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Bergson

Henri Bergson
Storia della memoria e storia della metafisica
(Histoire des théories de la mémoire, 2001 – Lezioni al Collège de France del 1904)
A cura di Rocco Ronchi e Federico Leoni
Traduzione di Federico Leoni
Edizioni ETS, 2007
Pagine 149

Molteplice è per sua natura la metafisica perché molteplice è la realtà che essa cerca di descrivere. Metafisica  è stata ed è anche una rimozione dell’immanenza, del tempo, della durata, della differenza. Essa è stata ed è anche il perdente dualismo che a partire da Cartesio separa una struttura interiore e inestesa dalla materia oggettiva e corporea, separa il mondo delle certezze matematiche dall’inquieta mobilità della vita.
Ma questa è la metafisica cartesiana che sta al fondo della scienza moderna, non è l’intera metafisica.
Descartes ha infatti collocato nel mondo delle relazioni matematiche ciò che la metafisica greca poneva nel luogo della trascendenza. Tanto da produrre «una metafisica interamente nuova. Non c’è più bisogno di abbandonare il mondo delle cose sensibili per trovare il mondo della scienza, si può restare in quel mondo a condizione di considerare non più le cose, ma i rapporti, le relazioni. È questo il motivo per cui la scienza degli antichi trascende il mondo sensibile, assume il mondo sensibile solo in forma idealizzata, mentre la scienza moderna è immanente al mondo sensibile, ha per oggetto il mondo sensibile stesso» (p. 96).
La continuità e la coerenza tra l’interiorità che pensa e l’esteriorità che si muove nello spazio sono diventate un problema -di fatto insolubile se non con il ridurre l’una dimensione all’altra- soltanto a partire dalla ferita cartesiana all’intero. La quale produce molti effetti di finzione, come quelli che generano la pretesa di vedere la mente al lavoro. Le parole con le quali Bergson disvela questa finzione sono state e continuano a essere confermate dalle tecnologie di Brain imaging, la cui modalità di analisi e lettura delle attività cerebrali è in realtà soltanto indiretta e statistica. Era quindi vero un secolo fa ed è vero nel presente il fatto che «non abbiamo mai potuto vedere il cervello al lavoro, non abbiamo a tutt’oggi un’idea del meccanismo dell’azione cerebrale. Che il cervello sia al lavoro allorché noi abbiamo coscienza di un ricordo, è incontestabile; che il cervello giochi un qualche ruolo nell’operazione della memoria, è certo. […] Tutto questo è sicuro, ma di che natura è l’intervento del cervello che così viene indicato? In che cosa consiste? Che cosa accade, in altri termini, quando qualcuno di noi ricorda qualcosa? Non abbiamo fatto molti progressi, su questo punto, rispetto ai tempi di Descartes o di Aristotele. Non abbiamo alcuna idea, o abbiamo soltanto una vaga idea, di questo meccanismo cerebrale. Ci limitiamo, come sempre ci si è limitati, a formulare ipotesi» (105-106).

Paradossale, ma anche significativo di una perdita di coraggio della filosofia, è inoltre il fatto che gli scienziati sono in genere consapevoli delle modalità e dei limiti delle loro ricerche e delle metodologie sulle quali si fondano, gli scienziati «si rendono ben conto che si tratta di una prospettiva soltanto provvisoria», mentre un numero sempre troppo alto di filosofi «ritrovando il meccanicismo tradotto in termini scientifici, immaginano che si tratti di scienza pura e semplice, di dati tratti dall’osservazione, di dati empirici. In realtà non fanno che ritrovare, loro che sono dei metafisici, la metafisica stessa, rinviata ai loro occhi come attraverso uno specchio; uno specchio non sempre perfettamente fedele, uno specchio che talvolta deforma le teorie» (147). Anche questo accade oggi come accadeva nel 1904.

Le lezioni tenute da Bergson al Collège de France a inizio Novecento offrono dunque elementi metodologici e teoretici di grande rilevanza, come la consapevolezza che per tutti i Greci il σωμα è qualcosa di molto meno materiale e la ψυχή qualcosa di assai meno spirituale di quanto riteniamo noi oggi. Sta qui un elemento particolarmente originale e fecondo, capace di comprendere e mostrare che per Aristotele e Platone «la materia appare come il puro indeterminato, la pura negazione, ogni oggetto materiale è forma, forma cui si aggiunge qualcosa come una negazione, qualcosa che non comporta definizione, che si sottrae a qualsiasi definizione, che non ha alcun carattere logico o intellegibile; il che significa che ciò che vi è di essenziale negli oggetti, la loro essenza è qualcosa di immateriale. Ma a sua volta l’anima, dicevamo, è, in Aristotele, e negli antichi, qualcosa di meno puramente spirituale di quanto intendiamo noi moderni, dato che per loro l’anima è distinta dall’intelligenza, dato che per loro l’anima è entelechia del corpo organizzato, cioè formula delle funzioni del corpo, totalità delle funzioni che un corpo organizzato è in grado di compiere» (85).
Per i Greci il corpomente è appunto tale, non una struttura materica alla quale si aggiunge la coscienza a destarla -come fece Pigmalione con Galatea-, non un corpo e un’anima separati bensì un’unità articolata e complessa, costituita di materia protoplasmatica, consapevolezza che la materia ha di esserci, immersione di tale materia in un mondo fatto di relazioni, alterità, differenze.

Parassiti e metafore

Mente & cervello 124 – aprile 2015

Toxoplasma_gondiiIl linguaggio non è soltanto un modo del comunicare, una descrizione di enti e di situazioni, un protocollo di regole. Il linguaggio contribuisce a generare per noi la realtà. È questa una delle ragioni che rendono difficile e forse impossibile la costruzione di un’intelligenza artificiale, poiché intelligenza vuol dire anche e in gran parte linguaggio e quindi «la necessità di andare, più frequente di quanto si pensi, oltre il significato letterale delle parole» (D.Ovadia, p. 51). Una delle maniere più efficaci per andare al di là del ‘significato letterale delle parole’ -vale a dire al di là della semplice descrizione protocollare del mondo- è la metafora. Di metafore il nostro linguaggio, e dunque il nostro mondo, è intriso. Sino, spesso, a non rendercene neppure conto. Metafora viene dal greco e significa trasportare una parola da un contesto a un altro, spostare il senso per  comunicare con maggiore efficacia ciò che pensiamo e per indicare nessi profondi tra gli enti, gli eventi, i processi. «Sei un sole», «oggi splende il sole», «sei luminosa come il sole» sono tre espressioni simili. La terza è una similitudine, la seconda una descrizione letterale, la prima una metafora.
Esistono delle «strutture cerebrali deputate a elaborare il linguaggio metaforico» (Ibidem), tanto da far sembrare il cervello un organo naturaliter filosofico. Le metafore sono talmente potenti da determinare il modo stesso nel quale vengono affrontate questioni fondamentali, come quella del tempo. Bergson è convinto che il linguaggio sia in gran parte un ostacolo alla comprensione del tempo poiché trasferisce (metaforizza) l’ambito temporale in uno spaziale. Le ricerche contemporanee sulla metafora sembrano dargli ragione. Infatti «poiché i nostri occhi guardano avanti, il futuro è pensato, immaginato e rappresentato come ‘davanti a noi’. Le metafore danno forma al tempo e influenzano persino le teorie scientifiche» (Id., 52).
Questo esempio suggerisce, inoltre, che le metafore hanno un’origine e una struttura profondamente corporee. Non è affatto vero, come invece ritengono le prospettive cognitivistiche, che il linguaggio sia una struttura formale indipendente dalla corporeità. Tutt’altro: «Le metafore fanno da legame tra linguaggio, emozioni, sensi e corpo. E possono influenzare il nostro comportamento, anche in modo implicito, proprio perché incidono su un network cerebrale complesso» (Id., 53). Il corpo stesso è anche una struttura linguistica, la cui sintassi e semantica variano «in base alla situazione e al singolo individuo» (A.Gojowsky – Gielas, 63).
La varietà dei linguaggi, delle situazioni spaziotemporali, dei corpi, produce anche la varietà dei comportamenti e delle loro regole. Ritenere che esista soltanto un codice morale, un unico decalogo valido sempre e ovunque, un solo imperativo formale, significa ignorare la complessità del mondo umano, poiché «l’uomo è nato per avere una morale, non per avere una morale ben precisa» (S.Ayan, 69). Un solo esempio, ricordato da Ayan: tra gli etoro della Nuova Guinea «c’è l’usanza che i giovani, per essere accettati nella comunità degli adulti, debbano essere ‘inseminati’ da maschi maturi, ossia che pratichino loro il sesso orale raccogliendone in bocca il seme, che dovrebbe servire a far maturare la loro capacità riproduttiva» (65). Già Pascal osservava che vero e falso, bene e male, variano anche di molto in relazione ai luoghi geografici.

Dovremmo comprendere e accettare, ci faccia o meno piacere, che i comportamenti umani sono -pur nelle loro specificità- simili a quelli di tutto il resto del mondo vivente. Simili soprattutto nell’essere determinati. Il più diffuso organismo unicellulare del pianeta, il Toxoplasma gondii, (il protozoo responsabile della toxoplasmosi) produce nei ratti un cambiamento spettacolare, inducendoli ad avvicinarsi con interesse ai gatti, invece di allontanarsi lestamente da loro. Come mai? La ragione sta nel fatto che questo parassita si riproduce in modo sessuato soltanto nella pancia dei felini, per poi diffondersi con le loro feci. Molto probabilmente quella che l’epidemiologa Joanne Webster ha chiamato ‘fatale attrazione felina’ è «un  metodo ingegnoso per il parassita di tornare all’interno della pancia di un gatto, per completare lo stadio sessuato del suo ciclo vitale» e lo può fare soltanto modificando «il comportamento dei roditori, alterando l’attività neurale e l’espressione genica» (G.Arrizabalaga-B.Sullivan, 89).
Questo organismo che entra così abilmente nel corpo di altri animali ha dunque una raffinata intelligenza politico-strategica? Tendo a escluderlo, non essendo fatto che di una sola cellula. Toxoplasma gondii si comporta così perché è il modo più efficace che ha trovato per colonizzare il pianeta. Ritengo che i comportamenti di tutti gli altri animali, Homo sapiens compreso, seguano analoghe regole, del tutto deterministiche. Certo, pensare questo è un duro colpo nei confronti del pregiudizio relativo alla nostra ‘superiorità’ biologica, culturale, spirituale, ma dovremmo una buona volta accettare con serenità -anzi, con gaudio- il fatto che «ogni persona è un ricco ecosistema, e per ogni cellula del corpo ci sono altre dieci cellule di batteri che influenzano la psicologia, il metabolismo e la salute» (Id. 93). ‘Conosci te stesso’ significa anche conosci la molteplicità biologica che sei, in tutto e per tutto.

Pensieri, parole, memorie

Mente & cervello 105 – settembre 2013

Ha poco senso subordinare il linguaggio al pensiero o viceversa. Ha poco senso perché entrambi sono la manifestazione privata e pubblica, interiore e oggettiva, della potenza semantica che caratterizza la nostra specie. Il linguaggio è scandito nel tempo, le parole vengono pronunciate l’una dopo l’altra a formare delle frasi che compongono a loro volta una descrizione, un’analisi, delle narrazioni. Il carattere sequenziale del linguaggio è anche un dato tecnico, che però si fonda sulla struttura della mente umana, la quale non è nel tempo ma è essa stessa temporalità vivente, rammemorante, intenzionale.
Ha quindi ragione Charles Fernyhough a ritenere che il pensiero sia «fatto di parole tanto che i bambini prima di imparare a parlare non hanno veri e propri pensieri» (cfr. R. Fulci, p. 21). Il pensare  è un fatto intrinsecamente linguistico, che produce sia le percezioni sia la memoria. Lo dimostra anche il celebre esperimento del “gorilla invisibile” che passa in mezzo a dei giocatori di basket e che pochi spettatori vedono, poiché «le nostre intenzioni, i bisogni e le aspettative influenzano ciò che percepiamo. […] Il cervello è tutt’altro che passivo nei confronti dell’ambiente: seleziona, sceglie e rinforza solo quello che vuole vedere» (D. Ovadia, 81-83). Non esiste insomma alcuna «immacolata percezione», per ricordare la battuta di Robert Kaplan, nonostante l’imperversare mediatico di realismi vecchi e nuovi.

Per un continuista come me è sempre una soddisfazione trovare conferme ai nessi profondi tra l’animale umano e gli altri. In questo numero di Mente & cervello ce ne sono due piuttosto significative, che riguardano entrambe la memoria, persino quella “involontaria” analizzata da Bergson e Proust. Scimpanzé e orangutan sembrano in grado di «ricordare immediatamente in quale scatola cercare uno strumento visto in un’unica occasione, un’esperienza ripetuta solo quattro volte e vissuta tre anni prima» Davvero «l’elenco delle straordinarie affinità con i nostri cugini primati continua ad allungarsi» (E. Melotti, 22). Se i primati sono filogeneticamente vicinissimi all’Homo sapiens, non altrettanto si può dire della planaria, un piccolo verme piatto del quale è nota da tempo la capacità di rigenerare la propria testa dopo che essa è stata tagliata, «il bello è che l’individuo con la testa nuova ricorderà le nozioni imparate prima della ghigliottina» (R. Fulci, 23). Il biologo Michael Levin, che insieme ad altri colleghi ha verificato questa capacità, afferma che «una cosa è certa: abbiamo dimostrato lo straordinario fatto che la memoria sembra essere conservata da qualche parte al di fuori del cervello» (cit. da Fulci, 23).
Gli studi di Antonio Damasio, e in generale la filosofia della mente, sanno che a pensare è l’intero organismo. La mente dipende dalle interazioni tra il cervello e il corpo e quindi è dall’intero corpo che essa scaturisce e non soltanto da un suo specifico organo. La mente, in altri termini, è pienamente e integralmente embodied, incorporata, e non costituisce solo una funzione del cervello. Di questa mentememoria corporea Nietzsche era del tutto consapevole:

Non esiste un organo specifico della “memoria”; tutti i nervi, per esempio della gamba, si ricordano di precedenti esperienze. Ogni parola, ogni numero è il risultato di un processo fisico che in qualche posto si è stabilizzato nei nervi. Tutto quello che è stato assimilato organicamente nei nervi, continua a vivere in essi. Vi sono onde condensate di eccitazione, quando questa vita ulteriore penetra nella coscienza, quando cioè ci ricordiamo di qualcosa.
(Frammenti postumi 1879-1881, in «Opere» Adelphi, vol. V/1, fr. 2 [68], p. 301)

 

Mente & cervello 90 – Giugno 2012

Il corpo parla, sempre. Comunica non soltanto con le parole esplicite e neppure solo con il tono, il timbro, l’inflessione della voce. Quando ad esempio siamo arrabbiati [alla rabbia è dedicato il dossier di questo numero di Mente & cervello] incominciamo tutti a somigliare a dei piccoli “incredibili Hulk”, il cui corpo vorrebbe azzannare i soggetti e le situazioni che hanno causato la nostra ira. Quanto più vicino e conosciuto è l’oggetto della rabbia, tanto più ci si scatena: «È noto che in ogni rapporto d’amore ci sia una zona d’ombra, un lato oscuro popolato da sentimenti ostili, ma quella tra fidanzati, coniugi, genitori e figli sembra ormai una guerra dal bollettino sconfortante» (M. Picozzi, p. 43). Famiglia che diventa poco raccomandabile soprattutto quando «trasforma un’intenzione generosa in un meccanismo dannoso, perché non sempre l’affetto è abbastanza rispettoso dell’identità separata dell’altro», come dimostra il caso di una ragazza succube dell’affetto paterno sino alla morte del genitore e anche oltre (M.G. Antinori, 54). Gli ambienti di lavoro sono spesso permeati di una violenza latente, sottile e ancor più devastante proprio per i rapporti gerarchici che li intridono. Si parla in questi casi di una vera e propria psicopatia industriale: «Per un corporate psychopath l’altro non è mai un individuo, ma una risorsa da sfruttare, un cliente da catturare, un avversario da sconfiggere» (Picozzi, 36).  Eppure la rabbia non è di per sé soltanto distruttiva. Aristotele ne distingue varie forme e sostiene che arrabbiarsi con la persona giusta, nel momento opportuno, nel modo adeguato e con uno scopo positivo è del tutto legittimo, anche se certamente non facile. La rabbia può quindi «essere una forza positiva e costruttiva, un’emozione che permette di far valere le proprie ragioni e negoziare i propri bisogni» (29). Arrabbiarsi rimane però un atteggiamento quasi sempre volgare e profondamente negativo per chi ne è pervaso.

Non si arrabbiavano ma si limitavano a ubbidire coscienziosamente i soggetti che nel celebre esperimento di Stanley Milgram (1961) colpivano con scariche elettriche sempre più letali dei volontari (in realtà degli attori) soltanto perché a chiederglielo era un “esperto” dall’aria gelida e vestito con un camice. Anche se l’articolo che qui se ne occupa cerca di fornire interpretazioni più sfumate di questo e di altri analoghi esperimenti (come quello di Zimbardo del 1971), mi sembra evidente che la natura gregaria dell’Homo sapiens produrrà sempre la ferocia dell’esecutore se non si pongono degli argini formali alle azioni che possono essere oggetto di un comando. In caso contrario, “ho obbedito agli ordini ricevuti” sarà sempre una buona giustificazione della violenza inflitta ad altri umani e animali (è il caso della vivisezione).

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Mente & cervello 87 – Marzo 2012

Bellissime le «istantanee dal cervello» presentate alle pagine 50-55 di questo numero di Mente & cervello. Sembrano davvero delle opere d’arte astratta e forse questo significa che l’arte concettuale è la più autentica forma di realismo, quella mediante la quale la mente umana rappresenta se stessa, la propria capacità di generare mondi, colori, forme.
Così potente e plasmabile è il cervello da essere continuamente sottoposto a tentativi di controllo e di manipolazione. L’agone politico, lo spettacolo e la pubblicità hanno esattamente questo scopo. Un nuovo strumento di dominio è la connessione costante che la Rete permette. Anche per suo tramite «veniamo sottoposti a una pubblicità onnipresente: questa distruttrice delle capacità attenzionali non è altro che un uso metodico, a fini commerciali, di astuti furti di attenzione» (C. André, p. 35). La dispersione mentale è uno dei rischi impliciti nel multitasking che caratterizza ormai i comportamenti di molti di noi: «La moltitudine di sollecitazioni rende invece carente la nostra mente: carente di calma, di lentezza, di continuità. Tre nutrimenti vitali per le capacità attenzionali» (Id., 36).

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Il tempo vissuto

Eugène Minkowski
Il tempo vissuto.
Fenomenologia e psicopatologia

(Le temps vécu. Études phénoménologique et psycopatologiques [1933], 1968)
Trad. di Giuliana Terzian
Revisione e cura del testo di Anna Maria Farcito
Introduzione di Federico Leoni
Prefazione di Enzo Paci
Nuova edizione
Einaudi, Torino 2004
Pagine XXXIX-401

Il tempo/spazio costituisce l’esperienza fondamentale dell’umano e del suo stare al mondo, è «per ognuno di noi il problema più vivo, più personale» (pag. 5). Anche per questo la radice profonda e l’espressione immediata delle psicopatologie non può che coinvolgere la sua percezione e rappresentazione. Il distacco dalla realtà, qualunque forma essa assuma, è un distacco dal fondamento temporale della vita umana.

Il patologico, mostrandoci che il fenomeno del tempo e probabilmente anche quello dello spazio si situano e si organizzano nella coscienza malata diversamente da come lo concepiamo di solito, mette in rilievo caratteri essenziali di questi fenomeni che, proprio a motivo della poca distanza che ci separa da essi nella vita passerebbero inosservati o sarebbero considerati del tutto naturali. (8)

Il disorientamento temporale si accompagna quasi sempre a un disorientamento nello spazio; la malattia psichica è anche una rinuncia alla dimensione fondamentale del futuro, a quello slancio verso l’ha da essere il cui rallentamento e diminuzione produce «ora l’impossibilità di liquidare le situazioni presenti, ora il sentimento di una determinazione ineluttabile a opera del passato» (279). Della complessità esistenziale e psicologica, della sua varietà, si perdono le differenze e rimane l’identità; si dissolve il molteplice a favore dell’uno; si perde il tempo nel dominio dello spazio. Nello spazio, infatti, «noi cerchiamo il simile e l’identico, nel tempo viviamo il nuovo e il dissimile» (314-315).
La schizofrenia è in gran parte il risultato di tale dinamica esclusiva ed escludente, che tende ad arrestare lo slancio della vita interiore in «atti senza domani, atti congelati, atti a corto circuito, atti che non tendono a concludere» (265), tanto da poter dire che lo schizofrenico venga «attirato solo da quello che è spazio, che solo così si senta a suo agio, e che fugga tutto ciò che è divenire e tempo» (262).

Se una caratteristica primaria del tempo è il divenire incessante di questa “massa liquida” (Bergson) che sta ovunque intorno e dentro all’io e che plasma l’«io-qui-adesso» (258) del corpo umano, i processi morbosi consistono anche e proprio nel ridurre tale struttura a una immobilità densa e senza futuro, nella quale i ricordi tendono ad assumere sempre più la figura deformata della persecuzione e di una infinita tristezza. La memoria, infatti, non si limita a registrare l’accaduto ma lo reinventa di continuo. La malattia mentale è una reinvenzione parziale, statica, deformata sino all’allucinazione.
Di contro, gli stati d’equilibrio -sempre fragili- della psiche consistono nel mantenimento della «innata solidarietà spazio-temporale» che è «paragonabile a quella della solidarietà organico-psichica» (22). Ha quindi ragione Heidegger, (del cui libro del 1927 Minkowski afferma comunque di non aver potuto discutere) a definire il tempo come avvenire-essente stato-presentante, «gewesend-gegenwärtigende Zukunft» (Sein und Zeit, § 65, p. 916 dell’edizione Mondadori 2006) e il futuro come «il fenomeno primario della temporalità originaria e autentica» (Ivi, § 65, pp. 925-927).

Secondo Minkowski, infatti, c’è un’asimmetria tra passato e futuro: «l’avvenire vissuto ci è dato incontestabilmente in modo più primitivo del passato. Esso reca con sé nella vita il fattore creatore, di cui il passato sembra essere interamente privo» (39). Ogni raggiungimento apre ad altri obiettivi, ogni luogo dispiega nuovi itinerari, ogni qui è un oltre. Dove ciò non accade il corpo è diventato salma. Perché anche questo è il tempo vissuto, «una riserva eterna e inestinguibile di forze, senza la quale non si potrebbe vivere» (76).

I testi che compongono il libro furono redatti lungo una ventina d’anni e a volte emergono differenze e ripetizioni. Il fondamento è tuttavia sempre chiaro e unitario, radicato com’è nelle tesi bergsoniane e husserliane dei dati immediati della coscienza e delle visioni d’essenze. La prima parte è un Saggio sull’aspetto temporale della vita, la seconda mette alla prova i postulati teorici mediante il confronto con numerosi casi clinici. Il risultato è un testo che offre conferma anche empirica della ricchezza teoretica ed esistenziale della temporalità fenomenologica.

Futurismo 1909-2009. Velocità+Arte+Azione

Milano – Palazzo Reale
Sino al 7 giugno 2009

Quasi cinquecento opere occupano tutto un piano di Palazzo Reale. Una documentazione pressoché completa e che tocca i tanti ambiti nei quali i futuristi espressero la loro rivoluzione formale: scultura, arti applicate, pittura, fotografia, teatro, musica, cinema, letteratura.
Dal simbolismo di Previati, attraversando lo snodo costituito dai Manifesti di Marinetti e dal suo paroliberismo, si trascorre alle tele in movimento di Boccioni, Balla, Severini, alle musiche di Luigi Russolo, alle geometrie lievi di Depero, al cinema dei fratelli Bragaglia, all’aeropittura di Tullio Crali…L’innovazione espressiva diventa sempre più profonda, assorbendo nel Futurismo gran parte delle avanguardie europee. Anche quando, per ragioni politiche, del Futurismo più non si parla, alcuni dei maggiori artisti della seconda metà del Novecento gli rendono omaggio: Lucio Fontana dà nome di Concetto spaziale -formula futurista- all’intera sua opera e i sacchi di Burri si ispirano al polimaterismo di Prampolini.

La densità teorica del movimento nasce dalla sua ispirazione eraclitea e soprattutto dalla concordanza con la filosofia di Henri Bergson, per il quale la materia è movimento, la vita è il sentirsi durare che ciascuno di noi prova con assoluta e primaria evidenza, «lo scorrere stesso, continuo e indiviso, della nostra vita interiore», il fluire ininterrotto che genera relazioni, confronti, identità e differenze (Durata e simultaneità, [1922], Raffaello Cortina 2004, p. 193). Uno scorrere radicato nel corpo, che è il corpo, poiché «a ogni momento della nostra vita interiore corrisponde un momento del nostro corpo e di tutta la materia circostante, che gli sarebbe “simultanea”: questa materia sembra allora partecipare della nostra durata interiore» (Ivi, p. 46). Per Bergson, durata e movimento sono «sintesi mentali, e non cose» (Saggio sui dati immediati della coscienza, [1889] Raffaello Cortina 2002, p.78). A tali “sintesi mentali” il Futurismo ha voluto infondere la densità materica delle opere. Una trasformazione talmente riuscita da intridere di sé molta arte successiva e da consentire di celebrare il centenario del Manifesto del 1909 in termini così “classici” che avrebbero fatto probabilmente rabbrividire Marinetti, il quale si sarebbe trovato di fronte a un se stesso diventato ormai inesorabilmente musealizzato e “passatista”.

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