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L'Altro

Il primo dogma dell’amore è l’esistenza dell’altro, il suo primo errore è credere che tale esistenza sia reale. E invece la realtà è una molteplicità frammentata, sfaccettata, irriducibile allo sguardo, al concetto e all’azione: «Così il breve tragitto delle sue labbra verso la guancia di Albertine crea dieci Albertine, e trasforma un banale essere umano in una dea dalle molte teste» (Beckett, Proust, SE 2004, p. 37), tanto che quando l’avrà perduta il Narratore dice a se stesso  che «pour me consoler, ce n’est pas une, c’est d’innombrables Albertine que j’aurais dû oublier» (À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 1693).
Perché accade questo? Che cosa fa dei corpi altrui, posti davanti a noi, aperti al nostro sguardo, pronti alla conversazione, a volte intrecciati nelle mani, nella bocca, negli organi genitali, che cosa li mantiene sideralmente distanti? Non lo spazio, è evidente, ma il tempo. Analizzando la natura temporale dell’amore Proust disvela, come nessun altro artista o filosofo ha mai fatto, la ragione per la quale si tratta di un sentimento tragico.

«Et je comprenais l’impossibilité où se heurte l’amour. Nous nous imaginons qu’il a pour objet un être couché devant nous, enfermé dans un corps. Hélas! Il est l’extension de cet ètre à tous les points de l’espace et du temps que cet être a occupés et occupera. Si nous ne possédons  pas son contact avec tel lieu, avec telle heure, nous ne le possédons pas. Or nous ne pouvons toucher tous ces points» (Recherche, p. 1677). E ancora: «Et pourtant, je ne me reandais pas compte qu’il y avait longtemps que j’aurais dû cesser de voir Albertine, car elle était entrée pour moi dans cette période lamentable où un être, disséminé dans l’espace et dans le temps, n’est plus pour nous une femme, mais une suite d’événemets sur lequels nous ne pouvons faire la lumière, une suite de problèmes insolubles, une mer que nous essayons ridiculement, comme Xerxès, de battre pour la punir de ce qu’elle a englouti. Une fois cette période commencée, on est forcément vaincu» (Recherche, p. 1680). E definisce l’amore come «l’espace et le temps rendus sensibles au cœur» (Recherche, p.  1893).

L’altro è una meta irraggiungibile, foriera di angoscia, gettata nell’attesa, intessuta di gelosia, sciolta nell’acido di quei sospetti nei quali immergiamo ogni evento ricordato. Questo è il lavoro della mente amorosa, l’incessante attività di un’ermeneutica della diffidenza che nessuna certezza potrà mai conseguire poiché tale sicurezza ha come condizione l’intero temporale nel quale l’altro distende il proprio corpo negli anni. Il ricordo incessante della persona che amiamo diventa così l’abitudine all’angoscia che la sua inevitabile distanza rappresenta. Abitudine che è una delle figure temporali più potenti e pervasive dell’esistenza umana.
Per Proust la via d’uscita, l’unica, non è etica né psicologica. È la parola. La scrittura ci libera dall’assurdo dei giorni e dei sentimenti assurdi per trasfigurare giorni e sentimenti nella parola che salva: «Comment a-t-on le courage de souhaiter vivre, comment peut-on faire un mouvement pour se préserver de la mort, dans un monde où l’amour n’est provoqué que par le mensonge et consiste seulement dans notre besoin de voir nos souffrances apaisées par l’être qui nous a fait souffrir?» (Recherche, p. 1673).

[A Proust, in particolare alla lettura beckettiana della Recherche, è dedicato uno degli articoli del numero 14 -marzo 2012- di Vita pensata, dove si trovano anche le traduzioni dei brani citati.
A questo tema sarà dedicato il corso di Filosofia della mente del prossimo anno accademico. Argomento specifico e testi in programma saranno resi noti quando il Dipartimento ufficializzerà i corsi dell’a.a. 2012-2013]

 

Beckett Beckett Beckett

 Teatro Arsenale – Milano
con: Giovanni Calò, Mario Ficarazzo, Paui Galli, Augusta Gori, Claudia Lawrence
Regia Marina Spreafico – Allestimento Pierluigi Salvadeo
Produzione Teatro Arsenale
Sino all’8 febbraio 2009

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Due anziane signore, insieme a loro una ragazza. Un medico che irrompe violentemente e poi va via. Ricordi di persone vive, di persone morte, dove non si sa bene chi sia ancora vivo e chi non ci sia più. Dialoghi banalissimi e tuttavia densi di tragica allegria. Una delle domande ripetute è proprio questa: se l’uno o l’altro dei nomi evocati sia o no «una persona che lei definirebbe allegra».

Un’altra anziana signora va per la via diretta alla stazione, dove sta per arrivare il marito cieco. Incontra degli automobilisti, uno di loro -antico spasimante- le offre un passaggio. Il treno del marito è in ritardo e non si capisce bene perché. Quando arriva, l’uomo afferma che sarebbe meglio far fuori, di tanto in tanto, dei bambini in modo da «evitare il disastro alle sue origini».

Tratto da brevi testi di Beckett, lo spettacolo di Marina Spreafico -tra le più assidue frequentatrici italiane del drammaturgo- è pensato per la particolare architettura del Teatro Arsenale (una ex chiesa neogotica) e riesce a rendere la bellezza ironica e terribile dei suoni di Beckett, il suo amore per le cose e per il linguaggio, la scarnificazione delle cose e del linguaggio alla loro essenza nuda.

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