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L’eterno ritorno dei quanti

Source Code
di Duncan Jones
Sceneggiatura di Ben Ripley
USA – Francia, 2011
Con: Jake Gyllenhaal (Colter), Michelle Monaghan (Christina), Vera Farmiga (Goodwin), Jeffrey Wright (Rutledge), Michael Arden (Derek)
Trailer del film

Invece che in Afghanistan, un capitano dell’esercito USA si risveglia dentro un treno, con davanti a sé una ragazza che non ha mai visto ma che lo chiama con un nome non suo e gli parla come fosse la sua fidanzata. Davanti allo specchio del vagone vede una persona che non è lui. Trascorrono 8 minuti e il treno esplode. Il capitano Colter è però ancora vivo, sta in una specie di capsula, da un video gli parlano altri militari e un fisico quantistico. In qualche modo gli spiegano che non si trova più in Afghanistan, che un programma digitale quantistico -denominato Source Code– gli consente di assumere il corpo di un’altra persona morta, anche se limitatamente agli ultimi 8 minuti che precedono il morire. E che il compito che gli è stato affidato consiste nello scoprire chi sia stato a mettere la bomba sul treno, poiché il responsabile sta per portare a termine un nuovo devastante attentato.
Come si vede, la Science Fiction comincia ad attingere alle oscurità e ai profondi controsensi della meccanica quantistica per costruire storie interessanti come questa. Il responsabile del progetto, infatti, spiega al capitano Colter che «non si tratta di viaggiare nel tempo ma di redisporre il tempo», non di influire sul passato (cosa che qualunque teoria fisica nega e non può che negare, pena il cadere nell’assurdo e in paradossi irresolubili come quello del figlio che tornando nel passato uccide il padre che lo ha generato) ma di evitare che qualcosa accada nel futuro. La base di tutto questo è l’ipotesi del multiverso, a sua volta fondata sulla teoria delle stringhe, secondo la quale la materia non sarebbe composta di particelle discrete e compatte ma di stringhe infinitesimali che vibrando incessantemente e in modo differenziato producono le componenti atomiche, dai quark agli elettroni. Il cosmo quindi, da una delle nostre cellule sino alle galassie più estese, sarebbe composto di processi e non di entità statiche, cosa -quest’ultima- che mi sembra del tutto plausibile.
Della ipotesi delle stringhe si danno in realtà cinque versioni. Si chiama M-teoria il tentativo di unificarle in una concezione la quale ritiene che lo spazio visibile e percepibile sia solo parte di un cosmo più vasto, costituito da immense membrane (braneworld) che a loro volta vibrano, si avvicinano e si allontanano generando in tal modo una varietà di universi e tra questi il nostro. Universi non soltanto spaziali ma anche temporali e nei quali dunque la minima variante può generare sviluppi degli eventi del tutto diversi, come appunto accade durante le cinque volte nelle quali il capitano Colter si risveglia sul vagone, dando vita a cinque diversi sviluppi degli stessi eventi. Che sia il frutto di fluttuazioni nel caos primordiale (alla Boltzmann) o di una ordinata produzione di multiversi inflazionari (tesi preferita dalla maggior parte dei fisici), la realtà che ci appare sin dentro le più remote distanze dell’orizzonte cosmico (e cioè dello spaziotempo la cui luce ci sia già arrivata), ciò che insomma chiamiamo universo, sarebbe parte di un tutto e questo tutto comporterebbe un numero indeterminato di mondi nei quali l’esistenza di ciascuno di noi come di ogni ente vivrebbe diramazioni, fatti, alternative diverse.
Il mondo che percepiamo e nel quale conduciamo le nostre esistenze spaziotemporali appare come l’ombra di Platone, il velo delle Upanishad e di Schopenhauer, il fenomeno kantiano. Illusioni confermate dalla teoria quantistica, in particolare dalla interpretazione di Copenaghen e di Bohr, per le quali «prima di misurare la posizione di un elettrone non ha senso chiedersi dove si trovi: non ha una posizione definita […] Ciò non significa che l’elettrone ha una posizione che noi non riusciamo a conoscere se non dopo averla misurata: in realtà esso non possiede proprio una posizione definita prima che si effettui la misurazione» (Brian Greene, La trama del cosmo. Spazio, tempo, realtà [The Fabric of Cosmos: Space, Time and the Texture of Reality, 2004] Einaudi, 2006. p. 113).
Una grande mitologia scientifica è la fisica dei nostri giorni. Essa non solo rende plausibili, con il “teorema di ricorrenza” di Poincaré, l’eterno ritorno di tutte le cose in una «freccia del tempo [che] forse, è in realtà un anello che gira in continuazione su se stesso» (Ivi, pp. 211 e 446) ma si fonda e si esprime in una serie di eventi, di dinamiche e di singolarità (situazioni estreme nelle quali le leggi fisiche conosciute vengono sospese) che somigliano molto a dei veri e propri miracoli, come ad esempio l’assoluta singolarità (in ogni senso) della spinta inflazionaria che avrebbe dato origine all’espansione della materia ma che non si sa bene da dove e come abbia assunto tutta la sua impensabile energia. Ma c’è di peggio: affinché la teoria delle stringhe sia corretta, bisogna postulare che la materia si squaderni in dieci dimensioni e che pertanto ci siano «da qualche parte sei dimensioni di cui nessuno si è mai accorto. Questo non è un dettaglio tecnico, ma una tragedia» (Ivi, p. 424). Non stupisce che di fronte a simili postulati, condizioni, conseguenze, «alcuni scienziati protestino vibratamente: una teoria così aliena dalla sfera dell’osservabile e dello sperimentabile è una teoria filosofica o teologica, non fisica» (Ivi, p. 416).
Su che cosa quindi si fonda tutta questa complessa e improbabile costruzione fisico-cosmologica? Su alcuni risultati osservativi indiretti riguardanti la dinamica delle particelle elementari e soprattutto su inferenze speculative basate su teorie matematiche. Ma questo vuol dire che la cosmologia contemporanea e le più avanzate ipotesi della fisica dei quanti sono di fatto una teologia matematica. E questo significa che la fisica teorica contemporanea ha cambiato statuto. Non è più scienza nel senso galileiano ma «una rama de la literatura fantástica» (Borges, Tlön, Uqbar, Orbis tertius, in Finzioni, «Tutte le opere», Mondadori 1991, vol. I,  p. 631). Letteratura fantastica appunto, come anche questo coinvolgente film dimostra.

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