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Dentro la vita

Alberto Tenenti
Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento
Einaudi, 1989 (I. ed. 1957)
Pagine XVII-511

La storiografia delle Annales ha fatto dello studio della sensibilità collettiva, della mentalità, uno dei suoi elementi innovatori e fondamentali. Questo ampio lavoro di Alberto Tenenti si inserisce in tale ambito di ricerca. Il volume prende in considerazione il periodo che va dal 1348 (anno della ‘peste nera’ in Occidente) alla fine del Cinquecento. Due secoli e mezzo che videro l’irrompere di un nuovo senso della morte nella vita quotidiana, nella sensibilità diffusa e nelle testimonianze artistiche. Da elemento naturale e quasi collettivo, la morte viene a poco a poco concepita come un evento individuale e terribile che sorprende il vivente e ne sconvolge non soltanto i progetti e le ambizioni mondane ma anche il destino di anima immortale.
Dal 1350 in poi appaiono dunque una molteplicità di testi dedicati all’ars moriendi –«che era semplicemente l’arte di vivere come se da un momento all’altro l’uomo fosse chiamato a comparire dinanzi al giudice divino» (p. 41)– e si affermano i Trionfi della morte e le Danze macabre.
Ed è proprio sul ‘macabro’ che si incentrano le analisi più originali di Tenenti. Egli dimostra che il proliferare di scheletri squarciati, di crani, tibie, fantasmi che lottano –e sembra che danzino– con i vivi, fu espressione di un primo, per quanto timido e graduale, allontanamento dalla concezione cristiana della morte. Dalla «contemplazione della putredine e dell’annichilamento fisico» molti trassero verso un ascetismo mistico ed estremo ma molti altri «attraverso il doloroso confronto con l’immagine e il sentimento della loro sorte organica, giunsero ad affermare irrevocabilmente proprio l’amore della vita ed il valore essenziale dell’esistenza terrena» (147; cfr. anche 459).
Mentre prima del Trecento la morte costituiva in qualche modo soltanto un passaggio dell’anima all’eterno, dalla nuova consapevolezza della putrefazione delle membra si svilupparono sia un funebre desiderio del Cielo sia l’amore per questa vita, per questo corpo nello splendore delle sue funzioni vitali. Ecco perché Tenenti può sostenere «la ‘laicità’ del macabro» (424), strumento ambiguo che concentrandosi sui destini del corpo costituì un elemento di rottura della concezione antropologica medioevale: «Durante dieci secoli il cristianesimo non ha sentito il bisogno di rappresentare la sorte del corpo. […] Bisognerà ammettere una trasformazione molto profonda nelle strutture spirituali cristiane per attribuire loro, anche solo in parte, le manifestazioni di quel senso della morte di cui l’iconografia dei secoli XV e XVI è l’espressione» (412).
Dall’inveramento e dal superamento del macabro si svilupparono posizioni nuove e feconde sulla morte e sulla vita: la scettica serenità di Montaigne e la recti conscientia di Erasmo che ponendo il morente –ma prima ancora il vivo– di fronte alla propria interiorità lo tranquillizza e lo riconduce a un «senso morale puramente umano» (285). Per Montaigne la morte è dentro la vita, è un fatto della vita, che non proviene dall’esterno ma nasce dal di dentro, giorno per giorno. L’esistenza è così diventata una realtà in sé completa e conclusa. Eliminata la prospettiva ultraterrena, con le sue speranze e le sue paure, il senso della vita diventa il qui e ora del lavoro, dell’amore umano, delle gioie e delle difficoltà concrete e quotidiane. Nasce insomma la sensibilità moderna e con essa un’altra forma della socialità.
Di questo snodo concettuale che dal macabro ha condotto all’ottimismo della laicità, Tenenti analizza le testimonianze filosofiche, letterarie e figurative. Il volume è infatti integrato da una nutrita iconografia che l’autore descrive e commenta permettendo al lettore di inoltrarsi nella articolata concezione rinascimentale della morte. Essa costituisce un momento, una tappa, una manifestazione della complessità dell’essere e del finire umani. Complessità che Vladimir Jankélévitch ha espresso in questa formidabile sintesi: «avendo trattato, a proposito della vita, del mortalis che esprime una proprietà astratta, e del moriturus che designa un futuro e una vocazione, poi, a proposito dell’istante, del moribundus ‘sul punto di’ morire e del moriens ‘che sta per morire’, dovremmo trattare adesso del mortuus, che designa uno ‘stato’» (La morte, trad. di V. Zini, Einaudi 2009, pp. 372-373).
Il modo in cui singoli individui, intere civiltà, epoche storiche affrontano il morire è un indice fondamentale del loro modo di intendere la vita. Nella Postfazione del 1989 Tenenti osserva saggiamente che «se, da un lato, vi sono, nella presente congiuntura, comprensibili risorgenze di fantasmi o miraggi dell’aldilà, occorre dall’altra sviluppare sempre più fortemente la coscienza che qualsiasi aspetto – rituale, funerario, mentale – del senso della morte fa parte della vita sociale, politico-economica e culturale concreta» (504).

Heidegger / Ricoeur

in_circolo
Identità e differenze temporali. Su Heidegger e Ricoeur

in «In Circolo – Rivista di filosofia e culture»
Numero 2 – Dicembre 2016
Pagine 277-290

Abstract del saggio
«The paper analyzes and compares two fundamental works to understand temporality: Sein und Zeit by Martin Heidegger and Paul Ricoeur’s Temps et récit. Heidegger’s onthological analysis becomes theoretical narrative in Ricoeur, without losing anything of the complexity of the matter, rather getting enriched with a series of strong links to history, literature, phenomenology».

Annales

Fernand Braudel (a cura di)
PROBLEMI DI METODO STORICO
Antologia delle «Annales»
Traduzione di Alfredo Salsano
Laterza, Roma-Bari 1982 (1973)
Pagine 362

Les Annales rappresentano «una complessa rivoluzione storiografica» -secondo la definizione dello stesso Fernand Braudel (p. V)- cominciata nel 1929. La rivista ha infatti permesso di cogliere, o almeno questo ha tentato di fare, una storia globale in grado di aggiungere ai nomi, alle date, agli eventi, la difficile completezza della vita quotidiana, i movimenti dei gruppi e delle cose, il permanere delle mentalità, la vita materiale. Quest’ultima, ad esempio, comprende «cinque settori abbastanza vicini: l’alimentazione; l’alloggio e il vestiario; i livelli di vita; le tecniche; i dati biologici» (209).
Questa antologia contribuisce a penetrare in tale rivoluzione scientifica, e non soltanto storiografica, della quale poter comprendere contenuti, ricchezza, limiti. Les Annales hanno collegato la storiografia alle scienze umane, a volte persino identificandola con esse ma più spesso salvandone il peculiare carattere. I suoi fondatori, Marc Bloch e Lucien Febvre, hanno fin dall’inizio sottolineato la necessità di «un lavoro onesto, coscienzioso e solidamente documentato» (2). La rivista ha aperto molteplici e nuovi orizzonti fra i quali, oltre quelli già ricordati, emergono l’attenzione alla demografia o alla permanenza di problemi antichi fin nella contemporaneità, come quello dell’inquinamento già presente nella Bologna del XIII secolo e nella Francia del XVIII, la cui alta mortalità è prodotta anche dal fatto che «tutte le acque dei fiumi e dei pozzi sono inquinate; quella che viene bevuta è piena di germi, e se ne fa tanto più uso in quanto il vino è raro alla tavola del povero» (507).
A volte però, durante gli anni Settanta, il rigore storiografico della rivista si stempera nel tributo alle ideologie vincenti. Così, Pierre Vilar sembra identificare la storia marxista con l’unica storia possibile perché «scientifica» (602) e Charles Morazé forza il metodo braudeliano fino a farlo coincidere con una forma di determinismo storico che rappresenta soltanto una delle sue componenti, come si vede nello splendido Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II: «Così l’impotenza dei bolscevichi della prima ora di fronte all’ascesa dello stalinismo, il loro mutismo, il loro smarrimento e addirittura le loro sorprendenti “confessioni”, rientrano, a partire da una situazione data, in una logica o, se ci è lecito il neologismo, in una psicologica che consente una formalizzazione rigorosa quanto può desiderare uno spirito matematico» (520-521). Molto meglio, perché molto più dubbiosa, la conclusione del bel saggio su cinema e storiografia di Marc Ferro: «Ciò non vuol dire che la visione razionale della storia non sia valida, ma solo ricordare che, se non ci si vuole lasciar sfuggire nulla, bisogna che l’analisi non sia totalitaria, che non privilegi un unico metodo d’indagine» (628).
L’apertura metodologica e la varietà dei contenuti costituiscono alcune delle caratteristiche più preziose delle Annales, tuttora fondamentali per ogni ricerca storiografica che voglia conoscere la complessità e la ricchezza di ciò che Marc Bloch ha definito «una scienza degli uomini nel  tempo», la quale «ha incessantemente bisogno di unire lo studio dei morti a quello dei viventi», di coniugare l’analisi del passato con quella del presente (Apologia della storia o mestiere di storico [1941], Einaudi 1969, p. 56).

Burckhardt, la storia

Sullo studio della storia
(Uber geschichtliche Studium [Weltgeschichtliche Betrachtungen, 1868-1873])
di Jacob Burckhardt
Trad. di Mazzino Montinari
Boringhieri, 1958
Pagine 310

In queste sue lezioni pubblicate postume nel 1905 -anche con delle manipolazioni1– Burckhardt rifiuta le concezioni storicistiche che interpretano il divenire storico come lo sviluppo progressivo di un’idea, di un valore, di una qualsiasi Provvidenza. Cerca, piuttosto, di vedere la storia nella sua più concreta e non garantita empiria, a partire comunque da tre grandi concetti: stato, religione, cultura.
Lo stato e la religione sono per Burckhardt elementi statici, di controllo, alla fine sempre oppressivi. La cultura, invece, è la dimensione dinamica, libera, viva e costantemente nuova. Essa è «la quintessenza di tutto ciò che si è formato spontaneamente per promuovere la vita materiale e come espressione della vita spirituale e morale» (pp. 42-43). In quanto tale, essa costituisce la critica delle altre due strutture, «l’orologio che rivela l’ora in cui la forma e il contenuto in esse non coincidono più» (74).
Attraverso ampie pennellate ed efficaci excursus, Burckhardt enuncia una serie di tesi che saranno condivise e rielaborate da Nietzsche, il quale in uno dei biglietti del 4 gennaio 1889 definì il collega basileese «il nostro grande, più grande maestro»2. Tra queste tesi: il pluralismo metodologico; la Grecia come il luogo dove cultura e arte hanno avuto i migliori esiti, senza che però questo implichi la romantica e «fantastica predilezione per una antica e idealizzata Atene» (151); il cristianesimo come tipica religione dei passivi e dei dogmatici, che non è stata nemmeno capace di migliorare la condotta morale dei suoi adepti; il riconoscimento del conflitto come elemento dinamico della storia; la critica alle società massificate, i cui membri si adeguano sempre a chi meglio garantisce loro «tranquillità e guadagni» (239). Alle masse Burckhardt contrappone le «individualità possenti [che] si impongono e indicano le direzioni» (80-81).
Oscillando tra pragmatismo e metafisica, disincanto e progetto, Burckhardt si pone alla confluenza di numerosi itinerari della cultura e del pensiero moderno. Lo studioso riservato, il silenzioso maestro, insegna a Nietzsche «che in generale non si valuti la vita terrena più di quel che merita» (193). Era la stessa convinzione di Platone: «Certo è vero che le vicende umane non meritano poi una grande considerazione, ma è anche vero che bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato»3. Questo compito è la storia.

Note

1. Nel 1998 Einaudi ha pubblicato una nuova edizione, presentandola con queste parole: «Le lezioni che Burckhardt tenne all’Università di Basilea tra il 1868 e il 1873, uno dei momenti salienti della moderna riflessione storiografica. Condotta sui manoscritti originali, la nuova edizione a cura di Maurizio Ghelardi restituisce gli appunti dello storico svizzero alla loro vera natura, facendo giustizia delle deformazioni nate dalle precedenti manipolazioni e riproducendo le frequenti osservazioni critiche che Burckhardt annotava in margine ai fogli».

2. F. Nietzsche,  Briefe. Januar 1887 – Januar 1889, in «Nietzsche Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe», herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, vol. III/5, de Gruyter, Berlin-New York 1984, lettera 1245, p. 574. Nel recente quinto e ultimo volume della traduzione italiana dell’Epistolario (Adelphi, 2011) la lettera si trova a p. 889.

3. Platone, Leggi, 803 a, trad. di R. Radice.

Occidente medievale

La civiltà dell’Occidente medievale
di Jacques Le Goff
(La civilisation de l’Occident médiéval, Arthaud, Paris 1964)
Trad. di Adriana Menitoni
Einaudi, Torino 1999
Pagine XX-533

 

Les Annales hanno trasformato la storiografia in una indagine globale sulle strutture materiali e intellettuali delle diverse epoche e società. Del Medioevo occidentale Le Goff descrive non soltanto il pullulare degli eventi ma anche e soprattutto la profondità dei parametri culturali e di mentalità. La distinzione di base è tra un Lungo medioevo, che durerebbe dal III secolo alla metà del XIX, nel quale «l’essenziale è costituito dal lungo equilibrio del modo di produzione feudale, dominato dalla ideologia cristiana» e un Corto medioevo che va dall’anno Mille alla Peste nera (p. XIV). Il testo incentra la propria analisi su quest’ultimo periodo, «il cuore del Medioevo», infanzia della nostra età e «vero inizio dell’Occidente medievale» (pp. XIII-XIV). In questi secoli la profonda unione tra il reale e l’immaginario fa scaturire idee, strutture, narrazioni, miti, obiettivi.
Due degli elementi centrali sono l’analogia e il simbolismo. La prima è una ontologia e gnoseologia dell’eco: «esiste veramente solo quello che ricorda qualcosa o qualcuno, quello che è già esistito» (188). Il secondo fa del pensare una costante ierofania, un continuo apparire di significati nascosti nelle strutture materiali. Per quanto riguarda la continuità tra il mondo antico e quello medievale, Le Goff osserva che «il pensiero antico nel Medioevo è sopravvissuto solo atomizzato, deformato, umiliato dal pensiero cristiano» (131); un autentico vandalismo condusse alla distruzione dei monumenti e delle testimonianze antiche, attuata «sia per ignoranza, sia per ostilità al paganesimo» (508).

Come esempio della ricchezza analitica di questo libro valga la discussione sul tema del feudalesimo, da non opporre -come spesso invece accade- alle strutture urbane, in quanto «feudalesimo e movimento urbano sono due aspetti di una stessa evoluzione, che organizza contemporaneamente lo spazio e la società» (105). Un altro esempio è costituito dall’evento politico e militare delle Crociate: in esse si riassumono per molti versi la violenza, il razzismo religioso, l’intrico di problemi sociali che agitarono l’Occidente medievale. Il loro portato fu secondo Le Goff completamente negativo, esse esasperarono i contrasti tra l’elemento latino e Bisanzio, la cristianità e l’islam, l’universalità e la dimensione locale, impoverirono l’economia, moltiplicarono la violenza. Prende così forma un «Medioevo delle profondità» (7), che è tempo del dolore, della miseria, della furia. Una società primitiva, tradizionalista, seminomade, povera e malata. Già le invasioni barbariche diedero il tono ai successivi dieci secoli: «le armi, la carestia, l’epidemia, le belve, questi saranno gli infausti protagonisti» (28). Pensiero e sensibilità furono impregnati di «un fondamentale pessimismo», quello di un mondo limitato e morente: «Mundus senescit» (183). L’Occidente medievale è l’universo della fame, delle miserie fisiche, dell’ostracismo verso gli stranieri, i lebbrosi, i poveri, i malati; dell’odio verso «colui che non si unisce alla maggioranza» (301); dei supplizi inauditi, della furia degli uomini tra di loro, dell’insicurezza materiale e morale. L’uscita dalla crisi prodotta dalla Grande Peste del 1348 «dà origine alla società del Rinascimento e dei tempi moderni, più aperta e, in genere, più felice dell’opprimente società feudale» (125).
In ogni caso, questo testo si pone al di là della denigrazione e dell’apologia, documentando in modo chiaro e assai ricco ogni sua affermazione, tesi, interpretazione. Il riconoscimento degli elementi di crescita individuale e collettiva è scevro da qualsiasi nostalgia; allo stesso modo, l’analisi dei numerosi aspetti di sofferenza non nasce da alcun pregiudizio e anzi parte dall’affermazione che «il fatto essenziale è comunque l’innegabile potenza creatrice del Medioevo» (XV). Le Goff offre un quadro complesso e plausibile del Medioevo, contro ogni Legenda aurea e insieme al di là di ogni ingenuo progressismo.

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