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Surrogati

Leggendo una lucida riflessione di Marta Mancini dal titolo E l’uomo creò l’uomo («Aldous», 23.5.2023) ho appreso l’esistenza di questo sito: Success. IVF Clinic & Surrogacy Center, che consiglio di visitare con attenzione e a partire dal quale non pongo questioni di carattere etico o giuridico; non chiedo se il desiderio di avere un figlio possa costituire motivo sufficiente per averne anche diritto; e neppure osservo che i Paesi di origine delle donne che vendono il loro ventre siano Cipro, Grecia, Colombia e Ucraina; e che i prezzi per acquistare un pargolo vadano dai 13.000 ai 75.000 €, in relazione alla qualità della materia prima e alla garanzia del risultato.
Pongo una questione diversa e che mi interessa di più: se i cuccioli di Homo sapiens possono essere generati in questo modo, una delle ragioni di fondo non consiste forse nel valore intrinseco dell’umano, che non è superiore a quello di qualsiasi altro prodotto naturale e artificiale, acquistabile e vendibile? Che quindi la pretesa della nostra specie di essere qualcosa di più sia semplicemente patetica? E che la convinzione di costituire «la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, af. 12) sia segno di un’arroganza tanto banale quanto irragionevole?

 

Nel cosmo perfetto

Emil M. Cioran
La caduta nel tempo
(La chute dans le temps, Gallimard 1964)
Trad. di Tea Turolla
Adelphi, 1995
Pagine 131

Ogni filosofia che voglia intendere l’intero e non una sua parte perviene prima o poi alla comprensione o almeno all’intuizione di una differenza ontologica, perviene alla necessità di attribuire agli enti la loro giusta misura senza rendere nessuno di loro un elemento dominante nel cosmo perfetto e infinito.
La fecondità teoretica, e non soltanto esistenziale e stilistica, di molte pagine di Emil Cioran è dovuta proprio a questa differenza ontologica per la quale «la salvezza viene dall’essere, non dagli esseri» (p. 19). Coerente con questo bisogno di antropodecentrismo – che in altre pagine e tesi viene in realtà trascurato o negato nell’eccessivo peso che Cioran attribuisce alla sofferenza dell’accidente umano – lo scrittore individua ed elogia con grande chiarezza e con la consueta efficacia la differenza che il non umano rappresenta rispetto ai limiti della nostra specie.

Differenza rispetto all’energia e alla forza degli altri animali, che sono più in armonia con il mondo al quale appartengono, mentre l’umano ha bisogno di un continuo esercizio di ingegno per sopravvivere. Non Homo sapiens, dunque, «bensì il leone o la tigre avrebbero dovuto occupare il posto che egli detiene nella scala delle creature. Ma non sono mai i forti, sono i deboli che mirano al potere e lo raggiungono, per l’effetto combinato dell’astuzia e del delirio. Una belva, non provando mai il bisogno di accrescere la propria forza, che è reale, non si abbassa all’utensile» (16). Indicazione interessante anche per una filosofia della tecnica.
Differenza rispetto alla calma perfezione dei vegetali, nei quali Cioran individua a ragione «qualcosa di sacro», tanto che «colui che non ha mai invidiato il vegetale ha solo sfiorato il dramma umano» (127).
Differenza rispetto all’inanimato e all’inorganico poiché «la vita è una sollevazione dentro l’inorganico, uno slancio tragico dell’inerte: la vita è la materia animata e, bisogna pur dirlo, rovinata dal dolore. A tanta agitazione, a tanto dinamismo e a tanto affanno, non si sfugge se non aspirando al riposo dell’inorganico, alla pace in seno agli elementi» (85). Una pace che è ben chiara a  Sāriputta, discepolo del Buddha, convinto che il Nirvāna sia felicità, «e quando gli si obietta che non ci può essere felicità laddove non vi sono sensazioni, Sāriputta risponde: ‘La felicità sta appunto nel fatto che in essa non v’è alcuna sensazione’» (56). Cioran ne deduce che «il paradiso è assenza dell’uomo» (79), e io aggiungo assenza di ogni altro animale, di ogni altro dispositivo in grado di provare dolore ed esserne consapevole.
Differenza infine rispetto agli enti né animali né vegetali, gli enti che vivono «il sonno beato degli oggetti» (11).
La differenza ontologica diventa così differenza anche etica e soprattutto differenza esistenziale tra ciò che appare già segnato dalla consapevolezza della morte e ciò che emerge dal tempo come sua oggettiva incarnazione che durerà quanto la sua struttura chimico-fisica gli consentirà di durare ma non potrà esperire nessuna inquietudine in relazione a tale più o meno lunga durata. La differenza si pone tra gli enti i quali non possono rimettersi «dal male di nascere, piaga capitale se mai ve ne furono» e gli altri, tanto che «è con la speranza di guarirne un giorno che accettiamo la vita e sopportiamo le sue prove» (40).

Tra queste prove ce ne sono molte nelle quali l’umano eccelle, che si inventa nella ingegnosa creazione dei mali che è capace di moltiplicare verso le direzioni più varie. Un esempio è la recente tendenza collettiva (tramite sostanze definite ‘vaccini’ ma che vaccini propriamente non sono) a morire «dei nostri rimedi» invece che «delle nostre malattie» (34) e anche a imporre questa stoltezza a quanti se ne vorrebbero salvaguardare. Cosa che accade anche perché «l’intolleranza è propria degli spiriti turbati, la cui fede si riduce a un supplizio più o meno voluto che essi desidererebbero fosse generale, istituzionale» (30), vale a dire che molti cittadini (italiani e non solo) intuendo il pericolo che vaccinarsi ha rappresentato hanno preteso che questo rischio – liberamente da loro assunto – fosse imposto a tutti gli altri cittadini mediante misure dispotiche, violente, discriminanti. Come si vede, non c’è stata alcuna «generosità», «senso civico», «attenzione ai fragili» ma c’è stato un misto di sentimenti negativi quali l’aggressività verso il non omologato, l’invidia, il conformismo, il sadismo.

Rispetto a tali dismisure contemporanee, Cioran vede negli ‘antichi’, vale a dire nei Greci, un’altra differenza. Gli antichi sono infatti «sotto ogni aspetto più sani e più equilibrati di noi» (35); sono consapevoli dei limiti umani dati anche e specialmente dal nostro essere parte di un intero, del cosmo, dal fatto «che i nostri destini [sono] scritti negli astri, che non vi [sia] traccia di improvvisazione o di casualità nelle nostre gioie o nelle nostre sventure» (129).
Anche per cogliere ancora tanta sapienza «sempre a loro torniamo quando si tratta dell’arte di vivere, della quale duemila anni di sovranatura e di carità convulsa ci hanno fatto perdere il segreto. Ritorniamo a loro, alla loro ponderazione e alla loro amabilità, non appena accenni a scemare quella frenesia che il cristianesimo ci ha inculcato; la curiosità che essi destano in noi corrisponde a una diminuzione della nostra febbre, a un arretramento verso la salute» (38), verso la große Gesundheit, la grande salute della quale parla Nietzsche, la salute che rifiuta il compiacimento cristiano nel dolore, il quale «sarebbe parso un’aberrazione agli Antichi, che non ammettevano voluttà superiore a quella di non soffrire. […] Avvezzi a un Salvatore stravolto, stremato, contratto nella smorfia del dolore, non siamo adatti ad apprezzare la disinvoltura degli dèi antichi o l’inestinguibile sorriso di un Buddha immerso in una beatitudine vegetale» (93-94).

La caduta gnostica nel tempo è dunque anche la caduta nella «tristezza», che costituisce il «principale ostacolo al nostro equilibrio» (62). Essere come gli antichi, diventare come l’inorganico, come la roccia, le stelle, le acque. Questo è l’invito esistenziale che la differenza ontologica di Cioran può offrire a chi abbia finalmente dismesso un primato dell’umano nell’essere che è formula ridicola anche solo a scriverla.

«L’evidenza del suo nulla»

Recensione a:
Emil M. Cioran
Finestra sul nulla
(Fereastrā spre nimic, Gallimard 2019)
A cura di Nicolas Cavaillès
Trad. di Cristina Fantechi
Adelphi, 2022
Pagine 227
in Discipline Filosofiche, 7 novembre 2022

Frammenti sparsi vergati tra il 1943 e il 1945 e poi giustamente abbandonati da Cioran. Il quale però essendo diventato un classico ha il consueto destino di vedere pubblicato tutto ciò che ha scritto. Insieme a delle pagine spesso piangenti, superficiali, teatrali, inevitabilmente moderne, si trovano anche qui delle riflessioni che intrameranno poi le opere maggiori di Cioran.
Una sensata dimensione cosmologica gli fa ad esempio dire che il patetico orgoglio umano si fonda sull’ignorare la misura dello spazio, sul disprezzare gli astri. Ma lo spazio e gli astri hanno il proprio fondamento nell’infinità del tempo, il quale si fa visibile in quella dimensione immensa di fronte alla quale «né la Terra né l’essere umano possono aspirare alla realtà. […] Ma quand’è che la boria della creatura ha raggiunto queste gigantesche proporzioni? L’orgoglio è la risposta dell’uomo alla propria irrealtà, e i suoi atti sono la lotta contro l’evidenza del suo nulla».
Se «la vita è il concetto meno filosofico che vi sia; è tutto ciò che possiamo immaginare di più anti-filosofico», è proprio perché la filosofia è anche vedere il mondo come si presenterebbe a uno sguardo antropodecentrico, nella prospettiva dell’intero, della quale la ζωή è invece parte insignificante.

Una metafisica antropodecentrica

La metafisica come antropodecentrismo
in Mechane. Rivista di filosofia e antropologia della tecnica
n. 3/2022
pagine 45-57

Indice
-Martin Heidegger e Eugenio Mazzarella
-Il campo metafisico
-Il campo anarchico-ermeneutico: Schürmann
-Metafisica e antropodecentrismo

Abstract
The essay tries to grasp starting from Heidegger and beyond Heidegger, from Mazzarella and beyond Mazzarella, the anthropodecentric structure that constitutes the real reason for the fecundity and necessity of metaphysics. Human meaning, its history and its future are inseparable from the atomic, molecular, thermodynamic story of the cosmos. Metaphysics, πρώτη φιλοσοφία, is also this attempt to observe and understand the world from the point of view of matter, of the whole, of the Φύσις.

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Aggiungo qualche altra parola al contenuto sempre necessariamente stringato dell’abstract.
Mia convinzione è che la struttura antropodecentrica costituisca la vera ragione di fecondità e necessità della metafisica. Ho cercato in questo testo di confrontarmi sia con Mazzarella sia con la lettura anarchica e antimetafisica che Reiner Schürmann ha dato del cammino heideggeriano.
Metafisico è infatti lo sguardo antropodecentrico, così diverso dalla centralità dell’umano e della soggettività che caratterizza invece il pensiero cristiano, cartesiano e moderno. Pensare la nostra specie come senso, centro e vertice significa concepire ancora una volta l’umano come un impero dentro l’impero, errore dal quale Spinoza ci ha messo in guardia con grande chiarezza. L’obiettivo è invece la delineazione di un campo metafisico nel quale l’umano è soltanto una parte trascurabile dell’intero, del cosmo, dell’essere.
Il saggio parte dalla centralità della relazione essere/esserci che Eugenio Mazzarella ha sempre posto alla base del cammino di pensiero di Heidegger. La salvaguardia di un elemento è condizione per la salvezza dell’altro, tanto che l’essenza umana è individuata nella costante apertura all’essere, che significa anche e immediatamente riconoscimento ‘greco’ dei limiti dell’umano, della finitudine, dell’inoltrepassabile che è il morire come destino e sostanza di tutto ciò che è vivo.
È qui che affonda la questione della tecnica, al di là di eventi storici, prospettive epistemologiche, inquietudini politiche. Affonda nei limiti umani e nel loro impossibile e quindi autodistruttivo superamento. A salvare l’οἶκος e a garantire dentro di esso l’umano è necessaria la rimemorazione di una finitudine biologica che è figura della colpa ontologica insita nell’esserci, come la filosofia sa da Anassimandro a Heidegger. I grandi temi gnostici della colpa e della pena sono stati affrontati tematicamente da Mazzarella solo nelle opere più recenti ma la loro genesi sta nel gioco di finitudine e ὕβρις che l’umano è da sempre.
Antiumanista come antiumaniste sono le filosofie di Marx e di Nietzsche, il pensiero di Heidegger è disvelatore dei limiti intrinseci a ogni prospettiva e progetto umanistici mediante il pieno riconoscimento di una differenza ‘ontologica’ proprio nel senso della differenza che sta a fondamento dell’essere. L’umano è sempre la situazione che lo precede, nella quale è comparso e in cui rimane gettato per l’intera sostanza dei suoi giorni; l’umano è dunque sempre una ben precisa possibilità che compare, accade e agisce dentro i bastioni del tempo storico che gli è stato destinato dall’eventuarsi della realtà. Il venire alla presenza non è niente di soggettivo e coscienzialistico, non ha a che fare con qualche volontà e proponimento, non è nulla di umanistico e nemmeno di antropologico.
Il punto chiave è che a essere finita non è soltanto l’umana esistenza, il Dasein, ma è «l’essere stesso in quanto tempo» (Sein und Zeit, § 47), l’essere come di-venire alla presenza per poi tornare nell’assenza. L’essere in quanto dissoluzione e processo.
Cerco insomma di leggere l’ontologia, anche quella heideggeriana, in profonda relazione con la cosmologia e la termodinamica.

Animali cibernetici

Lunedì 24 ottobre 2022 dalle 9,30 alle 11,30 terrò una conferenza all’Università Cattolica di Milano (Aula G.016), dal titolo Umanità, animalità, artificio. A invitarmi è stata la Prof.ssa Roberta Corvi, ordinario di Filosofia teoretica nell’Ateneo milanese.

L’umanità è un dispositivo biologico, poietico, ibridato e quindi insieme naturale e culturale. L’animalità è l’universale biologico e ontologico che comprende ogni vivente, umano compreso. L’artificio è il modo nel quale alcuni animali si rapportano al loro mondo/ambiente.
Anche perché costituito dalla convergenza di tecnica e biologia, l’umano è apertura alla Differenza. L’Altro è il conspecifico, l’Altro è l’animale, l’Altro è la macchina, l’Altro è il dio. L’umano è una molteplicità nella quale il dominio del soggetto antropocentrato è un’illusione rispetto al rizoma della persona incarnata nel mondo e ibridata con esso. Antroposfera, zoosfera, tecnosfera e teosfera costituiscono le dimensioni nelle quali nasce, gorgoglia e splende l’esserci.

 

Ethoanthropology

Towards an ethoanthropology  
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Anno 13 – Numero 1/2022
Pagine 72-78

Indice
1 Paradigms
2 Ethoanthropology
3 Natureculture
4 Animal Experimentation
5 Biotechnology

Abstract
In this paper, I propose we replace the anthropocentric paradigm with an ethoanthropological one that can account for the fact that the human being is just a part of the world and of “nature”. Theoretical reflection and recent findings in the natural sciences confirm that ancient anthropocentric dualisms – the ancient body/soul, and res extensa/res cogitans divide – are obsolete. Here I argue that the human being is a bodymind continuum (an embodied mind), comprising action, experience, nurture, and culture. To develop a broader and at the same time more specific science of man is possible only on the condition that we give up the anthropocentric view and replace it with an ethoanthropology. This would also provide compelling reasons to forego harmful experimentation and exploitation of other animal species, including animal biotechnology.

Per una etoantropologia – In questo articolo si avanza la proposta di rimpiazzare il paradigma antropocentrico con un paradigma etoantropologico volto a comprendere l’essere umano all’interno del mondo e all’interno della “natura”. La riflessione teorica e le scienze naturali confermano che l’antico dualismo antropocentrico – tra corpo e mente, tra res extensa e res cogitans – è semplicemente obsoleto. L’essere umano è un continuum di corpomente (una mente incarnata), azione, esperienza, educazione e cultura. Sviluppare una scienza dell’uomo che sia più ampia e al contempo più precisa è possibile a patto di superare il provincialismo antropocentrico e di sostituirlo con una etoantropologia. Questa potrebbe fornirci delle ragioni forti per rinunciare alle pratiche più distruttive operate sugli animali, comprese quelle biotecnologiche.

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Vorrei aggiungere qualcosa ai dai bibliografici di questo saggio. Vorrei dare qualche informazione ulteriore che possa essere utile soprattutto ai miei allievi e in generale a dei giovani studiosi. Un’informazione che li aiuti anche a non scoraggiarsi quando ricevono dei rifiuti alle loro proposte di pubblicazione da parte delle riviste scientifiche. Anche la ormai consueta peer review, ‘valutazione tra pari’, non sfugge infatti agli umani, troppo umani sentimenti e comportamenti.
Questo saggio, dedicato a un tema centrale della mia ricerca, mi era stato in realtà chiesto da una collega come contributo a un volume collettaneo. Dopo qualche tempo dall’invio ricevo non da lei ma da una sua collaboratrice il giudizio di un reviewer che bocciava decisamente il testo. Può capitare, naturalmente, ma in questo caso la procedura era stata scorretta.
In primo luogo perché si trattava di un solo revisore, quando la regola ne prevede due.
In secondo luogo, e soprattutto, si trattava di un revisore che probabilmente aveva capito chi fosse l’autore, verso il quale evidentemente non nutre molta simpatia; aveva quindi approfittato dell’occasione non per redigere un giudizio negativo ma per insultare il testo (e quindi il suo autore) con un linguaggio e delle modalità che la pratica di valutazione tra pari esclude.
Poco male se non per chi mette in atto simili comportamenti, non certo per me. Proposi infatti il testo a una delle più prestigiose riviste internazionali di filosofia, i cui due revisori diedero giudizi positivi: uno con un apprezzamento incondizionato, scrivendo tra l’altro: «The author expresses with mastery and competence the multiple and complex articulations of the topic of the paper. […] The essay is an excellent reflection on the issues highlighted above, written in clear and engaging language at the same time»; il secondo revisore con un giudizio nel quale mi dava dei consigli su come chiarire e migliorare due passaggi e argomentazioni del testo: «The manuscript can be considered as a position paper expressing a strong and heartfelt accusation against anthropocentrism. Even if it does not have the classic structure of a regular article, the proposed arguments are compelling and constitute at least a challenge for our life style and for a number of beliefs that we typically take for granted.
For this reason, I consider this work worth publishing.
Yet, I strongly suggest to clarify to passages concerning the notion of vivisection.
[…] In any case the relationship between animal and environment exploitation should be expressed more clearly».
Ho naturalmente modificato i brani e integrato le questioni segnalate da questo revisore, che quindi ringrazio per avermi aiutato a migliorare il testo. Come ringrazio il primo per il giudizio totalmente positivo da lui formulato.
Per quanto riguarda il poveretto che aveva concluso la sua valutazione con queste parole (comunque tra le più gentili rispetto al resto): «Il paper non presenta alcuna innovativa posizione nel dibattito sull’argomento; tenta di farlo, ma in maniera pressoché pamphlettistica, che poco ha del paper scientifico», gli auguro di crescere scientificamente e umanamente.

[In questo numero della RiFP è uscito anche un ampio studio del mio allievo e collaboratore Andrea Pace Giannotta, dal titolo Corpo funzionale e corpo senziente. La tesi forte del carattere incarnato della fenomenologia (pp. 41-56)].

 

Davide Miccione su Animalia

Davide Miccione
Recensione a Animalia
 in Phronesis. Semestrale di filosofia, consulenza e pratiche filosofiche
Anno II seconda serie, numero 5, maggio 2022
Pagine 91-95

«Il tema di Animalia non è però calcato sull’urgenza del momento come Disvelamento ma su un’urgenza, per così dire, eterna, cioè quella che ha il Sapiens di riuscire a capirsi e vedersi in quanto uomo. Un volume di antropologia filosofica verrebbe da dire se non fosse che è proprio quest’ultima che viene scardinata e resa impossibile, almeno nelle forme in cui siamo abituati a pensarla. Biuso parte dal modo in cui siamo abituati e pensare l’uomo e in pochi passaggi rende questa modalità inattingibile.
[…]
Difficile non scorgere il ridicolo di una categorizzazione binaria che mette il lombrico e il bonobo, che in nulla si somigliano, insieme nella identità animale, e noi che tanto al cugino peloso somigliamo, da soli nell’altra. Animale diventa così solo un “controtermine” atto a scopi di separazione, di sfruttamento e di guerra.
[…]
Dunque dall’eccezionalismo antropocentrico che ci divide dall’animalità, discendono altre separazioni, altri dualismi, altre contrapposizioni che Biuso perlustra nel libro e a cui contrappone una attenta cucitura della nostra realtà categoriale. Tentato dal monismo (come le ombre di Spinoza e Schopenhauer che si intravedono alle sue spalle ci suggeriscono) Biuso non vi cede mai. Alla casacca della totalità preferisce un attento lavoro sartoriale che tenga conto dei tessuti di provenienza. La stessa scelta del termine “corpomente” per indicare quegli uomini che noi siamo o “naturacultura” per delineare una lettura del rapporto tra innato e acquisito meno rigida, rivela questa passione per una conciliazione che superi le differenze ma non le anneghi».

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