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Erodoto

Breve è la vita umana, provvisorio ogni suo risultato, instabile ogni dominio, transeunte ogni vita. Lo intuisce Serse alla vista dell’immenso esercito che aveva condotto sull’Ellesponto. Guardando i suoi soldati e i popoli sui quali domina piange e interrogato perché mai lo faccia così risponde: «S’è insinuato in me riflettendo un senso di compassione, quanto è breve tutta la vita umana, dal momento che di costoro, che pure son tanti, nessuno fra cento anni sopravviverà» 1 .
Anche per questo Erodoto scrive. Scrive affinché «le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate» (Proemio). Lo fa raccogliendo quante più testimonianze possibili di chi ha vissuto gli eventi o ne ha sentito il racconto o comunque ha delle notizie da riportare. E però questo non significa che Erodoto creda a tutto ciò che riferisce e che racconta. Semplicemente e invece dichiara di essere «tenuto a riferire quel che si dice, ma non a prestar fede a tutto e queste parole valgano per ogni mia trattazione» (VII, 152, 3; p. 711).

Sono in questo modo delineati gli obiettivi, i metodi, il significato e il limite della scienza che chiamiamo storia, vale a dire una descrizione degli eventi umani come si dispiegano nello spazio e nel tempo, nella geografia. Lo spazio è lo stare degli umani al mondo, è l’insieme non soltanto dei luoghi ma anche e specialmente dei modi nei quali i luoghi vengono abitati e vissuti. Ciò che Erodoto scrive a proposito dei Greci vale in questo senso per qualunque altro popolo, comunità, identità: «La grecità, lo stesso sangue e la stessa lingua, e i comuni templi degli dèi e i riti sacri e gli analoghi costumi» (VIII, 144, 2; p. 824).
Per questo ogni popolo è per natura e necessità ‘etnocentrico’. Lo sono gli Egizi, molto ammirati da Erodoto come i più sani, i più pronti davanti alla morte, i «sapientissimi fra gli uomini» (II, 160, 1; p. 297). Infatti questo popolo così sapiente chiama «barbari tutti quelli che non hanno la loro lingua» (II, 158, 5; p. 297), come poi faranno anche i Greci e ogni altra comunità umana. «Infatti, se uno facesse a tutti gli uomini una proposta invitandoli a scegliere le usanze migliori di tutte, dopo aver ben considerato ognuno sceglierebbe le proprie: a tal punto ciascuno è convinto che le sue proprie usanze sono di gran lunga le migliori di tutte» (III, 38, 1; p. 336).
Integralmente etnocentrica (quando non pericolosamente incline al razzismo) è nel nostro tempo la pretesa del liberalismo occidentale di costituire non soltanto l’unica forma legittima di costituzione politica presente sul pianeta Terra (tutte le altre forme sarebbero delle ‘dittature’) ma di rappresentare anche e soprattutto l’incarnazione dei valori morali più alti in assoluto, indiscutibili, da imporre in tutti i modi (guerre comprese) a chi non li condivide e da zittire quanti in Occidente li criticano.
Questi valori/atteggiamenti sono ad esempio: il disprezzo per la difesa di ogni tradizione e identità culturale circoscritte rispetto alla globalizzazione; l’eguaglianza puramente formale che non protegge affatto dalle discriminazioni reali; la convinzione metafisica che il biologico (il sesso) non conti nulla rispetto al volontarismo (il genere); la fantasiosa convinzione che l’Occidente sia dominato dal patriarcato; l’idolatria del ‘mercato’ come regolatore della vita economica. Ritenere assoluti questi ‘valori’ storici è una forma molto pesante di etnocentrismo. Uno dei grandi contributi di Erodoto alla comprensione delle comunità umane consiste nell’invitare a parlare di ‘civiltà’ sempre al plurale e mai al singolare. Le civiltà, le pluralità, costituiscono una garanzia di autentica eguaglianza e di accoglimento dell’altro, delle sue differenze, anche di quelle che a noi non piacciono.
La saggezza non consiste dunque in un impossibile universalismo, come alcune correnti cristiane e illuministiche hanno preteso che fosse, ma nella consapevolezza che ogni civiltà e cultura è limitata a un certo spaziotempo senza pretendere di essere la migliore in assoluto o addirittura l’eletta, come le culture della ὕβρις quali l’ebraismo e il capitalismo imperialistico si sono vantate e si vantano di essere.
Saggezza è invece comprendere che «c’è un ciclo delle vicende umane, che col suo volgersi non permette che sempre gli stessi siano fortunati» (I, 207, 2; p. 190); comprendere che «il dio suole stroncare tutto ciò che si innalza» (VII, 10, β; p. 647); comprendere che questo dio è il divenire: «tutto però può succedere nel lungo corso del tempo» (V, 9, 3; p. 506).

Se Erodoto giudica i Greci una stirpe libera da ingenuità e più accorta di altre, è molto probabilmente perché essi sono del tutto consapevoli della insignificanza dell’umano rispetto all’immenso tempo e all’enigma del cosmo. Un umano in balia degli eventi e di Ἀνάγκη, poiché «sfuggire al fato è cosa impossibile anche per un dio» (I, 91, 1; p. 125), tanto più «non è possibile alla natura umana evitare quel che deve avvenire» (III, 65, 3; p. 353). Soltanto il più sapiente degli dèi, inferiore tuttavia anch’egli alle Parche e alla Necessità, può dire di se stesso: «Io conosco il numero dei granelli di sabbia e le dimensioni del mare e il muto comprendo e chi non parla odo» (I, 47, 3; p. 97). Questo dice Apollo, questo sanno coloro che sono intrisi non di una razionalità piccina e antropocentrica ma quanti osservano la perfezione della materia e degli astri e ne deducono la forza inemendabile dei confini, il limite dei viventi e dell’umano che dei viventi è parte. Quando una madre orgogliosa dei propri figli chiede alla dea Era di donare loro il meglio che un umano possa ottenere, la dea li fa morire serenamente nel sonno, mostrando in questo modo «che meglio è per l’uomo morire piuttosto che vivere» (I, 31, 3; p. 89).
Il culmine di tale saggezza sono i Trausi, il popolo dalle usanze più ‘strane’ tra tutti i popoli – alcuni stranissimi – dei quali Erodoto racconta vicende e abitudini. Essi infatti piangono di fronte al neonato «deplorando tutti i mali che egli dovrà soffrire una volta nato» e invece sono lieti di fronte al defunto «dicendo come spiegazione che, liberato da tanti mali, egli è in completa felicità» (V, 4, 1-2; p. 504).

La storia non è altro che la conferma di quanta saggezza abiti in tale consapevolezza del limite. La storia che mostra, al tempo di Erodoto e nel nostro, come i (pre)potenti trovino i più singolari pretesti per attaccare e distruggere i popoli e le comunità meno armate e più deboli, inventando inverosimili minacce da parte loro. A chi gli consigliava prudenza e di lasciar perdere il piccolo e insignificante popolo greco, Serse risponde che intende punire gli Ateniesi di ciò che avevano fatto a suo padre e che quindi non desisterà «prima di aver conquistato e incendiato la città degli Ateniesi, che per primi compirono contro me e mio padre azioni inique» (VII, 7, β 2; p. 643). Sembra di sentire Nixon e Kissinger parlare del pericolo che il Vietnam (il Vietnam!) rappresentava per la superpotenza degli Stati Uniti d’America o Colin Powell brandire all’ONU la fialetta con le ‘armi chimiche di distruzione di massa’ dell’Iraq di Saddam Hussein, alleato degli USA sino a qualche mese prima contro l’Iran. Ebbe ragione Pausania, il vincitore della battaglia di Platea, a rivolgersi ai suoi compatrioti dicendo: «O Greci, per questo io vi ho radunati, per mostrarvi la stoltezza del Medo, che avendo un tale tenore di vita è venuto contro di noi che lo abbiamo tanto misero per togliercelo» (IX, 82, 3; p. 868).
Anche perché più esposto a tali pericoli, i pericoli della tracotanza, Erodoto si dice avverso al sistema monarchico e ricorda che non è costume dei Greci «prosternarsi dinanzi a un essere umano» anche se costui è assai potente (VII, 136, 1; p. 701). Interessante è comunque un’altra motivazione della guerra che l’impero persiano condusse contro l’Ellade, e quindi contro l’Europa. Quest’ultima «è una regione assai bella e produce ogni sorta di alberi fruttiferi, è molto fertile e degna d’esser posseduta, fra i mortali, solo dal Gran Re» (VII, 5, 3; p. 641).
La storia umana mostra costantemente qualcosa di ancora più devastante: una ferocia pervasiva, una crudeltà  senza limiti, una violenza patologica. Solo qualche esempio tra i tanti riferiti da Erodoto, uno relativo ai Greci e l’altro ai Persiani. I Lemni avevano le loro legittime donne (e figli) e possedevano anche delle donne attiche che avevano rapito e con le quali avevano generato altri figli. Temendo le reazioni di questi ultimi una volta cresciuti, «decisero di uccidere i figli avuti dalle donne attiche, e così fecero, uccidendo inoltre anche le madri» (VI, 138, 4; p. 637). I Persiani avevano come costume di «sotterrare persone vive» (VII, 114, 2; p. 692).
Ho evitato di soffermarmi su questi elementi ed episodi, molto numerosi, e ho solo accennato al racconto delle guerre di ogni popolo contro un altro. Un racconto che pervade i nove libri dell’opera quasi a ogni pagina. Sembra, allora come oggi, che la specie umana abbia una qualche percezione del danno che essa costituisce per il mondo e operi alacremente per sterminarsi da sola.


Nota

1. Erodoto, Storie, trad. di Augusta Izzo D’Accinni, note di Daniela Fausti, saggio introduttivo di Domenico Musti, Rizzoli 2021, VII, 46, 2; p. 666.

La Notte

«Eὔφρονες; Benevole»1 e non «Eumenidi» come poi gli alessandrini intitolarono questo testo che dà fondamento alla civiltà mediterranea.
Eὔφρονες, benevole, diventano le tremende e antichissime («παλαιὰς») potenze (v. 727; p. 650). Potenze «νυκτὸς παῖδες ἄπαιδες; figlie senza figli, figlie della Notte», le Erinni (v. 1034; p. 670). A compiere la metamorfosi è stata Atena, la mente, sostenuta e aiutata da Πειθώ, dalla persuasione, dal linguaggio, dalla parola.
Erinni e Atena governeranno insieme e per sempre la città umana. Insieme significa che dentro e dietro ogni splendore della razionalità riposa, gorgoglia e vince la corporeità; dentro e dietro ogni etica sta la vendetta di chi quell’etica è riuscito a imporre a coloro che ha sconfitto; dietro e dentro la Luce di Apollo sta la Notte, Νὺξ μέλαινα, la nera notte della maledizione, della memoria inestinguibile del male ricevuto, del morire che non conosce domani. Dietro ogni esistenza, dietro ogni Dasein, sta la nera notte del nulla, sta il Sein zum Tode:

«ἀνδρὸς δ᾽ ἐπειδὰν αἷμ᾽ ἀνασπάσῃ κόνις
ἅπαξ θανόντος, οὔτις ἔστ᾽ ἀνάστασις.
τούτων ἐπῳδὰς οὐκ ἐποίησεν πατὴρ
οὑμός.
Quando invece la polvere della terra è intrisa del sangue di un uomo, una volta che sia morto non c’è ritorno, non tornerà alla luce. Mio padre, Zeus, non fa incantesimi contro la morte»
(vv. 647-650; p. 644)

Questo afferma Apollo al culmine del conflitto con Erinni. Apollo, il colpevole, colui che si intesta senza esitazione il matricidio compiuto da Oreste. Apollo che condivide Delfi con il fratello sorridente e tremendo, Dioniso. 

«Βρόμιος ἔχει τὸν χῶρον, οὐδ᾽ ἀμνημονῶ,
ἐξ οὗτε Βάκχαις ἐστρατήγησεν θεός,
λαγὼ δίκην Πενθεῖ καταρράψας μόρον.
Bromio è signore del luogo – non lo dimentico: di là il dio mosse con il suo esercito di baccanti, per straziare Penteo, braccandolo a morte come una lepre»
(vv. 24-26: pp. 598-600).

Se Eschilo sembra cantare e ratificare la Luce che supera l’orrore, la realtà è che la luce è destinata a convivere con l’orrore. Questo racconta la trilogia di Agamennone, Coefore, Eumenidi. Racconta la vita quotidiana degli umani, il cui dolore è destinato a finire soltanto quando essi stessi finiranno, quando noi tutti spariremo. E Γαῖα, la Terra, respirerà.
La Terra che ha generato la Notte, le Erinni «κόραι, γραῖαι παλαιαὶ παῖδες; le fanciulle decrepite, antiche bambine»  (vv. 68-69; p. 602); «γραίας δαίμονας; dee antichissime» (v. 150; p. 608). La Terra che nel volgersi infinito della materia ha generato il Destino la Μοίρα.
Se «χρόνος καθαιρεῖ πάντα; il tempo passa e purifica ogni cosa» (v. 286: p. 618), tale purificazione – quella destinata certamente a prodursi – è semplicemente la fine dell’umano nella storia, nello spazio, nel mondo.
Fine che Erinni prefigura due volte con gli stessi versi a breve distanza:

«ἐπὶ δὲ τῷ τεθυμένῳ
τόδε μέλος, παρακοπά,
παραφορὰ φρενοδαλής,
ὕμνος ἐξ Ἐρινύων,
δέσμιος φρενῶν, ἀφόρ-
μικτος, αὐονὰ βροτοῖς.
E per la vittima sacrificale
questo canto – delirio
follia frenesia –
inno di Erinni si innalza,
canto che incatena la mente. Canto senza
suono di cetra, che annienta la stirpe mortale»
(vv. 328-333; 341-346; pp. 620-621).

Alla fine, come in Sette contro Tebe (855-860), il paese oscuro che tutti accoglie è il Nulla da cui siamo scaturiti, è la «tenebra priva di luce; δυσήλιον κνέφας» (v. 396; p. 624).
E sarà, finalmente, la pace2.


Note

1. Eschilo, Eumenidi (Εὐμενίδες, 459 a.e.v.), verso v. 992; p. 668,  in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti dal numero di pagina dell’edizione Meridiani.

2. Con questo testo si conclude l’analisi delle tragedie di Eschilo da me tentata in questo sito. La versione completa è stata pubblicata nel volume 5 (2022) della rivista Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo. Il saggio si può scaricare e leggere anche da qui: Eschilo, il fondamento.

Socrate, la paura

Teatro Greco – Siracusa
Nuvole
di Aristofane
Traduzione di Nicola Cadoni
Musiche di Germano Mazzocchetti
Scene e costumi di Bruno Buonincontri
Con: Nando Paone (Strepsiade), Antonello Fassari (Socrate), Massimo Nicolini (Fidippide), Stefano Santospago (Aristofane), Galatea Ranzi e Daniela Giovanetti (Corifee), Stefano Galante (Discorso Migliore), Jacopo Cinque (Discorso Peggiore)
Regia di Antonio Calenda
Sino al 21 agosto 2021

«La terra si imbeve tutta del succo del pensiero». Questo è ciò che le nuvole producono, questo l’effetto della pioggia di parole che spaventa Aristofane, che lo induce a presentare Socrate e il suo ‘pensatoio’ nella maniera peggiore possibile ma che in questo modo esalta la forza irresistibile delle parole e del pensiero.
In questo tradizionalista affascinato dal caos che il dire e il pensare rappresentano di fronte all’ordine autoritario della città, si esprime tutta la paura che gli ateniesi nutrivano verso la filosofia, la paura che qualunque città antica o moderna nutre verso il pensare che non si acconcia a diventare megafono, strumento, ornamento e zerbino di chi comanda. Ė per questo che Socrate è morto, giustiziato dai bravi cittadini della giuria di Atene. Ė per questo che dopo di lui altri filosofi sono stati perseguitati, calunniati, uccisi, da Giordano Bruno a Galilei, da Spinoza a Heidegger. Ė per questo che Aristofane è un bel paradosso, che della filosofia mostra la debolezza e la potenza.
Al di là, infatti, delle battute scontate e sconce che descrivono Socrate e i suoi allievi come degli zombie, dei ladri, degli spostati, il cuore della commedia è Zeus, è il presunto «ateismo» dei filosofi, il loro voler sovvertire la πóλις con spiegazioni razionali e ‘meteorologiche’ del cielo, della pioggia e delle nuvole; con la trasformazione del discorso peggiore nel discorso migliore; con la distanza dal solido buon senso rurale di Strepsiade.
La filosofia non ha dogmi, non ha valori, non obbedisce. Nel suo feroce attacco a Socrate, il commediografo riconosce a lui e alla filosofia la potenza di questa libertà.
La messa in scena di Antonio Calenda è rispettosa di tale complessità di strati, modi e intenzioni del testo. Al centro c’è la traduzione di Nicola Cadoni, caratterizzata dal tentativo di riprodurre la musica dell’antica lingua greca; dal calco dei giochi di parole; dai ripetuti accenni alla politica contemporanea e soprattutto dall’ardita decisione di tradurre numerosi passi con i versi di Manzoni, Leopardi, Alighieri, con autori del Settecento, con Totò e Pasolini. Una scelta che mostra la continuità poetica dai Greci al presente. A conferma della continuità politica della filosofia europea, che è dissacrante di ogni certezza e conformismo oppure, semplicemente, non è.
Il paradosso Aristofane è anche questo: la reductio di Socrate al relativismo sofistico ma anche la conferma che c’è una dimensione della filosofia – e soltanto della filosofia – irriducibile al relativismo: la sua libertà, il suo respiro, l’impalpabile potenza delle nuvole.

Forbici

Raftis
di Sonia Liza Kenterman
Grecia, Germania, Belgio, 2020
Con: Dimitris Imellos (Nikos), Tamila Koulieva (Olga), Thanasis Papageorgiou (Thanasis), Daphne Michopoulou (Victoria), Stathis Stamoulakatos (Kostas)
Trailer del film

Pochi uomini ormai si fanno cucire gli abiti da un sarto (in greco ράφτης, raftis), ad Atene come altrove. Nikos e il suo anziano padre, uno degli artigiani più celebri della città, non riescono a far fronte ai debiti e le banche sono pronte e pignorare la loro sartoria. Quando il padre viene ricoverato, Nikos cerca un modo per sopravvivere. Gli viene così l’idea di offrire i suoi servizi senza aspettare i clienti in negozio ma muovendosi lui in città, portando abiti e strumenti in giro per Atene. Comprende così che l’unica possibilità è reinventarsi sarto da donna, cucendo persino abiti da sposa belli ed economici. Dopo un inizio stentato la nuova attività comincia ad andar bene, con la collaborazione di una vicina e della sua bambina. La quale però è gelosa del legame tra la madre e il sarto…
La vivacità, la simpatia, la forza del popolo greco oggi. Nel pieno della distruzione che l’Unione Europea ha voluto di quel Paese. Il volto di Nikos, un incrocio tra Buster Keaton e Totò, esprime una pacata tenacia e una energica rassegnazione. Il traffico della capitale greca, il mare e le isole che la circondano, diventano anch’essi personaggi di una storia nella quale agiscono non soltanto gli umani ma anche le strade, le case, gli oggetti. Spesso ripresi a frammenti e dal basso, come se il mondo dovesse ogni volta essere composto e reinventato dalla memoria e dai progetti di Nikos.
«Per le conseguenze dell’azione, non giova a nulla ch’essa sia stata più o meno intenzionale, originata da una necessità o da arbitrio. Secondo l’antica fede era infatti del tutto ovvio che l’uomo dovesse soffrire anche per qualcosa che non aveva voluto. Chi può dire che ciò non sia vero? Chi può permettersi di chiamarlo ingiusto?» (Walter F. Otto, Gli dèi della Grecia. L’immagine del divino nello specchio dello spirito greco [1929], Adelphi 2004, p. 76).

Delfi / Atene

Ione è un mito di fondazione dell’identità ateniese. Al pari di tutti i racconti di questa natura, è costruito come una favola di riconoscimento, nella quale un bambino dato alla luce in segreto, esposto alla morte, raccolto da un dio, ritrova alla fine i propri parenti, coloro che gli hanno dato vita.
Ione è figlio di Creusa, regina di Atene, e di Apollo, che la prese contro la sua volontà e si occupò del bambino che ne nacque. Creusa accompagna a Delfi il marito Xuto, il quale vuole sapere dal dio se c’è qualche possibilità che loro abbiano dei figli. Apollo dà a entrambi la gioia di una risposta che è lo stesso ragazzo, Ione, loro figlio, sì, ma per ragioni e in modi ben diversi.
Ironica è sempre la divinità, una vera divinità, poiché –come afferma alla fine Atena– «lenta, forse, ma efficace è l’azione degli dèi»1. Ironica, lenta e flussica, poiché «questa è la vita: nulla resta fermo» (298).
Ingiustamente negletta, questa tragedia è invece fondante poiché vive al confine tra la potenza insuperabile della Terra –ben descritta nelle statue e nei fregi della Gigantomachia che adornano il tempio di Apollo– e l’avvento della πόλις umana nella storia. La lotta tra gli dèi e quella tra i mortali ribadisce il limite dei viventi rispetto alla perennità della φύσις: «Gli uomini sono tanti e tante sono le sventure: divergono le forme. A stento un caso di felicità si può trovare nella vita umana» (277).
A regalare questa felicità sono solo gli dèi, soltanto loro possono. E qui lo fanno al culmine della lotta tra il figlio che non sa d’essere figlio e la madre che non sa d’essere madre. I due vogliono reciprocamente uccidersi. E lo farebbero se non intervenisse la Pizia che «ai Greci cantando gli oracoli / la voce ad Apollo dà suono» (264), svelando che Creusa è la genitrice di Ione. L’odio e la morte si trasformano così d’acchito in amore e futuro. Ma Ione non è ancora certo che Creusa non cerchi di attribuire ad Apollo ciò che in realtà è venuto da un mortale. Atena stessa deve dunque comparire per convincere il giovane con le sue parole luminose, esatte, incontrovertibili.
Atena parla a nome del fratello, che qui non dice una parola ma che è presente in ogni riga. Altro non poteva darsi in una vicenda che accade a «Delfi, in questa terra dove Febo, sedendo proprio all’ombelico del mondo, dà profetici responsi sul presente e il futuro a tutti gli uomini» (261).

1. Euripide, Ione (Ἴων), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 321.

Pausania / L’Attica

Vissuto nel II secolo e.v., viaggiatore attento e narratore insieme sobrio e fascinoso, ammiratore del filellenico imperatore Adriano, odiato dai cristiani in quanto «autore particolarmente interessato alla storia dei culti e dei luoghi di culto pagani» (Introduzione a Pausania, Guida della Grecia, Libro I, L’Attica, a cura di Domenico Musti e Luigi Beschi, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore  2013, p. LXVI; citerò il testo di Pausania indicando il numero dei libro, quello dei paragrafi e il numero di pagina della traduzione italiana), Pausania compose la sua descrizione di Atene e dell’Attica tra il 135 e il 150. I luoghi vengono percorsi quasi palmo a palmo, i monumenti descritti nel loro contesto e nella loro genesi, santuari e templi sono posti al centro della vita, ammirati gli eroi, compianta ma accettata la finitudine degli umani e di ogni cosa, individuati ovunque -davvero ovunque- gli dèi.
Per gli umani, infatti, «non c’è verso di evitare quanto il dio gli ha assegnato in sorte» (5, 35-36, p. 33) e anche «quelli che i Greci chiamano ‘valorosi’ non sono nulla senza la Fortuna», senza τύχη, che è anch’essa una divinità (29, 96-97, p. 163).
Dappertutto gli umani sono immersi nelle passioni della guerra e dell’amore. Tra tutte le vittorie degli Ateniesi, nessuna fu da loro rivendicata come quella di Maratona (14, 47, p. 79), con la quale la Grecità si oppose ai barbari. I quali però tornarono nelle vesti dei Macedoni, per quanto anch’essi Greci. Ostile a Filippo e a suo figlio Alessandro, Pausania sostiene che «il disastro di Cheronea fu all’origine delle sventure di tutti i Greci, soprattutto rese schiavi gli indifferenti e quanti si schierarono dalla parte dei Macedoni» (25, 21-22, p. 131). Ma la guerra in Grecia -e ovunque- è anche un fenomeno interno alle comunità politiche, alle città. Omicidi, complotti, aggressioni costellano la narrazione, come il caso di Efialte (495-461 a.e.v.), democratico radicale e per questo vittima designata dei poteri oligarchici (29, 140, p. 165).
L’altro nome della guerra è l’amore. Gli umani, infatti, «sono soliti incorrere in molte sventure a causa delle passioni d’amore» (10, 25-26, p. 55). Lo conferma la natura cosmica di Afrodite Urania, che in realtà «è la primogenita delle cosiddette Moire» (10, 17-18, p. 99), le divinità implacabili, le potenze prime e ultime che sovrastano il capo di Zeus insieme alle Ore, insieme al Tempo (40, 42-43, p. 215). La potenza di Afrodite si mostra in molte forme, situazioni, eventi, espressioni. C’è un’Afrodite che avvicina -Epistrofia- e c’è un’Afrodite che allontana -Apostrofia- (40, 61, p. 217). C’è Ἔρως e c’è ᾿Αντέρως, il dio vendicatore dell’amore non corrisposto (30, 1, p. 167).

Le Moire, Afrodite, Eros, Anteros, Nemesi, sono implacabili come irremovibile è il grande dio potenza della terra: Dioniso. Un dipinto che si trovava nel più antico santuario del dio ad Atene mostrava «Penteo e Licurgo, che pagano il fio delle offese arrecate a Dioniso; Arianna che dorme; Teseo che salpa e Dioniso che viene a rapire Arianna» (20, 30-33, p. 103).
La divinità pervasiva di questo primo libro della Periegesi è naturalmente la dea eponima, Atena, alla quale è consacrata l’intera città e tutto il suo territorio (26, 52-53, p. 139). Tra la miriade di luoghi, edifici, templi e monumenti illustrati da Pausania, fondamentale per l’identità dell’Europa è uno che si trova «non lontano dall’Academia […] la tomba di Platone, a cui la divinità preannunciò che sarebbe stato il più grande fra i filosofi» (30, 24-25, p. 169).

La peculiarità dello sguardo di Pausania consiste anche nel fatto che qualunque sia lo specifico spazio che descrive, è capace di inserirlo in un tessuto geografico, storico, mitologico di universale significato. Un’intenzione e una vastità della quale lo scrittore è del tutto consapevole: «Intendo toccare in ugual misura tutti gli aspetti del mondo greco» (26, 34, p. 139)
Al di là di Atene, Pausania presenta Capo Sunio, le isole a esso vicine, le altre più lontane -Egina e Salamina-, le montagne della Megaride, la città di Megara, Eleusi e i misteri ai quali egli stesso era iniziato e sui quali è dunque massima la discrezione, altri santuari, villaggi, luoghi dove esiste o è accaduto qualcosa di significativo, tanto più se poco conosciuto rispetto a quanto hanno già narrato Erodoto e Tucidide. Ma un luogo che è e rimane centrale è Maratona. Non soltanto, come accennato, questo fu per Atene e per i Greci l’evento chiave ma «a Maratona è dato di sentire ogni notte nitrire cavalli e uomini combattere» (32, 29-31, p. 175).
Si ricordò di queste parole Foscolo quando scrisse -in alcuni versi assai densi dei Sepolcri– che Atene «sacrò tombe a’ suoi prodi» a Maratona, pianura nella quale «il navigante / che veleggiò quel mar sotto l’Eubea, / vedea per l’ampia oscurità scintille / balenar d’elmi e di cozzanti brandi, / fumar le pire igneo vapor, corrusche / d’armi ferree vedea larve guerriere / cercar la pugna; e all’orror de’ notturni / silenzi si spandea lungo ne’ campi / di falangi un tumulto e un suon di tube / e un incalzar di cavalli accorrenti / scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, / e pianto, ed inni, e delle Parche il canto» (vv. 202-214) .
E delle Parche il canto. Infinito, silenzioso, inesorabile. Anche di questo trionfo della Necessità e dei suoi dèi è pervaso il viaggio di Pausania. Ecco perché «qui c’è anche una statua di Afrodite, una di Apollo e una di Pan» (44, 96-97, p. 243). Qui. Ovunque.

«Quell’antica luce risplende ancora»

Werner Jaeger
PAIDEIA. La formazione dell’uomo greco.
Vol. III Il conflitto degli ideali di cultura nell’età di Platone
(Paideia. Die Formung des griechiscen Menschen, Walter de Gruyter e Co., 1947)
Trad. di Alessandro Setti
La Nuova Italia, 1990
Pagine 540

Il grande affresco sulla παιδεία si chiude (dopo il volume I e volume II) confermando la complessa unitarietà della cultura e dell’antropologia greca nella quale etica, medicina, politica e arte fanno tutt’uno, pur rimanendo distinti nella conoscenza. Anche per questo l’immagine di Platone come puro dialettico è certamente errata. Già vecchio, egli si sottopone alla fatica di un terzo viaggio a Siracusa per confermare la praticabilità del progetto politico della Repubblica. Diversamente da quanto spesso si ripete, per Platone il corpo non è soltanto σῆμα della mente ma anche elemento imprenscindibile nella formazione dell’essere umano. La medicina greca non si compone di una molteplicità di saperi specialistici, dedicati alla cura di morbi particolari ma guarda all’armonia del corpomente. La malattia consiste precisamente nello spezzarsi di tale armonia. «In questo senso superiore l’ideale greco della cultura umana può definirsi anche come l’ideale dell’uomo sano» (pag. 76). Platone pone sempre l’accento sull’azione, sul vivere, su una corrispondenza stretta e costante fra il pensare e l’essere.
Jaeger difende l’autore delle Leggi dalle accuse che questo dialogo ha ricevuto di eccentricità, pedanteria o -con Popper- di totalitarismo. Egli mostra come anche nell’ultimo suo dialogo Platone avversa l’accentramento del potere nelle mani di uno solo. Lo studioso esorta a paragonare la teocrazia platonica non agli stati moderni ma a quell’impresa educativa che è la chiesa cattolica. Emerge qui la dimensione religiosa della lettura di Jaeger, vicina a quella di Eric Voegelin, il quale in Order and History fa anch’egli di Platone una sorta di profeta del cattolicesimo. Quella lettura di Voegelin non mi convinse e non mi persuade neppure questa parte dell’interpretazione di Jaeger, per numerose ragioni. La principale è che Platone vuole fondare un’istituzione educativa -lo stato- in questo mondo e non una chiesa rivolta per definizione a preparare alla trascendenza. Le forme ideali platoniche sono l’essenza degli enti mondani, non la fase propedeutica alla santità del cielo.
Ma Platone è solo uno dei protagonisti di questo volume. Gli si affiancano Isocrate, Senofonte, Demostene. Nella diversità e persino nel conflitto delle loro posizioni politiche –basti pensare al filomacedone Isocrate contrapposto all’intransigenza di Demostene verso le imprese di Filippo- pulsa la stessa dimensione educativa del sapere e la medesima visione aristocratica del mondo e della παιδεία.
Come per i Sofisti, anche per Isocrate sono tre i fondamenti dell’azione educativa: la natura, l’apprendimento e l’esercizio. Se uno dei tre viene a mancare, essa non può che fallire. Indispensabile è dunque l’insegnamento, ma esso risulta efficace solo dove la natura -e cioè il biologico- ha predisposto un terreno adeguato all’impresa. Si deve anche a questa realistica consapevolezza se in Atene, «città incomparabile» (85), «si raggiunse una media culturale così alta» (75). Isocrate ebbe il merito di sostituire alla antica nobiltà di nascita «una nuova aristocrazia intellettuale» (264). La perennità della παιδεία ellenica è inseparabile da un sentimento elitario della vita.
Se «quell’antica luce risplende ancora» (513) si deve anche a un legame fortissimo con la dimensione naturale dell’uomo. Da qui nasce un’antropologia del possibile e del raro, un umanesimo tanto pervasivo ed esigente quanto lontano dal pregiudizio umanistico dei moderni.

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