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Campi di sterminio, sterminio dei campi

La prima apparizione pubblica di Martin Heidegger dopo la Seconda guerra mondiale avvenne a Brema nel 1949, con un ciclo di conferenze dal titolo Einblick in das was ist (Sguardo in ciò che è). Di Heidegger è peculiare che dalle tesi apparentemente più astratte derivi al lettore una comprensione precisa, efficace e disvelante della vita quotidiana, degli aspetti fondamentali dell’esistenza individuale e collettiva. Heidegger ha individuato con chiarezza la trasformazione del mondo in un impianto (Gestell) la riduzione delle persone a risorse umane, funzionali alla produzione e sostituibili a ogni istante.
È di questo che mi sono ricordato leggendo un interessante e drammatico articolo apparso sulla rivista Indipendenza. Nel numero 33 (novembre/dicembre 2012) Gianni Sartori analizza i progetti di ulteriore colonizzazione del territorio vicentino da parte dell’esercito statunitense, in particolare il pericoloso programma di ampliamento per scopi militari dell’autostrada A31 in una zona ad alto rischio franoso. Contro tale progetto le popolazioni si sono mobilitate, come in Val di Susa. Tra gli oppositori vi è l’Associazione Coltivatori Diretti, che in un suo comunicato scrive: «Dopo i campi di sterminio la civiltà dell’industria ha determinato lo sterminio dei campi agricoli» (p. 28). L’articolo così prosegue: «E non sembri solo un gioco di parole. I contadini della Val d’Astico sanno di cosa parlano. La Valle ha ben conosciuto sia gli eccidi nazisti (come a Pedescala) che le deportazioni nei campi di sterminio. Non è un caso che Cogollo del Cengio sia gemellato con Mauthausen».
Ebbene, in un brano della conferenza del 1949 -che è stato rimproverato a Heidegger come espressione della sua insensibilità verso le tragedie del Novecento- il filosofo sostiene la continuità tra lo sterminio dei Lager e la distruzione delle risorse naturali del pianeta, senza le quali la vita va scomparendo dalla Terra:

Il lavoro del contadino non provoca il terreno, bensì affida la semina alle forze della crescita, proteggendola nel suo allignare. Nel frattempo, tuttavia, anche la lavorazione della terra si è convertita nel medesimo ordinare che assegna l’aria all’azoto, il terreno al carbone e al minerale metallifero, il minerale all’uranio, l’uranio all’energia atomica e quest’ultima a una distruzione che può essere ordinata. L’agricoltura è oggi industria alimentare meccanizzata, che nella sua essenza è lo Stesso (das Selbe) della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, lo Stesso del blocco e dell’affamamento di intere nazioni, lo Stesso della fabbricazione di bombe all’idrogeno.
(Conferenze di Brema e Friburgo, volume LXXIX della Gesamtausgabe, a cura di P. Jaeger, edizione italiana a cura di F. Volpi, trad. di G. Gurisatti, Adelphi, 2002, pp. 49-50)

Vi è qui la conferma che un grande pensare è capace di comprendere, al di là delle contingenze, il terreno nel quale affondano le radici invisibili degli eventi.

La carne dei volti

Raffaello verso Picasso. Storia di sguardi, volti e figure
Basilica Palladiana – Vicenza
A cura di Marco Goldin
Sino al 20 gennaio 2013

Un profluvio di pittori, di dipinti, di epoche artistiche. Non manca quasi nessuno tra i nomi più importanti della pittura europea tra il Quattrocento e il XX secolo. Tranne Antonello da Messina, Hieronymus Bosch e Leonardo da Vinci, sembrano esserci proprio tutti: Mantegna, Botticelli, Raffaello, Dürer, Veronese, El Greco, Rubens, Caravaggio, Rembrandt, Velasquez, Goya, Manet, Monet, Degas, Gauguin, Renoir, Cézanne, Modigliani, Picasso, Bacon. E molti altri.
Il tema della mostra è quell’elemento fondamentale dell’identità di ciascuno che è il viso, la faccia con la quale ci presentiamo non soltanto agli altri ma in primo luogo a noi stessi, il volto che parla anche quando non proferiamo parola, lo sguardo che comunica pensieri, emozioni, memorie, attese, il dolore e la gioia.
In un percorso siffatto ciascuno individua e trova le consonanze più intime, proiettando sui capolavori quell’opera di ognuno che dovrebbe essere la propria temporale e palpitante esistenza.

[Cliccando sulle immagini, esse appariranno assai meglio definite]

Nella Vergine con il bambino di Bramantino (1485) ho trovato la continuità senza iato tra l’umano e i luoghi, tra il corpo e lo spazio. Questa donna spigolosa e delusa sembra essere tutt’uno con il castello dal cui sfondo emerge; stesso colore, stessa geometria.

Il medico di Francisco Goya (1779) è prima di tutto interessato a scaldare il proprio corpo e il proprio prestigio al fuoco di un braciere. Pazienti e scienza vengono dopo, come è chiaro dallo sguardo freddo e infastidito, ravvivato -come spesso accade in Goya- da un barlume di follia.

Nella Donna con parasole e un bambino di Auguste Renoir ciò che davvero emerge non è l’idillio campestre e familiare ma è il dolore della luce, di una postura obliqua, di quell’angolo buio al quale ogni vita è destinata.

L’Autoritratto che Pierre Bonnard dipinse nel 1945 trasmette l’immensa nostaglia e il lutto di chi sa che «il nostro dio è la luce» (come scrisse una volta a un amico) e che manca ormai poco alla tenebra.

La magnifica Figura distesa nello specchio (1971) di Francis Bacon va finalmente all’essenza metafisica del volto umano: un grumo di carne, di finitudine, di tempo.

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