ipotesi realistica fondamentale, quella che non fa dipendere l’esistenza e le modalità del cosmo dalle percezioni, azioni e calcoli di una sua infima e inconsistente parte: noi. Dismisura che invece sta a fondamento della interpretazione di Copenhagen della fisica quantistica. Davvero ogni idealismo così come «la pensée constructiviste s’est développée à partir du sophisme anthropocentriste (la proclamation de Protagoras selon laquelle ‘l’homme est la mesure de toutes choses’)» (Jure Georges Vujic).

In questo assai ricco numero del Pequod è stata pubblicata anche una analisi a più voci del mito di Medea e della sua messa in scena, con la regia di Federico Tiezzi, quest’anno a Siracusa. Ho avuto il piacere di scriverne insieme a Sarah Dierna, Marco Iuliano, Enrico Palma, Marcosebastiano Patanè:

La selvaggia passione: Medea 2023 a Siracusa
Pagine 177-184

«Medea si presenta intrisa da un afflato profondamente antinatalista. Alla maniera lucida, consapevole e ‘passiva’ – per usare la categoria di Lachmanová – dei Greci naturalmente. […] Nella tragedia l’antinatalismo traspare nei gesti e nelle parole di Giasone, della moglie, della Nutrice, del Pedagogo e del Coro ma trasuda insieme dalle sciagure stesse di cui i mortali sono vittime e facitori. […]
Così canta il Coro:

E affermo che tra i mortali/ coloro che non hanno mai fatto esperienza di figli/ e non ne hanno mai generati/ sono più felici di chi ne ha messi al mondo. / Chi è senza figli, poiché non ne ha esperienza, / non sa se sia gioia o tormento l’averne, / proprio perché non gli sono capitati, / e così sta alla larga da molte inquietudini. / Ma chi ha nella sua casa il dolce germoglio di figli, / costoro li vedo sfiancati dalle preoccupazioni per tutta la vita: / innanzitutto su come crescerli bene e come lasciare loro di che vivere. / Poi, non è sicuro se si diano tanta pena / per figli che non valgono nulla o per figli eccellenti. / E dirò anche di una sciagura che è la peggiore per tutti i mortali: / ammettiamo che abbiano di che vivere, e siano nel fiore della giovinezza, e siano eccellenti. / Ma se così decreta il destino, / ecco che arriva la Morte e si avvia giù nell’Ade, / trascinando via i loro corpi.
(vv. 1090-1111, trad. di Angelo Tonelli)

E allora ‘tre volte meglio stare in armi che partorire anche una volta sola’ (v. 251, trad.  Tonelli). Solo in Euripide capita di leggere con così tanta onestà la sciagura insita nell’atto del generare che non si lascia intenerire dalla tenera prole già venuta al mondo».

La recensione e l’articolo dedicato a Medea sembrano una conferma di quanto affermato da David Herbert Lawrence nel 1931 in Apocalypse, citato da Ernesto De Martino nel suo capolavoro sulle apocalissi culturali:
«Forse la più grande differenza tra noi e i pagani sta nella diversità di rapporti col cosmo. Per noi tutto è personale. Il panorama che possiamo contemplare e il cielo non servono che da delizioso sfondo per la nostra vita personale. Persino l’universo della scienza si riduce a noi a poco più che una mera estensione della nostra personalità. Per il pagano il paesaggio e lo sfondo personale erano dopo tutto indifferenti, ciò che era invece reale era il cosmo. L’uomo viveva nel cosmo, consapevole della maggior grandezza del cosmo nei suoi confronti. […] Il nostro sole è cosa assai diversa dal sole cosmico degli antichi, è qualcosa di molto più banale. Noi possiamo vedere ciò che chiamiamo sole, ma abbiamo perso per sempre Helios e ancor più il grande disco dei Caldei. […] Questa è la nostra principale tragedia. Che cos’è il nostro meschino amore per la natura – la natura cui ci si rivolge come a una persona – al paragone di quel sublime vivere-col-cosmo ed essere-onorati-dal-cosmo!»
(La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi 2019, pp. 379-380).

Cosmo

Giorgio De Santillana – Hertha Von Dechend
Il mulino di Amleto
Saggio sul mito e sulla struttura del tempo
(Hamlet’s Mill. An essay on myth and the frame of time, 1969-1993)
Edizione riveduta e ampliata
A cura di Alessandro Passi
Adelphi, 2003
Pagine 630

Ancora una volta Nietzsche sembra avere ragione: per comprendere la distanza e la differenza rispetto a noi degli antichi miti la filologia non basta e anzi diventa a volte un fattore di grave misconoscimento. La complessità, la stranezza, la strabordante ricchezza dei racconti diffusi negli angoli e nelle epoche più diverse del pianeta formano una complessità circolare, un vero e proprio labirinto (altra immagine mitica, non a caso). E tuttavia i miti più lontani e più diversi narrano tutti gli stessi eventi, pur coprendoli con una varietà intricatissima di nomi.
Sembra che tutto ebbe origine nel Vicino Oriente, «da quella zecca “protopitagorica” situata nella “mezzaluna fertile” che un tempo coniò il linguaggio tecnico e lo consegnò ai pitagorici» (p. 360). Fu per tale discendenza orfica e pitagorica che Platone – una sorta di vivente “stele di Rosetta” – «sapeva ancora parlare la lingua del mito arcaico» (25), poiché egli non inventò i suoi miti ma li raccolse ponendoli in un contesto teoretico che preserva il loro enigma ma che nello stesso tempo ne rafforza la potenza. Il Timeo è una delle testimonianze più evidenti di questo compito che Platone diede a se stesso, poiché è il luogo in cui convergono e si dipartono i fiumi del pensiero cosmologico.
E sta qui la chiave di volta di questo straordinario libro, pullulante di varchi aperti verso una comprensione meno banale del mondo di ieri e di quello di sempre: «ciò che è veramente mito non ha basi storiche, per allettante che sia questa riduzione […] Il mito è essenzialmente cosmologico» (75). Il pensiero arcaico è cosmologico dall’inizio alla fine e le forze profonde della storia affondano ancora e sempre nel mito. Ecco spiegato perché dal Valhöll nordico ai templi di Angkor, dalle tribù amerindie alla Polinesia, dalla Mesopotamia agli Aztechi, dall’Islanda alla Cina, ricorrono gli stessi racconti, i medesimi personaggi sotto nomi diversi, gli stessi numeri. Non per una improbabile diffusione o per una sorta di inconscio collettivo ma più semplicemente perché i racconti fanno tutti riferimento al cielo e a ciò che gli esseri umani delle antiche ere vedevano in esso.

E che cosa vedevano? Pur rifiutando facili scorciatoie che trovano «semplici denominatori comuni a cui ricondurre tutti questi elementi» (558), gli Autori sono convinti e dimostrano che l’origine della mitologia umana stia in un fenomeno astronomico preciso e sconcertante rispetto a ogni esigenza di ordine, costanza, permanenza: la precessione degli equinozi, lo spostamento del perno intorno al quale il cielo sembra girare; dislocazione dovuta alla inclinazione dell’asse terrestre e alla differenza quindi fra l’equatore celeste e l’eclittica, la fascia dentro la quale si muovono il Sole, i pianeti, le costellazioni dello Zodiaco. La terra, insomma, si comporta come una trottola, un immenso giroscopio che compie un’intera rivoluzione ogni 25.920 anni. Quando gli esseri umani si accorsero di questo movimento, e se ne accorsero assai presto, sembrò loro che fosse precisamente tale scardinamento la causa prima di ogni distruzione e di ogni male. La definizione platonica del Tempo come «immagine in movimento di ciò che è stabile ed eterno » sarebbe quindi un riferimento assai rigoroso a tale spostamento dell’asse del mondo, al movimento a Χ (l’iniziale di Χρόνος), prodotto dalla precessione, un movimento che per Platone e per i miti ai quali egli attinge «descrive le Generazioni del Tempo stesso, il simbolo ciclico dell’eternità: ciclo dopo ciclo, giù giù fino agli spostamenti più piccoli, appena percettibili» (176).
Uno degli espliciti presupposti del libro è che le menti preistoriche e arcaiche furono in grado di comprendere tutto questo, che le conoscenze astronomiche delle antiche civiltà furono assai avanzate, tenendo naturalmente conto dei mezzi a loro disposizione, che quindi si debba «spostare molto più indietro nel passato gli inizi del pensiero scientifico e dell’osservazione dei fenomeni naturali» (417) e che l’umanità sia il risultato di processi di lunghissima durata, di conoscenze stratificate e trasmesse con i mezzi più diversi, in un alternarsi di scoperte, dimenticanze e rinascenze. Il mito, pertanto, non sarebbe «né fantasia irresponsabile né materiale per grevi studi psicologici né altre cose simili. Il mito è qualcosa di “totalmente altro” e vuole essere esaminato con occhi ben aperti» (383). Solo a queste condizioni quel mondo perduto, l’eredità «che ci viene dai tempi più antichi e più lontani» potrà essere ancora trasmessa ai «figli dei nostri figli» (30).

La polemica verso ciò che viene definito “evoluzionismo volgare” è diretta e frontale. Una semplicistica e dogmatica fede nel “Progresso” si è unita all’adozione acritica di un principio biologico qual è l’evoluzione in un ambito che non gli appartiene, quello delle idee. Il risultato –paralizzante – è che gli studiosi «con magnifico zelo hanno estirpato da tutta la mitologia la dimensione temporale» (334), che invece costituisce per l’umanità arcaica l’unica dimensione dell’esistenza cosmica. Per i Cinesi bisogna essere signori del tempo per aspirare a diventare sovrani dello spazio, quel tempo che vive e si incarna – elemento totalmente fisico – nel movimento dei cieli, «è il Tempo, solo il Tempo, che trasforma i Titani, già sovrani dell’Età dell’Oro, in “operatori di iniquità”. Sarà l’idea di misura, dichiarata o implicita, a mostrare il delitto fondamentale di questi “peccatori”: l’aver oltrepassato o “trans-gredito” il grado preordinato, e ciò viene inteso alla lettera» (185) perché Μοίρα è uno dei 360 gradi della circonferenza, quello oltre il quale non bisogna mai andare.
Il Tempo cosmico è Necessità, Χρόνος è paredro di Ἀνάγκη ed entrambi cingono l’intero universo. Il Tempo cosmico – definito da Platone la «danza delle stelle» – è musica, è legge, è numero, il cui ordine totale conserva ogni cosa e al quale tutti gli enti – divini, umani, animali, vegetali, minerali – obbediscono. Il tempo platonico è ancora questo Tempo arcaico che coincide con l’universo e «come l’universo esso è circolare e definito […] e tale continua a essere per tutta l’antichità classica, che credeva non nel progresso bensì negli eterni ritorni» (395). Ma anche prima e dopo Platone la filosofia greca seppe che l’essenziale accade nei cieli.

Prima di Platone, Anassimandro – secondo quanto ci riferisce Cicerone – pensava che «nativos esse deos longis intervallis orientis occidentisque eosque innumerabiles esse mundos» (De natura deorum, I, 25; qui a p. 497), che gli dèi nascano in lunghi intervalli di nascita e di tramonto e che essi siano mondi innumerevoli.
Dopo Platone, Aristotele – il sobrio maestro – «era fiero di affermare come fatto noto che gli dèi erano originariamente astri, anche se successivamente la fantasia popolare aveva offuscato tale verità» (23), che altre divinità non si diano, che le forze risiedano «nel cielo stellato e tutte le storie, i personaggi, le avventure di cui narra la mitologia si concentrano su coloro che, fra gli astri, sono le potenze attive, i pianeti» (212).
L’enigmatico annuncio riferito da Plutarco della morte del grande Pan può essere letto, in questa chiave, come il coinvolgimento della stella Sirio, fino ad allora risparmiata, nel grande moto di precessione degli equinozi. Un altro cardine del mondo veniva, infatti, in questo modo afferrato dalle spire del Tempo che tutto stritola, che tutto macina nel mulino cosmico che il tempo appunto è, «seppure non già come un mulino moderno a rotazione continua, bensì come un mulino a movimento alternato, paragonabile a un trapano» (16), a qualcosa che va su e giù muovendosi di moto vorticoso; una figura, questa, atta a descrivere esattamente il moto precessionale degli equinozi.
Nel Timeo si dice che il Demiurgo non ha generato tutte le anime destinate a nascere ma ha posto il seme dell’umanità «che si moltiplica ed è macinato in farina impalpabile nel Mulino del Tempo» (357). A chi appartiene questo immenso Mulino cosmico? A un personaggio che si chiama Amlódi, che assume i nomi più diversi nelle mitologie dei differenti popoli ed ere ma che sempre rimane legato alla radice greca –aòmulon, amido, fecola-, all’attività del macinare attimi, giorni, anni, intere epoche. Il Demiurgo platonico è ancora un altro nome dell’Amlódi islandese, che diventa Amleto, principe del mare del Nord e «dei suoi immani frangenti che macinano in eterno gli scogli di granito» (45).
Il Mulino di Amleto è l’intero cosmo il quale dopo l’Età dell’Oro in cui il piano dell’equatore e quello dell’eclittica coincidevano nella stessa circonferenza, ha cominciato a separarsi macinando dentro la propria macchina inarrestabile ogni cosa che in esso, nell’essere, transiti. Anche per questo «Principio degli enti è l’infinito (l’energia/campo il suo divenire…). Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la dissoluzione in modo necessario: le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine, al sorgere dell’una l’altra deve infatti tramontare. E questo accade per la struttura stessa del Tempo» (Anassimandroin Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13 ]DK, B 1])
Del Tempo cosmico nel quale il tempo umano acquista senso, vita, distruzione, rinascita.

Nel cosmo perfetto

Emil M. Cioran
La caduta nel tempo
(La chute dans le temps, Gallimard 1964)
Trad. di Tea Turolla
Adelphi, 1995
Pagine 131

Ogni filosofia che voglia intendere l’intero e non una sua parte perviene prima o poi alla comprensione o almeno all’intuizione di una differenza ontologica, perviene alla necessità di attribuire agli enti la loro giusta misura senza rendere nessuno di loro un elemento dominante nel cosmo perfetto e infinito.
La fecondità teoretica, e non soltanto esistenziale e stilistica, di molte pagine di Emil Cioran è dovuta proprio a questa differenza ontologica per la quale «la salvezza viene dall’essere, non dagli esseri» (p. 19). Coerente con questo bisogno di antropodecentrismo – che in altre pagine e tesi viene in realtà trascurato o negato nell’eccessivo peso che Cioran attribuisce alla sofferenza dell’accidente umano – lo scrittore individua ed elogia con grande chiarezza e con la consueta efficacia la differenza che il non umano rappresenta rispetto ai limiti della nostra specie.

Differenza rispetto all’energia e alla forza degli altri animali, che sono più in armonia con il mondo al quale appartengono, mentre l’umano ha bisogno di un continuo esercizio di ingegno per sopravvivere. Non Homo sapiens, dunque, «bensì il leone o la tigre avrebbero dovuto occupare il posto che egli detiene nella scala delle creature. Ma non sono mai i forti, sono i deboli che mirano al potere e lo raggiungono, per l’effetto combinato dell’astuzia e del delirio. Una belva, non provando mai il bisogno di accrescere la propria forza, che è reale, non si abbassa all’utensile» (16). Indicazione interessante anche per una filosofia della tecnica.
Differenza rispetto alla calma perfezione dei vegetali, nei quali Cioran individua a ragione «qualcosa di sacro», tanto che «colui che non ha mai invidiato il vegetale ha solo sfiorato il dramma umano» (127).
Differenza rispetto all’inanimato e all’inorganico poiché «la vita è una sollevazione dentro l’inorganico, uno slancio tragico dell’inerte: la vita è la materia animata e, bisogna pur dirlo, rovinata dal dolore. A tanta agitazione, a tanto dinamismo e a tanto affanno, non si sfugge se non aspirando al riposo dell’inorganico, alla pace in seno agli elementi» (85). Una pace che è ben chiara a  Sāriputta, discepolo del Buddha, convinto che il Nirvāna sia felicità, «e quando gli si obietta che non ci può essere felicità laddove non vi sono sensazioni, Sāriputta risponde: ‘La felicità sta appunto nel fatto che in essa non v’è alcuna sensazione’» (56). Cioran ne deduce che «il paradiso è assenza dell’uomo» (79), e io aggiungo assenza di ogni altro animale, di ogni altro dispositivo in grado di provare dolore ed esserne consapevole.
Differenza infine rispetto agli enti né animali né vegetali, gli enti che vivono «il sonno beato degli oggetti» (11).
La differenza ontologica diventa così differenza anche etica e soprattutto differenza esistenziale tra ciò che appare già segnato dalla consapevolezza della morte e ciò che emerge dal tempo come sua oggettiva incarnazione che durerà quanto la sua struttura chimico-fisica gli consentirà di durare ma non potrà esperire nessuna inquietudine in relazione a tale più o meno lunga durata. La differenza si pone tra gli enti i quali non possono rimettersi «dal male di nascere, piaga capitale se mai ve ne furono» e gli altri, tanto che «è con la speranza di guarirne un giorno che accettiamo la vita e sopportiamo le sue prove» (40).

Tra queste prove ce ne sono molte nelle quali l’umano eccelle, che si inventa nella ingegnosa creazione dei mali che è capace di moltiplicare verso le direzioni più varie. Un esempio è la recente tendenza collettiva (tramite sostanze definite ‘vaccini’ ma che vaccini propriamente non sono) a morire «dei nostri rimedi» invece che «delle nostre malattie» (34) e anche a imporre questa stoltezza a quanti se ne vorrebbero salvaguardare. Cosa che accade anche perché «l’intolleranza è propria degli spiriti turbati, la cui fede si riduce a un supplizio più o meno voluto che essi desidererebbero fosse generale, istituzionale» (30), vale a dire che molti cittadini (italiani e non solo) intuendo il pericolo che vaccinarsi ha rappresentato hanno preteso che questo rischio – liberamente da loro assunto – fosse imposto a tutti gli altri cittadini mediante misure dispotiche, violente, discriminanti. Come si vede, non c’è stata alcuna «generosità», «senso civico», «attenzione ai fragili» ma c’è stato un misto di sentimenti negativi quali l’aggressività verso il non omologato, l’invidia, il conformismo, il sadismo.

Rispetto a tali dismisure contemporanee, Cioran vede negli ‘antichi’, vale a dire nei Greci, un’altra differenza. Gli antichi sono infatti «sotto ogni aspetto più sani e più equilibrati di noi» (35); sono consapevoli dei limiti umani dati anche e specialmente dal nostro essere parte di un intero, del cosmo, dal fatto «che i nostri destini [sono] scritti negli astri, che non vi [sia] traccia di improvvisazione o di casualità nelle nostre gioie o nelle nostre sventure» (129).
Anche per cogliere ancora tanta sapienza «sempre a loro torniamo quando si tratta dell’arte di vivere, della quale duemila anni di sovranatura e di carità convulsa ci hanno fatto perdere il segreto. Ritorniamo a loro, alla loro ponderazione e alla loro amabilità, non appena accenni a scemare quella frenesia che il cristianesimo ci ha inculcato; la curiosità che essi destano in noi corrisponde a una diminuzione della nostra febbre, a un arretramento verso la salute» (38), verso la große Gesundheit, la grande salute della quale parla Nietzsche, la salute che rifiuta il compiacimento cristiano nel dolore, il quale «sarebbe parso un’aberrazione agli Antichi, che non ammettevano voluttà superiore a quella di non soffrire. […] Avvezzi a un Salvatore stravolto, stremato, contratto nella smorfia del dolore, non siamo adatti ad apprezzare la disinvoltura degli dèi antichi o l’inestinguibile sorriso di un Buddha immerso in una beatitudine vegetale» (93-94).

La caduta gnostica nel tempo è dunque anche la caduta nella «tristezza», che costituisce il «principale ostacolo al nostro equilibrio» (62). Essere come gli antichi, diventare come l’inorganico, come la roccia, le stelle, le acque. Questo è l’invito esistenziale che la differenza ontologica di Cioran può offrire a chi abbia finalmente dismesso un primato dell’umano nell’essere che è formula ridicola anche solo a scriverla.

Infiniti mondi

Giordano Bruno
De l’infinito, universo e mondi
(1584)
in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici»
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni, 1985
I volume, pagine 343-544 

L’onestà intellettuale di Giordano Bruno gli fa riconoscere la validità di alcuni argomenti di Aristotele, filosofo che pur critica aspramente. Un’onestà che lo spinge a dismettere ogni fede, pregiudizio, dogma. La consapevolezza metodologico-critica che fonda l’opera bruniana è ben espressa da questa affermazione: «Chi vuol perfettamente giudicare, come ho detto, deve saper spogliarsi della consuetudine di credere; deve l’una e l’altra contraddittoria estimare equalmente possibile, e dismettere a fatto quella affezione di cui è imbibito da natività» (p. 500).
I risultati di questo atteggiamento sono tra i più importanti e fecondi del pensiero moderno e si possono riassumere nella equiparazione della Terra a ogni altro corpo celeste; nella struttura isotropa dell’universo; nella necessità che intride il mondo fisico; nella identità tra corpo e tempo.
Bruno ribadisce infatti e dimostra che «non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente luogo e cielo (463). In questo modo il dualismo tradizionale -aristotelico ma non solo- tra mondo lunare e mondo sublunare scompare; l’indagine si può aprire a dimensioni inaudite e sconosciute, la cui infinità fa sì che in qualunque punto e luogo ci si trovi dell’universo, esso dà sempre l’impressione di essere il centro dell’intero. Tra gli innumerevoli soli, terre, astri, non esiste vuoto e vi sono 

innumerabili ed infiniti globi, come vi è questo in cui vivemo e vegetamo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo: in esso sono infiniti mondi simili a questo, e non differenti in geno da questo; perché non è raggione né difetto di facultà naturale, dico tanta potenza passiva quanto attiva, per la quale, come in questo spacio circa noi ne sono, medesimamente non ne sieno in tutto l’altro spacio che di natura non è differente ed altro da questo (518).

La materia è perfetta e dunque necessaria, poiché «non può esser altro che quello che è; non può esser tale quale non è; non può posser altro che quel che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa; atteso che l’aver potenza distinta da l’atto conviene solamente a cose mutabili» (384). Il determinismo è semplicemente la presa d’atto che la materia coincide con le sue stesse leggi, immutabili ed enigmatiche, delle quali l’umano è parte.
Di queste leggi è struttura fondamentale il tempo, vale a dire la potenza stessa del divenire che genera, dissolve e rigenera. Il corpo umano è anch’esso corpotempo. È infatti evidente «che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo fanciulli, e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani; perché siamo in continua trasmutazione, la qual porta seco che in noi continuamente influiscano nuovi atomi e da noi se dipartano li già altre volte accolti» (412-413).
L’energia e lo slancio del pensiero bruniano costituiscono una forza davvero rivoluzionaria. Il filosofo ne è del tutto consapevole. A Burchio il quale sconcertato obietta che «con questo vostro dire volete ponere sotto sopra il mondo», Fracastoro giustamente e sensatamente risponde chiedendo «ti par che farrebbe male un che volesse mettere sotto sopra il mondo rinversato?» (465). No, non farebbe male.

Infinito

Piccolo Teatro Studio – Milano
De infinito universo
Testo, ideazione visiva e regia Filippo Ferraresi
Scene Guido Buganza
Luci Claudio De Pace
Musiche Lucio Leonardi (PLUHM)
con Gabriele Portoghese, Elena Rivoltini, Jérémy Juan Willi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
coproduzione Théâtre National Wallonie – Bruxelles
Sino al 13 febbraio 2022

«Non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente, luogo e cielo». Lo scrive Giordano Bruno in De l’infinito, universo e mondi, un dialogo del 1684 (Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici, a cura di G. Gentile e G. Aquilecchia, Sansoni 1985, I volume, p. 463).
Lo spettacolo in scena al Piccolo di Milano assume di Bruno la prospettiva e il coraggio. La prospettiva è infatti quella dell’infinità del tempo, dello spazio e della materia. E dunque l’infinità degli enti, degli eventi e dei processi. Il coraggio è l’elemento più proprio di questo tentativo di tradurre il pensiero in gesti. Filippo Ferraresi cerca infatti di far recitare gli oggetti, far recitare i concetti. Lo fa attraverso fili che si tendono, sfere e cerchi che danzano, maschere apotropaiche, luci generate dai moti, e mediante i movimenti atletici e di danza di Jérémy Juan Willi, che veramente sembra volteggiare nell’aria, muoversi con la leggerezza di un uccello, comporre geroglifici con il corpo.
De infinito universo ha una struttura triadica. Inizia con una lezione di astrofisica chiara e coinvolgente, durante la quale a poco a poco emerge la smisurata misura della materia cosmica e l’essere nulla della Terra in essa. Appare poi un pastore che sente, pensa e recita il Canto notturno di Leopardi, dall’iniziale interrogativo  «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi che fai / Silenziosa luna?», transitando per il nascere dell’uomo a fatica, «ed è rischio di morte il nascimento», attraversando la «stanza smisurata e superba» dell’universo, sino al conclusivo ed esatto «è funesto a chi nasce il dì natale». Si chiude con un’attrice che canta note gelide e antiche, trasformandosi poi nella collaboratrice di un potente personaggio politico -l’attuale e infausta presidente della Commissione Europea- al quale chiede se ci si possa accontentare dei bilanci finanziari trimestrali e della crescita o meno del PIL o se si debba cercare un significato diverso al nostro stare al mondo. Alla signora che dirige assai male il governo dell’UE vengono rivolte altre critiche che mi ha sorpreso ascoltare in uno spettacolo messo in scena in uno dei luoghi più istituzionali di Milano.
I tre monologhi sono intersecati dai movimenti atletici del danzatore e da un insieme bellissimo e necessario di luci che fendono lo spazio, che sorgono dalla terra, che indicano e insieme si dissolvono, esattamente come fa ogni luce nel mondo.
Nella lezione dell’astrofisico, nell’interrogare di Leopardi, nella lettera ai potenti, si percepisce tutta la forza della materia e del tempo, dell’entropia e della dissoluzione. Un «teatro transdisciplinare», come lo definisce l’autore/regista, fatto di testo, immagini, energia dei corpi.
Al centro e ovunque l’infinito della materia, uno dei concetti fondamentali della filosofia e delle scienze che vennero dopo Giordano Bruno. Fu infatti in gran parte il concetto bruniano di infinito a mettere in crisi il paradigma antropocentrico – confermato per millenni dalla cosmologia tolemaica e aristotelica – e poi ad ampliare gli spazi della mente e della materia verso misure impreviste e impensabili.
Se l’astronomia antica dava conforto alla mortalità umana ponendo la nostra specie in ogni caso al centro del cosmo, la scienza contemporanea ha aperto agli astronomi e a tutti gli umani «il regno delle galassie e relegato la Via Lattea a semplice esemplare di un universo isola» (Massimo Capaccioli, L’incanto di Urania. Venticinque secoli di esplorazione del cielo, Carocci 2020, p. 278), dentro il quale l’esistenza e il millenario lavoro delle menti coscienti non hanno più peso e significato del rotolare di un sasso sulla Luna.
Pervenire a tale consapevolezza, essere lieti dei propri limiti dentro la perfezione del cosmo, anche questo e credo soprattutto questo sia la filosofia.

Storia e materia

Epilogo? – Tamas Dezsö
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXVII – numero 76 – maggio 2021
pagine 20-29

Nella serie del fotografo Tamas Dezsö intitolata Notes for an Epilogue la materia è fatta di animali che si indossano, di animali con i quali si convive, di animali che si temono e che si amano, di greggi e di orsi, di stormi sempre in volo sopra le discariche. Ma soprattutto di animali che si è. La materia vegetale di boschi, di acque, di campi, di verdure, di prati resi bianchi dall’inverno o fulgenti di verde come fossero diamanti. Pur nella loro bruttura di rovine dei veleni, del veleno più letale che è la speranza tradita della storia, i resti della tracotanza umana quando vengono abbandonati tendono a somigliare sempre più all’armonia, ad avvicinarsi all’intatto silenzio dei laghi, delle chiese che dai laghi spuntano, delle conifere che attendono con la medesima pazienza il raggio della luce che le inonda, il gelo della neve che le ferma. Ciminiere, campanili, alberi, tendono sempre tutti verso il cielo, dal quale si aspetta una salvezza tanto più bramata quanto invece l’orizzonte della storia è stato feroce o indifferente. E in effetti è dall’alto che viene la salvezza, dalla materia cosmica che si condensa, diventa stelle, si raffredda in pianeti, si evolve esplodendo e lanciando la propria energia nello spaziotempo, ritornando così a essere polvere che si addensa a formare nuove stelle e le galassie che le raccolgono, si formano, si dissolvono e si riformano, per sempre. Una meraviglia, la cui unica nota stonata è la sofferenza che chiamiamo ζωή, vita, è la sofferenza che chiamiamo storia. Ma è talmente insignificante da non dovercene davvero preoccupare.

Sullo stesso numero della rivista sono usciti gli articoli di altri due studiosi di Unict. Uno di Enrico Moncado: Shooting in Sarajevo, l’altro di Enrico Palma: Suite N. 5.

Et etiam rerum

Teodorico di Freiberg
DURATA E TEMPO
Sulle misure – Sulla natura e proprietà dei continui
(De mensuris – De natura et proprietate continuorum)
A cura di Andrea Colli
Edizioni di pagina, 2017
Pagine 190

L’intero essente, tutto ciò che è materico ed è pensabile, consiste in una fuga, nel divenire, nell’essere stato, nel non essere più, nel poter essere ancora. Tutto «consistit esse suum in quodam transitu» (De natura et proprietate continuorum, §5, p. 128) ma quale sia la modalità di questo passare è l’enigma.
Dietrich (Teodorico) di Freiberg (1240-1310) penetra in tale enigma cercando di coniugare l’interiorità agostiniana e la fisica aristotelica mediante le raffinate analisi di Averroè, per il quale il tempo ha una provenienza e una struttura sia intrinseca sia estrinseca. Sarebbe l’anima infatti a rendere pienamente esistente in atto il tempo che nel solo moto dei corpi fisici esiste in potenza. Sarebbe dunque la mente a produrre il tempo come significato e regola del divenire intrinseco a ogni ente. Una attualizzazione che Teodorico conduce a esiti arditi, attribuendo alla forza semantica dell’anima anche la permanenza del passato e del futuro e quindi l’esistenza reale e universale del tempo.
La spazializzazione e l’interiorizzazione del tempo sono entrambe presenti nell’elaborazione aristotelica della temporalità. Se, infatti, «tempus non est aliqua res naturae extra animam»  (Ivi, 3.6, p. 138), è anche vero «che [noi] non apprendiamo il tempo, né lo determiniamo, né misuriamo la sua estensione, che è la sostanza stessa del tempo, se non prendendo due istanti tra i quali osserviamo l’estensione, l’essenza e la quantità del tempo» (Ivi, 3.13, p. 147).
La tensione cosmologica che sempre attraversa la filosofia scolastica del tempo è riassunta da Teodorico in due diversi modi di distinguere la temporalità degli enti, di tutti gli enti: da quello divino alla miriade di entità corruttibili ed effimere. Per il primo modo l’aeternitas è ciò che non ha inizio né fine, l’aevo ha un inizio ma non subisce alcuna fine, il tempus è proprio di tutti gli enti, eventi e processi che vengono al mondo e poi si dissolvono.
Altri, invece, propongono quattro forme, che sono aeternitas, sempiternum, perpetuitas, tempus, che Teodorico così descrive: 

Per quanto riguarda la durata, l’eternità è la misura di Dio e questo per la sua anteriorità rispetto all’esistenza dell’universo. In secondo luogo, aggiungono che la misura dell’universo nella sua totalità è la sempiternità in confronto all’eternità, per il fatto che l’universo, per quanto riguarda l’inizio della sua esistenza, è secondo solo all’eternità, mentre è privo di una fine. In terzo luogo, essi considerano quelle cose che, quanto alla misura della loro durata, sono perpetue, ovvero quelle cose che, in qualunque tempo abbiano il loro essere, durano tuttavia per tutta la perpetuità dell’universo, senza fine. In quarto luogo, determinano la misura della durata degli enti quanto alla coesistenza, all’anteriorità o anche alla posteriorità degli enti stessi, in modo tale che alcune cose si dicono presenti, e reciprocamente presenti, per il fatto di essere simultanee e future, secondo la loro anteriorità e posteriorità. [Quest’ultimo lo] chiamiamo ‘temporalità’ come distinta secondo presente, passato e futuro.
(De mensuris,  2.2, pp. 73-75).

In questi trattati rigorosi, ripetitivi e faticosi come è tipico dei testi della Scolastica, si legge un brano scintillante che sembra racchiudere e sintetizzare la molteplicità temporale della filosofia greca e lo sguardo prospettico di quella moderna:

È allora chiaro che il tempo, per quanto riguarda la sua origine è riconducibile -secondo la sua sostanza- al moto celeste (in motum coeli), come a causa primaria; in secondo luogo e in modo più immediato è invece riconducibile all’atto della nostra immaginazione (in actum phantastici nostri), per mezzo della quale percepiamo di essere un ente divisibile; in terzo luogo, è invece riconducibile alla nostra stessa attività di ragione (in ipsum rationale nostrum), per mezzo della quale, in base ai diversi termini di ciò che è stato chiamato ‘ente divisibile’ (divisibilis esse) determiniamo due istanti e tra essi una qualche, per così dire, estensione della durata (quasi durationis extensionem).
(De natura et proprietate continuorum, 5.3, 6; p. 159).

E dunque Spinoza, che alla Scolastica attinse, si sbaglia quando ipotizza che tempus non est affectio rerum, che il tempo non esista se non come dato puramente mentale, poiché -come anche le analisi di Teodorico ben mostrano- è più corretto dire che tempus est affectio hominum et etiam rerum. E molto altro.

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