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Sciascia, lo spinoziano

Sciascia, lo spinoziano di Sicilia
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
10 gennaio 2023
pagine 1-3

Rimanendo sempre nel territorio, nei metodi e nelle intenzioni dell’ermeneutica letteraria, Giuseppe Savoca conduce il lettore in spazi più ampi e universali, quelli che pongono le questioni fondamentali dell’esserci nel modo così bello, lieve e drammatico del quale la letteratura è capace ma che è anche un modo che si può ben definire ed è metafisico.
Lo studioso dedica particolare attenzione a Leonardo Sciascia, i cui itinerari narrativi si coniugano alle concezioni filosofiche, le istanze politiche si fondano su una antropologia che si fa ed è universale. Affiorano nelle sue pagine dunque i nomi di Pascal, di Giuseppe Rensi e soprattutto di Spinoza, filosofo la cui concezione di un corpomente unitario  sta al centro di tante indagini politiche e storiche di Sciascia: sta nello strazio subito dalle vittime dell’Inquisizione come nel Moro rinchiuso in una stanza/prigione; sta nel corpo-albero dell’Antimonio come nella scomparsa del corpo di Majorana, e così via così via nelle tragedie giudiziarie e nei gialli metafisici dei quali Sciascia è stato maestro.

Pietro Ingallina su Tempo e materia

Pietro Ingallina
Recensione a Tempo e materia. Una metafisica
in Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia;  Vol. 31 – anno 2022 – Fascicolo 1, marzo 2022; pp. 175-178.

L’editore di Acta Philosophica, rivista della Pontificia Università della Santa Croce che si pubblica dal 1992, non permette l’utilizzo di nessun pdf degli articoli e neppure delle recensioni. Riporto dunque qui alcuni brani dell’ampia analisi che Pietro Ingallina ha dedicato al libro:

«Tempo e materia. Una metafisica è un libro che si prefigge di superare ogni dualismo e ogni antropocentrismo, a favore non di un diniego della specificità dell’essere umano, bensì di un radicale ripensamento della sua posizione nell’essere. […]
Di fronte alla tradizionale opposizione tra il monismo parmenideo e il “tutto scorre” di matrice eraclitea, Biuso tenta una terza via. Se le teorie di ascendenza eleatica – filosofiche o scientifiche che siano – sono da rigettare, perché configurano una realtà ultima perennemente stabile e immutabile, che è lontana da ogni evidenza presentata dall’esperienza e, anzi, nega ogni consistenza ai fenomeni ; sono da valutare come altrettanto implausibili le ipotesi di una molteplicità originaria assolutamente caotica e incontrollata, perché priverebbero la realtà di ogni regolarità, rendendola un colpo di dadi la cui logica sarebbe imperscrutabile. Piuttosto, Biuso cerca di coniugare le due tradizioni, concependo identità e differenza quali principi ontologici equipollenti e imprescindibili l’uno dall’altro. Più in generale, l’essere è alternarsi di identità e differenza, è insieme uno e molteplice, al contempo immutabilità e mutamento. […]
Il divenire è il tratto temporale fondamentale dell’essere. A partire da questa tesi va compresa pure l’eternità, la quale non è l’atemporalità di una sostanza assoluta e separata dagli enti, dagli eventi e dai processi che sono presenti, accadono e fluiscono. […]
Gli enti esistono e si mostrano quali eventi, ma enti ed eventi non possono essere gli elementi primari dell’ontologia, in quanto hanno senso e consistenza se compresi all’interno dei processi. Senza i processi il mondo fenomenico sarebbe un puro niente, perché solo i processi insieme permangono mutando e mutano permanendo, mentre gli eventi accadono soltanto e gli enti a un tempo sono o divengono.
Nonostante la lettura di Biuso della Sostanza e dell’eternità [in Spinoza] sia coerente con la sua proposta di una metafisica temporale e materialistica, e sia pure supportata dall’interpretazione di Deleuze e dall’ontologia dei processi, tuttavia, essa risulta problematica perché non tiene conto di studi più aggiornati (ad esempio quelli di Yithzak Melamed), che offrono un’interpretazione atemporale dell’eternità e ne difendono la coerenza con l’esistenza del tempo e della durata all’interno del sistema di Spinoza».

Comunità scientifica

Teoria e prassi della comunità scientifica
in Koinè, anno XXVIII – 2021
«Ideali di Comunità»
pagine 99-114

Pdf del saggio

  • Indice del saggio
    -Che cos’è una comunità scientifica
    -Due teorie della pratica scientifica: Spinoza e Gentile
    -I Greci come comunità scientifica
    -Un caso empirico: Atene
    -La comunità scientifica come comunità libertaria
    -La comunità scolastica
    -La comunità universitaria
    -Canetti e Nietzsche: una gaia scienza

Una comunità scientifica è parte, forma ed espressione di una più ampia comunità politica, della πόλις, della storia e delle strutture collettive dalle quali germina e che la rendono possibile. A costituire in particolare una comunità scientifica sono alcune condizioni ed elementi che è possibile unificare e riassumere in questo modo: si dà comunità scientifica dove la curiosità prevale sul conformismo, dove la ricerca prevale sul dogma, dove la libertà prevale sull’obbedienza, dove la conoscenza diventa un fine in se stessa (autonomia) e non è rivolta ad altro da sé (eteronomia).
Rispetto all’attuale dominio dell’etica in ogni aspetto della vicenda umana e naturale -bioetica, deontologie, proliferare di etiche normative– i Greci ritengono che sia la filosofia stessa, la sua sostanza comunitaria e dialogica, la più efficace guida dei comportamenti, delle esistenze, dei conflitti.
La prassi quotidiana delle comunità scientifiche – intese specialmente come comunità accademiche – è inevitabilmente segnata dagli elementi che guidano tutte le comunità umane, da un misto di collaborazione, competizione, invidia, malevolenza, amicizia, legami che si creano e legami che si rompono. Gli elementi più problematici sono stati aggravati, in Italia ma non solo, dagli ordini dei decisori politici i quali da almeno un paio di decenni accentuano gli elementi della normativa che impongono competizioni, esclusioni, guerre interne.
Si tratta di modalità arcaiche e forse inevitabili della relazione, che nessuna modernità o postmodernismo può cancellare. Sarebbe però importante mantenere sempre la misura. 

Siddharta

Hermann Hesse
Siddhartha
(1922)
Traduzione di Massimo Mila
Adelphi, 1987
Pagine 169

Siddharta, figlio di un brahmino, conosce e pratica la preghiera e il culto verso gli dèi, ma non se ne accontenta. Diventa un Samana, pellegrino, povero, mendicante. Impara il saper pensare, aspettare e digiunare, ma non se ne accontenta. Incontra e ascolta il Buddha e da lui riceve l’indicazione fondamentale: la santità non sta nelle idee ma nell’essere. Per questo non rimane fra i discepoli del Sublime e s’immerge tra la gente, nei commerci, nella ricchezza. Conosce l’amore di una donna, pratica il gioco e ogni godimento, ma non se ne accontenta. Diventa amico e discepolo di un barcaiolo che sa sentire la voce saggia e senza fine del fiume. Da lui impara l’ascoltare e apprende una serenità senza macchia. Per la prima volta ama e soffre per un essere umano: il figlio, verso il quale «il suo amore, la sua tenerezza, la sua paura di perderlo» si rivelano più forti di ogni meditazione e di ogni sapere (p. 141).
Alla fine di questo itinerario tra le forme molteplici del vivere, Siddharta è diventato ciò che è: un sorriso del mondo, la sapienza dell’unità, la perfezione dell’essere.

E così parve a Govinda, questo sorriso della maschera, questo sorriso dell’unità sopra il fluttuar delle forme, questo sorriso della contemporaneità sopra le migliaia di nascite e di morti, questo sorriso di Siddhartha era appunto il medesimo, era esattamente il costante, tranquillo, fine, impenetrabile, forse benigno, forse schernevole, saggio, multirugoso sorriso di Gotama, il Buddha, quale egli stesso l’aveva visto centinaia di volte con venerazione. Così – questo Govinda lo sapeva –  così sorridono i Perfetti (168).

Su tutto domina una dimensione di totale interiorizzazione. Nella solitudine di colui che cerca, nella sua anima, si svolgono la vicenda, la fatica, la gioia del mondo. A lui si apre lo spettacolo iridescente e sempre uguale della forme e degli umani. Quegli umani che Siddharta insieme ama e disprezza, uomini-bambini (così li chiama) afferrati da passioni, dolori, soddisfazioni per enti ed eventi che agli occhi del saggio rappresentano un gioco.
Gli uomini, i molti, «sono come una foglia secca, che si libra e si rigira nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino» (93).
A Siddharta, stella variabile e insieme ferma, gli eventi e il divenire rivelano alla fine la loro cifra più nascosta: il senso delle cose non è oltre e dietro di loro ma nelle cose stesse, nel loro tutto, nell’intero del quale è parte anche il tempo come increspatura dell’immobile infinità dell’essere. Ogni cosa è dunque perfetta:

In quell’ora, Siddhartha cessò di lottare contro il destino, in quell’ora cessò di soffrire. Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all’Unità (156).

Il mondo è perfetto, la Necessità lo governa. Sapienza è benedire la vita al di là di ogni passione, pensiero o dottrina. Ciò che va non può andare diversamente, ciò che accade non può in altro modo accadere. Il sorriso del Perfetto è l’ironia stessa di una sapienza senza trascendenze, riscatti, salvezze, senza senso alcuno. Sapienza del vuoto e del nulla che è l’altra parola per l’essere.
Lo stesso disincanto, gaiezza e sorriso di Spinoza. Lo stesso disincanto, gaiezza e sorriso dei Greci.

Perfezione

Inferno
Scuderie del Quirinale – Roma
A cura di Jean Clair
Sino al 23 gennaio 2022

Percorsa l’ampia spirale che una volta serviva ai cavalli del Re d’Italia al Quirinale, si arriva a un muro sul quale vengono proiettate alcune scene di Inferno, girato nel 1911 da Bertolini, De Liguori e Padovan (è possibile vedere qui l’intero film, dal quale consiglio di eliminare l’audio posticcio). Immagini ingenue e insieme espressioniste, ispirate a Gustave Doré ma colme più che in lui di una fisicità che ha preso alla lettera le invenzioni dantesche del ghiaccio, del fuoco, dei fiumi attraversati da anime del tutto corporee.
Si giunge da qui alla Porta dell’Inferno di Rodin, che cerca di esprimere nel marmo il dolore senza fine dei dannati. Il Giudizio finale di  Beato Angelico, dove persino la dannazione assume l’armonia delle sfere, sta accanto a una ben più terrificante Morte scolpita nel 1522 da Gil de Ronza (qui a destra).
Alcune magnifiche edizioni quattrocentesche del De civitate Dei introducono altri antichi volumi, compresi alcuni manoscritti. Gli Inferi di Monsü Desiderio (1622; immagine qui sotto) descrivono una profonda e terribile architettura che sembra scavare dentro e oltre e prima delle sofferenze umane e animali. Non potevano mancare Hieronymus Bosch con i suoi inferni, i suoi incubi, il suo grottesco, la sua Visione apocalittica, e Albrecht Dürer con Il cavaliere, la morte e il diavolo, una delle immagini più potenti dell’arte universale.

In mezzo a tutto questo la Medusa del 2008 di Ivan Theimer, in realtà eterna, fuori dal tempo, puro orrore. Di rappresentazione in rappresentazione si arriva ai Lussuriosi di Victor Prouvê (1889) (immagine di apertura), una delle opere più inquietanti e perfette di questo viaggio nel dolore: Paolo è carne senza volto che tocca ancora una volta la carne desiderabile di Francesca ma questi corpi e gli altri spinti dalla «bufera infernal, che mai non resta» (Inferno, canto V, v. 31) danno l’impressione di essere tutti in agonia, nel preciso senso della ‘piccola morte’ -l’orgasmo- che è diventata subito, in quell’istante stesso, il momento della fine. Un istante che la dannazione rende eterno. E poi ancora: gli acquarelli di Miguel Barceló (2001) si alternano alle molteplici versioni delle Tentazioni di sant’Antonio, soprattutto quella di Odilon Redon (1896) in cui la Morte dice alla vita «sono io che ti rendo seria».
C’è una grande forza nei versi con i quali Mefistofele dichiara la propria natura redentrice: «Ich bin der Geist, der stets verneint! / Und das mit Recht; denn alles, was entsteht, / Ist wert, daß es zugrunde geht; / Drum besser wärs, daß nichts entstünde. / So ist denn alles, was ihr Sünde, / Zerstörung, kurz das Böse nennt, / Mein eigentliches Element» (Goethe, Faust, vv. 1338-1344); nella traduzione di Franco Fortini: «Sono lo spirito che sempre dice no. / Ed a ragione. Nulla / c’è che nasca e non meriti / di venire disfatto. / Meglio sarebbe che nulla nascesse. / Così tutto quello che dite Peccato / o Distruzione, Male insomma, / è il mio elemento vero» (Meridiani Mondadori 1990, p. 103); bella, e più diretta, la traduzione che compare in mostra: «Sono lo spirito che nega sempre! / E con ragione, perché tutto ciò che nasce / è degno di perire. / Perciò sarebbe meglio se non nascesse nulla. / Insomma, tutto ciò che voi chiamate / peccato, distruzione, in breve, il male / è il mio specifico elemento». A tanta apollinea verità si coniuga e contrappone la grottesca potenza con la quale Alfred Kubin descrive il Concepimento della donna (1905) dallo sperma che il diavolo emette dal suo enorme fallo (a destra).
E poi: l’inferno delle fabbriche, che per Georges-Antoine Rochegrosse hanno ucciso «la porpora», la bellezza (1914; qui sotto); l’inferno della follia; l’inferno della guerra con L’avvoltoio carnivoro di Goya ripreso da Kubin in Europa (1916); l’inferno delle trincee, descritte in modo realistico e insieme simbolico da Percy Delfi Smith e Otto Dix nelle immagini dedicate al Grande Massacro, alla Prima guerra mondiale, oggetto anche dell’Inferno di George Leroux (1921), un impasto di argilla, carne, escrementi, cadaveri, fumo.

Che cosa mai dei diavoli potrebbero inventare di più malvagio di ciò che gli umani sono capaci di fare? Con tranquillo disincanto Schopenhauer afferma appunto che l’inferno non è qualcosa di diverso dalla nostra vita. Dovremmo forse riconoscere che l’origine e la forma del male stanno nel funesto demiurgo (Jehovah/יְהֹוָה) al quale si attribuisce la creazione dell’umano e del vivente.
Lucifero merita invece le parole di Giosuè Carducci e di Anatole France. Il primo così si esprime nel suo Inno a Satana (1863): «A te, de l’essere / Principio immenso, / Materia e spirito, / Ragione e senso. […] E splendi e folgora / Di fiamme cinto; / Materia, inalzati; / Satana ha vinto. […] Salute, o Satana, / O ribellione, / O forza vindice / De la ragione! // Sacri a te salgano / Gl’incensi e i voti! / Hai vinto il Geova / De i sacerdoti» (vv. 1-4 ; 165-168; 193-200). Il secondo, riprendendo tesi da sempre presenti nella vicenda religiosa e filosofica dell’Europa, scrive che il Dio biblico è in realtà Yaldabaoth, il demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele», che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (La révolte des anges [1914], trad. di A. Baldasseroni, La rivolta degli angeli, Lindau, Torino 2017, pp. 99, 216 e 129).

La densa mostra romana si chiude sui versi finali della cantica dantesca: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (XXXIV, 139). A rivedere gli astri, le luci, le galassie, che si fanno movimento ed energia nelle riprese effettuate dal Telescopio Hubble nel 2014, una delle cose più belle e più vere della mostra. Più vere perché una spiegazione del male della vita che voglia rimanere razionale non può che essere spinoziana, materialistica, cosmica.
Per Spinoza il bene e il male non sono enti reali ma enti di ragione, sono relazioni con le quali delle menti particolari valutano ciò che a loro porta vantaggio e ciò che invece fa patire loro danno. Ciascun ente stia dunque «contento al quia», per dirla ancora con Alighieri (anche se in un significato che Dante non avrebbe accolto; Purgatorio, III, v. 37), al quia della propria identità spaziotemporale dentro il tutto, senza ambire a impossibili eternità per il singolo, che è un modo/elemento dell’eternità che nulla può scalfire o diminuire. Con grande chiarezza Spinoza sostiene che «bene e male o peccato non sono che dei modi di pensare e non delle cose aventi una reale esistenza […], poiché tutte le cose e le opere della natura sono perfette» (Breve Trattato su Dio, l’Uomo e la sua felicità, 6,9; trad. di A. Sangiacomo, in Tutte le opere, Bompiani 2011, p. 235).

Perfetto è il cosmo, perfetta la materia, perfetto è l’intero. «La materiatempo è perfezione libera da ogni sensibilità, malattia, angoscia, bisogno, risentimento, dolore. La realtà nella quale siamo radicati è fatta di vita e non vita, in un continuum di esistenze materiche dentro il quale i corpi viventi vengono poi accolti dentro la potenza metabolizzante degli elementi, delle radici vegetali, della terra. Vengono accolti nell’essere in quanto tale, che è energia, che è materia. Una potenza che viene prima e che rimane al di là di ogni parola e di ogni concetto. Tanto che solo un poeta-mistico ha forse potuto dirla con sufficiente chiarezza mostrando l’essere senza perché di una rosa, la quale ‘fiorisce perché fiorisce’. Lo ha detto Silesius. Lui e il suo maestro Eckhart hanno oltrepassato ogni individualità animale e ogni personalità divina, immergendo l’essere e la parola che lo dice nel flusso del tempo e nell’emanazione della luce, senza un perché» (Tempo e materia. Una metafisica, Olschki 2020, p. 146).
L’Inferno è la condizione di sofferenza e insecuritas del vivente ma la comprensione della luce oscura che è l’esserci «l’immersione in essa, redime dal suo niente e fonda la libertà dello gnostico: libertà dal male e dal bene, libertà da ogni autorità, libertà dalla speranza, libertà dal senso, libertà dal niente dentro il niente» (Ivi, p. 98).  

Socrate, la paura

Teatro Greco – Siracusa
Nuvole
di Aristofane
Traduzione di Nicola Cadoni
Musiche di Germano Mazzocchetti
Scene e costumi di Bruno Buonincontri
Con: Nando Paone (Strepsiade), Antonello Fassari (Socrate), Massimo Nicolini (Fidippide), Stefano Santospago (Aristofane), Galatea Ranzi e Daniela Giovanetti (Corifee), Stefano Galante (Discorso Migliore), Jacopo Cinque (Discorso Peggiore)
Regia di Antonio Calenda
Sino al 21 agosto 2021

«La terra si imbeve tutta del succo del pensiero». Questo è ciò che le nuvole producono, questo l’effetto della pioggia di parole che spaventa Aristofane, che lo induce a presentare Socrate e il suo ‘pensatoio’ nella maniera peggiore possibile ma che in questo modo esalta la forza irresistibile delle parole e del pensiero.
In questo tradizionalista affascinato dal caos che il dire e il pensare rappresentano di fronte all’ordine autoritario della città, si esprime tutta la paura che gli ateniesi nutrivano verso la filosofia, la paura che qualunque città antica o moderna nutre verso il pensare che non si acconcia a diventare megafono, strumento, ornamento e zerbino di chi comanda. Ė per questo che Socrate è morto, giustiziato dai bravi cittadini della giuria di Atene. Ė per questo che dopo di lui altri filosofi sono stati perseguitati, calunniati, uccisi, da Giordano Bruno a Galilei, da Spinoza a Heidegger. Ė per questo che Aristofane è un bel paradosso, che della filosofia mostra la debolezza e la potenza.
Al di là, infatti, delle battute scontate e sconce che descrivono Socrate e i suoi allievi come degli zombie, dei ladri, degli spostati, il cuore della commedia è Zeus, è il presunto «ateismo» dei filosofi, il loro voler sovvertire la πóλις con spiegazioni razionali e ‘meteorologiche’ del cielo, della pioggia e delle nuvole; con la trasformazione del discorso peggiore nel discorso migliore; con la distanza dal solido buon senso rurale di Strepsiade.
La filosofia non ha dogmi, non ha valori, non obbedisce. Nel suo feroce attacco a Socrate, il commediografo riconosce a lui e alla filosofia la potenza di questa libertà.
La messa in scena di Antonio Calenda è rispettosa di tale complessità di strati, modi e intenzioni del testo. Al centro c’è la traduzione di Nicola Cadoni, caratterizzata dal tentativo di riprodurre la musica dell’antica lingua greca; dal calco dei giochi di parole; dai ripetuti accenni alla politica contemporanea e soprattutto dall’ardita decisione di tradurre numerosi passi con i versi di Manzoni, Leopardi, Alighieri, con autori del Settecento, con Totò e Pasolini. Una scelta che mostra la continuità poetica dai Greci al presente. A conferma della continuità politica della filosofia europea, che è dissacrante di ogni certezza e conformismo oppure, semplicemente, non è.
Il paradosso Aristofane è anche questo: la reductio di Socrate al relativismo sofistico ma anche la conferma che c’è una dimensione della filosofia – e soltanto della filosofia – irriducibile al relativismo: la sua libertà, il suo respiro, l’impalpabile potenza delle nuvole.

Et etiam rerum

Teodorico di Freiberg
DURATA E TEMPO
Sulle misure – Sulla natura e proprietà dei continui
(De mensuris – De natura et proprietate continuorum)
A cura di Andrea Colli
Edizioni di pagina, 2017
Pagine 190

L’intero essente, tutto ciò che è materico ed è pensabile, consiste in una fuga, nel divenire, nell’essere stato, nel non essere più, nel poter essere ancora. Tutto «consistit esse suum in quodam transitu» (De natura et proprietate continuorum, §5, p. 128) ma quale sia la modalità di questo passare è l’enigma.
Dietrich (Teodorico) di Freiberg (1240-1310) penetra in tale enigma cercando di coniugare l’interiorità agostiniana e la fisica aristotelica mediante le raffinate analisi di Averroè, per il quale il tempo ha una provenienza e una struttura sia intrinseca sia estrinseca. Sarebbe l’anima infatti a rendere pienamente esistente in atto il tempo che nel solo moto dei corpi fisici esiste in potenza. Sarebbe dunque la mente a produrre il tempo come significato e regola del divenire intrinseco a ogni ente. Una attualizzazione che Teodorico conduce a esiti arditi, attribuendo alla forza semantica dell’anima anche la permanenza del passato e del futuro e quindi l’esistenza reale e universale del tempo.
La spazializzazione e l’interiorizzazione del tempo sono entrambe presenti nell’elaborazione aristotelica della temporalità. Se, infatti, «tempus non est aliqua res naturae extra animam»  (Ivi, 3.6, p. 138), è anche vero «che [noi] non apprendiamo il tempo, né lo determiniamo, né misuriamo la sua estensione, che è la sostanza stessa del tempo, se non prendendo due istanti tra i quali osserviamo l’estensione, l’essenza e la quantità del tempo» (Ivi, 3.13, p. 147).
La tensione cosmologica che sempre attraversa la filosofia scolastica del tempo è riassunta da Teodorico in due diversi modi di distinguere la temporalità degli enti, di tutti gli enti: da quello divino alla miriade di entità corruttibili ed effimere. Per il primo modo l’aeternitas è ciò che non ha inizio né fine, l’aevo ha un inizio ma non subisce alcuna fine, il tempus è proprio di tutti gli enti, eventi e processi che vengono al mondo e poi si dissolvono.
Altri, invece, propongono quattro forme, che sono aeternitas, sempiternum, perpetuitas, tempus, che Teodorico così descrive: 

Per quanto riguarda la durata, l’eternità è la misura di Dio e questo per la sua anteriorità rispetto all’esistenza dell’universo. In secondo luogo, aggiungono che la misura dell’universo nella sua totalità è la sempiternità in confronto all’eternità, per il fatto che l’universo, per quanto riguarda l’inizio della sua esistenza, è secondo solo all’eternità, mentre è privo di una fine. In terzo luogo, essi considerano quelle cose che, quanto alla misura della loro durata, sono perpetue, ovvero quelle cose che, in qualunque tempo abbiano il loro essere, durano tuttavia per tutta la perpetuità dell’universo, senza fine. In quarto luogo, determinano la misura della durata degli enti quanto alla coesistenza, all’anteriorità o anche alla posteriorità degli enti stessi, in modo tale che alcune cose si dicono presenti, e reciprocamente presenti, per il fatto di essere simultanee e future, secondo la loro anteriorità e posteriorità. [Quest’ultimo lo] chiamiamo ‘temporalità’ come distinta secondo presente, passato e futuro.
(De mensuris,  2.2, pp. 73-75).

In questi trattati rigorosi, ripetitivi e faticosi come è tipico dei testi della Scolastica, si legge un brano scintillante che sembra racchiudere e sintetizzare la molteplicità temporale della filosofia greca e lo sguardo prospettico di quella moderna:

È allora chiaro che il tempo, per quanto riguarda la sua origine è riconducibile -secondo la sua sostanza- al moto celeste (in motum coeli), come a causa primaria; in secondo luogo e in modo più immediato è invece riconducibile all’atto della nostra immaginazione (in actum phantastici nostri), per mezzo della quale percepiamo di essere un ente divisibile; in terzo luogo, è invece riconducibile alla nostra stessa attività di ragione (in ipsum rationale nostrum), per mezzo della quale, in base ai diversi termini di ciò che è stato chiamato ‘ente divisibile’ (divisibilis esse) determiniamo due istanti e tra essi una qualche, per così dire, estensione della durata (quasi durationis extensionem).
(De natura et proprietate continuorum, 5.3, 6; p. 159).

E dunque Spinoza, che alla Scolastica attinse, si sbaglia quando ipotizza che tempus non est affectio rerum, che il tempo non esista se non come dato puramente mentale, poiché -come anche le analisi di Teodorico ben mostrano- è più corretto dire che tempus est affectio hominum et etiam rerum. E molto altro.

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