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Amore e Morte

La corrispondenza
di Giuseppe Tornatore
Con: Olga Kurylenko (Amy Ryan), Jeremy Irons (Ed Phoerum)
Italia, 2015
Trailer del film

Un professore di astrofisica di Edimburgo. Una sua studentessa, che per vivere fa anche la stunt nel cinema. Si amano da sei anni, incontrandosi quando e dove possono, in particolare a Borgoventoso, un affascinante paesino sul lago d’Orta. Si chiamano di continuo, si scambiano messaggi, si vedono su skype. Fino a quando il flusso sembra interrompersi a causa dell’astrocitoma che uccide il professor Ed Phoerum. Sembra però, perché Ed continua a far avere ad Amy i messaggi, i video, i sorrisi che ha registrato negli ultimi mesi della sua malattia, della quale nulla ha detto alla ragazza. «Solo che da qui non posso toccarti».
La corrispondenza è anche la struggente storia di un amore che va oltre la morte; è anche la prova della potenza degli strumenti digitali di comunicazione; è anche la raffinata e troppo patinata descrizione di Edimburgo e del lago d’Orta. Ma è soprattutto la continuazione di Una pura formalità (1994), il film più radicale di Tornatore. Analoghi sono l’enigma del morire e del rimanere, la domanda sui labirinti del tempo, l’intuizione di un errore fatale che conduce tutti gli umani alla fine, nonostante siano nati immortali. L’errore delle passioni, di una qualche passione che si amplia all’intera esistenza, come il tumore che uccide Ed Phoerum e che sembra dare ragione a Immanuel Kant: «Le passioni sono cancri» (Antropologia pragmatica, Laterza 2007, p. 157).
Il professor Phoerum naturalmente sa bene -e lo ripete a lezione- che la luce che ci arriva dalle stelle è in tanti casi la luce di astri che sono spenti da molto tempo. Una luce che però continua ad attraversare gli spazi e a battere il tempo.  Come l’amore, a volte.

Arte / Artificio

La migliore offerta
(The Best Offer)
di Giuseppe Tornatore
Con: Geoffrey Rush (Virgil Oldman), Sylvia Hoeks (Claire), Jim Sturgess (Robert), Donald Sutherland (Billy), Philip Jackson (Fred)
Italia, 2012
Trailer del film

Raffinato, assai ricco, colto, Virgil Oldman è il proprietario di una casa d’antiquariato e un ricercatissimo battitore d’aste. È uno dei massimi conoscitori di intere epoche e artisti. Non tocca mai nulla e nessuno senza indossare dei guanti. Vive da solo in una casa il cui caveau è costituito da alte pareti dalle quali splendono immagini di donne. Donne dipinte con gli stili e nei periodi più diversi ma tutte accomunate dal guardare dritto negli occhi chi le osserva. Oldman non indirizza mai il suo sguardo sulle donne che incontra ma soltanto su quelle raffigurate.
Una giovane cliente gli chiede di valutare il vasto patrimonio presente in una villa, patrimonio che intende mettere all’asta dopo la morte dei suoi genitori. Questa donna soffre di una grave forma di agorafobia. Non si mostra mai né a lui né ad altri. Le sicurezze di Oldman cominciano a vacillare di fronte alla voce di Claire e alla curiosità verso di lei. In breve: è la passione. Un sentimento progressivo e totale che riesce nell’impresa di guarire la ragazza, portarla fuori dalla villa, trasformare le vite di entrambi. E tuttavia, come si ricorda nel corso del film, «i sentimenti umani sono come le opere d’arte: si possono simulare» e «in ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico».
L’Artificio è la cifra di quest’opera. Nella magnifica villa di Claire, Oldman trova di tanto in tanto dei piccoli ingranaggi di epoca antica che riesce ad assemblare con l’aiuto di un giovane amico esperto in ogni marchingegno. Ne verrà fuori uno degli automi settecenteschi di Vaucanson. Sarà questo automa a svelare parte della verità. Un’altra parte gli verrà comunicata da un automa umano: una ragazza autistica che abita di fronte alla villa di Claire e che dipana continuamente dei numeri. La scena finale si svolge in un ristorante di Praga pieno di orologi meccanici che scandiscono un tempo che soltanto le passioni umane possono riempire per noi di significato. Il film è esso stesso un meccanismo a incastro, dove tutto deve accadere e accade secondo un progetto che gli ultimi -inesorabili- venti minuti conducono a lancinante chiarezza.

Dopo alcuni film deludenti e dopo il pessimo Baaria, Tornatore riacquista la densità metafisica della sua opera più bella e forse meno conosciuta: Una pura formalità (1994). Anche qui l’impulso del cinefilo si stempera e si distende in una ripresa originale e sempre piacevole  di alcune grandi opere della storia del cinema: la perfidia femminile che ne L’angelo azzurro (Josef von Sternberg, 1930) degrada la figura di un dignitoso professore in quella di un umiliato marito da circo; la trasformazione dell’esistenza appartata ed elegante di un altro professore per mano di una volgare tribù familiare in Gruppo di famiglia in un interno (Luchino Visconti, 1974); la miriade di thriller e di film che hanno utilizzato l’artificio cinematografico per esprimere la finzione che sta al fondo delle relazioni umane. La metafora è qui chiarissima nel continuo piacere che le opere d’arte delle quali il film è disseminato offrono a chi lo guarda. Il greco Techne e il latino Ars si riferiscono entrambi alla capacità di costruire delle belle ed efficaci simulazioni. L’opera è per sua natura un artificio. Di questa dinamica tra simulazione e dissimulazione che è la vita, a volte siamo vittime altre volte diventiamo carnefici.

Baarìa

di Giuseppe Tornatore
Italia, 2009
Con: Francesco Scianna (Peppino Torrenuova), Margaret Madè (Mannina)
Trailer del film

baarìa

Mezzi imponenti, scenografie reali e digitali che descrivono Bagheria e la sua piana nell’arco di decenni, una folla di attori assai famosi ma disposti ad apparire solo per qualche minuto o anche meno, l’intenzione di raccontare con la stessa forza epica con la quale il pastore Ciccio Torrenuova declama i poemi cavallereschi e Ignazio Buttitta canta le proprie poesie, il giallo del latifondo come colore dominante, il sogno, il volo sullo spazio e sul tempo…

E tuttavia il film rimane inesorabilmente in superficie, nella frammentazione concitata di un racconto che enuncia in una scena chiave la propria poetica, quando un ragazzo scambia le figurine dei calciatori con pochi fotogrammi sottratti alla pellicola di celebri film. Non basta però citare da Leone, Rosi, Visconti, Fellini, se il narrare si limita a una serie -appunto- di scene e scenette che vanno dal sentimentale al grottesco. Un solo esempio: l’accenno alle cose viste e «da rizzari i carni» pronunciato da Peppino al suo ritorno da un viaggio in Unione Sovietica. Si ferma lì, come ogni argomento o tema toccato dal film.
Un momento davvero riuscito è verso la fine, quando i due bambini si incrociano nella corsa di ciascuno verso il futuro e il passato. Per il resto, Baarìa vorrebbe essere un’opera visionaria che risulta invece manieristica.

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