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Finale di cortile

Zō. Centro culture contemporanee – Catania
Il cortile
di Spiro Scimone
con Spiro Scimone, Francesco Sframeli, Gianluca Cesale
scene e costumi di Titina Maselli
regia di Valerio Binasco
produzione Compagnia Scimone Sframeli

Dialoghi ripetuti e sempre uguali. Peppe chiama Tano, gli chiede di sistemargli la coperta sui piedi, dargli il bastone, un poco d’acqua, da mangiare. Che lo aiuti a urinare. Che lo faccia salire in alto con un argano, che uccida il topo che una volta gli faceva compagnia ma che ora gli mangia i piedi, che lo porti in cortile. E ogni volta gli chiede se tutto questo è la prima volta che lo fa. Alla risposta negativa di Tano, osserva «Te lo chiedo perché lo fai con amore, perché lo fai con piacere, perché lo fai con mestiere». Da un qualche angolo di un ambiente insieme tecnologico e macilento, un mondo di rovine, si sente anche la voce di Uno, che poco dopo compare. Appare a chiedere anche lui del cibo, a supplicare di aiutarlo a fare pena, sempre più pena. Uno striscia come un verme verso di loro e parla di quando aveva un lavoro, della moglie che lo aspetta immobile, delle dentiere che la gente butta e lui raccoglie, che la gente butta perché non c’è più nulla da mangiare.
Sembra di assistere alla continuazione, a una qualche continuazione, di Finale di partita con Hamm, Clov e gli altri pochi personaggi stralunati, miserabili e viventi nell’altrove, abitanti l’estraneità radicale di parole che quanto più sembrano esatte e rivolte a indicare oggetti e atti assai precisi, tanto più risultano bislacche e quasi incomprensibili. L’estraneità di un mondo dal quale è evaporata l’energia. Ne è rimasta solo la quantità necessaria e sufficiente a proseguire un respiro ormai insensato. L’estraneità alla luce, chiusi in un cortile dentro il quale la malinconia stende il suo sudario.
I corpi di Sframeli e Scimone, lo strisciare di Cesale, i gesti di tutti, colmi e insieme vuoti, costruiscono un abisso, descrivono l’infondato.

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