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«Come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare»

Il figlio sospeso
di Egidio Termine
Italia, 2017
Con: Paolo Briguglia (Lauro), Gioia Spaziani (Margherita), Aglaia Mora (Giacinta), Egidio Termine (il dottor Gerani)
Trailer del film

Essere madri, diventare padri. Un enigma. Che di solito non comporta misteri ma soltanto la forza irresistibile del βίος che vuole diventare ζωή, eternarsi, non morire. A tutti i costi. Anche a quello di intese, silenzi, ricatti, inganni, nascondimenti. Perché un bambino è innanzitutto e per lo più espressione del naturale egoismo di corpi che non vogliono finire. Del bambino, in sé, importa poco.
Melodrammatico ma anche sobrio, televisivo ma non del tutto banale, Il figlio sospeso suggerisce e illustra tale verità. Probabilmente senza proporselo ma con la forza dell’argomento.
Perché Lauro è un giovane uomo alla ricerca delle memorie del padre, tragicamente scomparso in un incendio, e di un fratello che crede di avere. La madre Giacinta deplora questa sua ricerca ma non la ostacola. La pittrice Margherita sa molte cose su di lui, molte più di quanto Lauro immagini. Come si vede, i personaggi hanno nomi vegetali, ma le piante generano senza scopi reconditi. Le piante sono più sincere.
In questa sua ricerca tra le belle terre e il mare di Sicilia, Lauro ha memoria di eventi che non ha mai vissuto e che tuttavia gli appartengono. Poiché sospeso è il ricordo, sospeso è il desiderio. Anche quello supremo, il desiderio dell’immortalità surrogata attraverso la lunga schiera dei discendenti: «Io ti colmerò di benedizioni e moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; e la tua discendenza s’impadronirà delle città dei suoi nemici» (Genesi, 22,17). La figliolanza è guerra.

Madri

La sposa promessa
(Lemale Et HàChalal)
di Rama Burshtein
Con: Hadas Yaron (Shira), Irit Sheleg (Rivka), Yiftach Klein (Yohai), Chayim Sharir (Aharon), Hila Feldman, Razia Israeli (la zia Hanna), Renana Raz (Esther)
Israele, 2012
Trailer del film

Una madre muore dando alla luce il suo primogenito. La madre della defunta è disperata alla prospettiva che il genero si risposi portando via con sé il nipotino. Chiede dunque alla propria figlia minore di sposare il cognato, fare da madre al bambino e rimanere tutti vicini. La giovane Shira aveva altri desideri ed è combattuta tra il senso del dovere verso la madre e l’aspirazione a costruirsi una propria esistenza sposando l’uomo che ama. Incerta sino allo spasimo, farà la sua scelta il cui esito rimane tuttavia radicalmente ambiguo, come mostrano gli ultimi belli e drammatici minuti del film.
Questo accade a Tel Aviv, all’interno di alcune famiglie dell’ebraismo ortodosso e chassidico (quelle, per intenderci, i cui maschi indossano ovunque cappelli e cappotti neri e si fanno crescere i peyot, i riccioli laterali). Famiglie molto chiuse, le cui usanze, credenze, valori sono estremamente formalizzate. Vite fatte di formule pronte per ogni circostanza e sempre uguali nel loro ripetersi. La cinepresa indugia a lungo e giustamente sul volto della protagonista, brava a esprimere in ogni gesto l’inquietudine, la speranza, la disperazione. I tagli e le luci sono a volte caravaggeschi.
Strumenti formali al servizio di una storia che mostra con la chiarezza della vita quotidiana come il cuore dell’ebraismo (e quindi anche del cristianesimo da esso figliato) sia la colpa e il non-amore.
Il senso di colpa per la disgrazia che ha colpito la famiglia, interpretata come il frutto evidente di un qualche peccato. Il senso di colpa di Shira verso la madre. L’egoismo totale di quest’ultima che pur di tenersi vicino il figlio della figlia maggiore non esita a sacrificare la figlia minore. Sono religioni, queste, tutte colpa e niente amore. Religioni nelle quali il terrificante paterno e la possessività materna sanciscono un’obbedienza assoluta, trascendente e infelice.

«Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
[…] Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. L’angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”. Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Genesi, cap. 22, 1-13).

L’ariete offerto in olocausto a una simile barbarie del timore, a tale fanatismo di obbedienza verso il principio di autorità, è stata l’intera umanità. Le religioni del Libro hanno corrotto alla radice la serenità del vivere.

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