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Volare

Birdman o
(l’imprevedibile virtù dell’ignoranza)
[Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance)]
di Alejandro González Iñárritu
USA, 2014
Con: Michael Keaton (Riggan Thompson), Edward Norton (Mike Shiner), Emma Stone (Sam), Zach Galifianakis (Jake), Andrea Riseborough (Laura), Naomi Watts (Lesley), Amy Ryan (Sylvia)
Trailer del film

birdman-1Ha ottenuto fama e danaro interpretando l’uomo uccello. Ma Riggan Thompson vuole chiudere con il personaggio e con la saga di Birdman e dimostrare di essere un vero attore, un attore di cose serie, di teatro. Adatta, interpreta e dirige What We Talk About When We Talk About Love di Raymond Carver. Durante le prove e le anteprime succede veramente di tutto, compreso lo scontro fisico con l’attore coprotagonista, un convinto narciso. La critica è pronta a stroncare spettacolo e ambizione artistica di Thompson che però ha un colpo d’ala (è il caso di dire) inventando un nuovo genere teatrale, il super realismo.
Birdman è una descrizione onirica e grottesca non soltanto della psiche dell’attore -egocentrico, egoista, ego-, ma anche e soprattutto della società dello spettacolo. Non quella di Carver, non quella di Birdman o di Batman -che è stato davvero interpretato con grande successo (e incassi) da Michael Keaton- ma la società della Rete, di twitter, di facebook, di youtube. Una società dove si esiste soltanto se si abita in questi spazi virtuali. La figlia Sam rimprovera a Riggan di essere nessuno -alla lettera, di non esserci- perché, appunto, non possiede nessuna identità sui Social Network. La vocazione dell’attore, vale a dire la vocazione di noi tutti quando entriamo in contatto con gli altri, la vocazione ad apparire, è diventata lo spettacolo di massa, è diventata il fluire senza fine di messaggi, testi, frammenti, video, inseriti a miliardi e senza interruzione sulla Rete, compreso questo stesso testo che state leggendo.
«Smantellando le percezioni spazio-temporali e le esperienze sensibili e sostituendole con immagini prive di alcuna aderenza con il reale, i soggetti si trovano nella condizione di essere continuamente investiti e infarciti di nulla, sentendosi però paradossalmente appagati dalla fagocitazione continua di simulacri. […] Lo spettacolo promette felicità e notorietà solo a chi si lascia ubriacare e ripiega docilmente verso la passività, così il vuoto lasciato dalle azioni-non-agite e dai pensieri-non-pensati viene immediatamente riempito dallo svago e dal di-vertimento: ossia dal vuoto stesso». (Alessia Vacante, La vita offesa: Adorno, Debord e la società postmoderna, tesi di laurea magistrale in corso di redazione). Se questo vale per tutti, giunge all’acme nella persona e nella presenza dell’attore, che dell’apparire è un professionista. Il film è dunque anche una radicale fenomenologia dell’apparenza, come viene esplicitamente teorizzata da Mike, il quale dichiara di «fingere sempre, tranne quando sono sulla scena».
Ma Birdman è soprattutto un radicale esercizio formale. Si tratta infatti di due ore di film frutto di quattro soli piani sequenza. Certamente ci sono delle cesure secondarie che sono state ben nascoste ma il risultato visuale è una raffinatissima e vorticosa successione di azioni e movimenti che non sembrano aver subìto montaggio ma essere scaturite dal ritmo spaziotemporale della vita.
Un modello è il cinema di Altman, un altro è la straordinaria scena iniziale del Falò delle vanità di Brian de Palma, un lungo piano sequenza che qui viene ripetuto di continuo, con il risultato di far diventare il cinema ciò che è: una pura costruzione della mente individuale e collettiva.
Riggan Thompson siede sull’aria, sposta gli oggetti senza toccarli, vola sulla città. Tutto questo accade realmente o nella sua fantasia? Una domanda priva di senso. Ciò che conta è che dalle sue azioni, intenzioni, allucinazioni scaturisca uno spettacolo barocco e visionario, scaturisca il cinema. Un desiderio di volare verso la propria solitudine, quella nella quale si è felici non perché altri riconoscono il nostro valore, il nostro significato, la nostra esistenza, ma perché stiamo volando. E basta. Birdman.

Immagine / Movimento

GLITCH
Interferenze tra arte e cinema

PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Davide Giannella
Sino al 6 gennaio 2015

di_Martino8A questa mostra si attaglia benissimo la definizione del cinema come «immagine in movimento». L’opera esposta è infatti il cinema stesso, sono i film. Tre luoghi del PAC sono trasformati in sale nelle quali è possibile vedere senza interruzione 64 opere, lunghe e brevi, provenienti da tutti i continenti, permeate di stili diversi ma tutte con l’intenzione di far diventare il cinema ciò che è: invenzione, documentazione, sogno, filosofia.
Solo due esempi: Petite histoire des plateaux abandonnès (Rä di Martino) trasforma in metafisica i set utilizzati per alcuni film e poi abbandonati nel deserto del Marocco. Pura archeologia cinematografica, rovina, tempo.
In Pattini d’argento (Anna Franceschini, Diego Marcon, Federico Chiari) gli esercizi di alcune ragazze sul ghiaccio diventano -per merito del taglio e del montaggio- un’epifania del movimento,
Ai film si alternano sculture, installazioni, fotografie. Le sculture di Rosa Barba fanno muovere pellicole e fotogrammi al ritmo della meditazione. Nell’opera di Virgilio Villoresi, Click-Clack, le immagini sono in movimento meccanico mediante l’utilizzo di tre flipbook motorizzati e dell’ombro cinema. Il Tiberio di Francesco Vezzoli è fatto di lana e ricamo in filo metallico. Paolo Gioli isola e trasforma vari fotogrammi da vecchi film di inizio Novecento.
In alcuni artisti emerge l’inevitabile manierismo del contemporaneo ma l’insieme della mostra costituisce una riuscita ibridazione tra le forme del vedere.
Propongo la visione del film di Rä di Martino: Copies récentes du paysages ancienne / Petite histoire des plateaux abandonnés

Immagine / Tempo

João Maria Gusmão & Pedro Paiva
Papagaio

A cura di Vicente Todolì
HangarBicocca – Milano
Sino al 26 ottobre 2014

Papagaio_1Immagini silenziose. L’unico suono è quello dei proiettori di pellicole a 16mm e 35mm che irradiano sulle pareti strani mondi, paradossali metafore, eventi in slow-motion che in questo loro andare cadenzato e irreale mostrano sino in fondo l’illusione percettiva che ogni reale rappresenta.
Gusmão e Paiva fondono il cinema documentaristico dei fratelli Lumière e il cinema magico di Georges Méliès. In questo modo uova che friggono, tartarughe che avanzano, palline che saltano, ruote che girano, soli che tramontano, riti dionisiaci, alberi che cadono, ombre che si muovono, tutto questo e altro va ed esiste nel più assoluto silenzio.
Percepiamo così, ancora una volta, quanto il ritmo, la velocità, il tempo siano costitutivi di ciò che chiamiamo realtà e di come si possa far filosofia con tecnologie ormai desuete ma poste al servizio della più avanzata estetica dell’immagine-movimento.

Pasolini / Milano

LA NEBBIOSA. Lo sguardo di Pasolini su una Milano ormai scomparsa
Milano – Palazzo Moriggia / Museo del Risorgimento – Laboratorio di Storia Moderna e Contemporanea
A cura di F.G. Confalonieri
Sino al 14 settembre 2014

la-nebbiosa«Che Pasolini non fosse interessato a Milano è un luogo comune duro a morire» affermano giustamente i curatori di questa mostra. Vorace di vita e curioso di sapere com’era, Pasolini capiva infatti che la città lombarda era il luogo dove la mutazione antropologica degli italiani stava avvenendo nel modo più chiaro. Anche per questo accettò nel 1959 la proposta di scrivere la sceneggiatura di un film ambientato nel mondo dei teddy boys, dei giovani teppisti imitatori dello stile di vita statunitense.
Nel novembre di quell’anno Pasolini esplora dunque la città «con un gruppo di ragazzi teppisti quanto basta, che gli fanno da guida linguistica e antropologica». Il titolo del progetto era La Nebbiosa, a indicare uno dei massimi luoghi comuni sulla città ma certamente anche evocativo delle sue atmosfere. Quel film poi non si fece -o fu realizzato in modi lontanissimi da quanto Pasolini aveva pensato- e la sceneggiatura integrale è stata pubblicata soltanto di recente (sul numero 3 della rivista Arabeschi Maria Rizzarelli ne fa un’analisi densa e rigorosa ).
La mostra consiste in immagini scattate negli anni Sessanta, alle quali si accompagnano brani della sceneggiatura pasoliniana. Il risultato è davvero coinvolgente sia per la qualità delle fotografie (di Cattaneo, Berengo Gardin, Scianna, Colombo, Dabbrescia, Garolla, Oliviero, Barbey, Benzi, Zanni, Milani, Strizzi, Gelmi) sia per la densità e bellezza del testo.
La vicenda accade tutta in un giorno, il giorno di Capodanno, uno di quei momenti nei quali l’obbligo di divertirsi può condurre ai peggiori esiti. L’itinerario dentro la città ha inizio a Metanopoli e si conclude a San Siro, nei pressi di quello stadio che una foto del 1964 mostra ancora immerso nel verde, mentre adesso è -ovviamente- circondato da case e quartieri. Tra questi due luoghi si dipana ciò che può accadere a un gruppo di teppistelli in cerca di emozioni, trasgressione, alcol, donne. Pasolini sa che la loro violenza -anche contro i padri- è del tutto sterile. Scrive: «Ma non li odiate abbastanza…perché, in fondo, siete come loro» e infatti veniamo a sapere che nel 1995 «si fanno vivi con i giornali i due principali informatori di Pasolini  -il Gimkana e El Lobo- […] diventati nel frattempo stimati professionisti». Questi futuri professionisti non praticano soltanto eccesso e violenza ma con i loro compagni ballano a lungo in un locale «tutti presi dal ritmo che ha qualcosa di religioso, di mistico» e sanno anche gioire: «Le loro risa di gioia risuonano nella strada deserta, in fondo alla quale si intravede la sagoma dello stadio, una costruzione che pare metafisica».
Altre costruzioni emergono nel freddo della notte e dell’alba: «Dietro quell’ammasso di macerie splendono le sagome di quattro, cinque, grattacieli: il Galfa, il Pirelli ecc.  Sono immagini stupende: sfolgorano di luci come giganteschi diamanti, come colossali fantasmi pietrificati». A risuonare è spesso soltanto il silenzio di giovani che -dirà qualche anno dopo Pasolini- «sanno solo ghignare o sghignazzare» (Lettere luterane, Einaudi 1976, p. 9). Una profonda malinconia attraversa dunque questo progetto: «Di nuovo nessuno gli risponde: e, fuori, quel paesaggio ossessivo di immagini tristi, di viali, senza speranza».
La Nebbiosa fu pensato da Pasolini anche come risposta alla Milano di Giovanni Testori, i cui testi lo avevano affascinato, in particolare Il Dio di Roserio. Entrambi guardano agli umani e ai loro spazi con disincanto ma anche con pietà e con poesia.

Ossessione / Puzza

Maps to the Stars
di David Cronenberg
Canada-Usa, 2014
Sceneggiatura di Bruce Wagner
Con: Julianne Moore (Havana Segrand), Mia Wasikowska (Agatha Weiss), Evan Bird (Benjie Weiss), John Cusack (Stafford Weiss), Robert  Pattinson (Jerome Fontana), Olivia Williams (Christina Weiss), Sarah Gadon (Clarice Taggart)
Trailer del film

maps_to_the_starsUn ragazzino che guadagna milioni di dollari recitando commedie televisive. La madre che lo adora. Il padre psicologo ambiziosissimo e glaciale. Un’attrice scadente che sogna di interpretare il ruolo della propria madre, anche lei attrice e morta in un incendio. Un autista di limousine che vorrebbe recitare. Costoro sono circondati da agenti, registi, colleghi. Circondati da adolescenti i quali sembrano spaventosamente adulti nel modo di vestire, parlare, drogarsi, progettare, morire. I vivi sono spesso visitati dai morti, dai fantasmi generati dalla loro frenetica arroganza, dai loro delitti.
In questa Los Angeles arriva la ventenne Agatha. Non si sa da dove e come. Ha cicatrici da ustioni su gran parte del corpo. Recita ossessivamente Paul Éluard: «Sur mes cahiers d’écolier / Sur mon pupitre et les arbres / Sur le sable sur la neige / J’écris ton nom. […] Sur l’absence sans désir / Sur la solitude nue / Sur les marches de la mort / J’écris ton nom // Sur la santé revenue / Sur le risque disparu / Sur l’espoir sans souvenir / J’écris ton nom // Et par le pouvoir d’un mot / Je recommence ma vie / Je suis né pour te connaître / Pour te nommer // Liberté». La libertà a cui Agatha aspira è quella dell’amore, del crimine, della morte. È figlia dello psicologo e sorella del divo. Non la vogliono. Agatha è pazza e saggia. Lei e il fratello sono frutto di un incesto non voluto, come quello di Edipo. Ma tutti devono pagare. L’altra protagonista, l’attrice fallita, ripete più volte la parola «puzzare». Parola detta ad Agatha, a se stessa, a tutti. Grande è la sua gioia quando la morte di un bambino le offre la parte alla quale ossessivamente aspirava.
È forse questo il momento più feroce di un film estremo. La ferocia di una gioia sincera e completa che si nutre del dolore altrui. Maps to the Stars è commedia, è tragedia, è iperbole, è sarcasmo, è volgarità, è fissazione, è  putrefazione. Un film gelido e mortale, nel quale la mostruosità che percorre tutta l’opera di Cronenberg non ha più bisogno del doppio, degli insetti, della tecnologia, della claustrofilia. E si dispiega assoluta e compiuta in una metafora dell’umanità priva di luce, moribonda nel bagliore di un fuoco che divora le stelle.

 

Sotto a chi prof

biuso_zammùQualche giorno fa ho partecipato al programma di Radio Zammù -la radio degli studenti dell’Università di Catania- Sotto a chi prof.
Programma che consiste nell’intervistare un docente dell’Ateneo su disparati argomenti. Dialogando con la bravissima e ironica Fabiola Munda mi sono divertito molto. Spero che sia stato piacevole anche per chi ci ha ascoltato.
Questo è il link all’intervista: Sotto a chi prof – Puntata 46

 

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