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Epistemologia / Animalità

Per una etoantropologia
in Etica & Politica / Ethics & Politics, anno XXII, 2020, numero 1
Aprile 2020
Pagine 33-47

Forse è arrivato il momento per tutte le scienze di andare oltre il paradigma antropocentrico che accomuna creazionismi e tecnologie, che coniuga religioni e scientismi, per volgersi verso un più ampio paradigma etoantropologico consapevole del limite delle risorse della Terra e della profonda relazione che tutti i suoi abitatori intrattengono tra di loro, come singoli, come società e come specie.

Indice
Paradigmi
Etologia
Un caso empirico: la vivisezione
La fallacia antropocentrica

Abstract
The anthropocentric paradigm has been showing for a long time its own fallacies, weaknesses, limitations. A truly scientific attitude takes note of this crisis and is directed towards broader perspectives, capable of understanding the deep link between all living beings and the environ-ment. Innatism, temporality, relationship, measure are some of the main elementsof a new and necessary etho-anthropological paradigm.

[Foto di Vlado Pirsa]

 

La sperimentazione animale non è una pratica scientifica

Mente & cervello 126 – Giugno 2015

topi«La mente umana è un prolifico generatore di credenze sul mondo» (D. Ovadia, p. 28). La mente umana è dunque, come spesso in questo spazio si ripete, un complesso dispositivo semantico, il cervello è una potente macchina ermeneutica. La mente non è una res ma è un fieri, non è ciò che fa la struttura cerebrale ma è ciò che accade all’intero corpo che nel mondo è immerso. Si va sempre più affermando anche in ambito neurologico e medico ciò che molti filosofi (non tutti, certo) sostengono da millenni, vale a dire l’unità dell’essere vivente, non riducibile a nessuna delle sue funzioni e strutture. «Infatti i processi cognitivi  non sono separati dal corpo, ma nascono solo quando percepiamo il mondo e ci muoviamo al suo interno. Questo approccio prende il nome di embodiment o embodied cognition, ossia ‘cognizione incorporata’. Questa teoria non è nuova. Da tempo filosofi e psicologi si chiedono che rapporto abbiano corpo e mente. La ricerca sulla embodied cognition propone una spiegazione nuova: nei primi anni della nostra vita facciamo esperienze concrete, per esempio impariamo che cosa significa la pulizia del corpo. È su questa base che poi sviluppiamo concetti simili ma astratti, come le idee della pulizia morale e della virtù. Questi concetti però restano legati alle proprietà fisiche» (K. Kaspar, 99). Recensendo un volume di Norman Doidge, Pierangelo Garzia conferma che «così come abbiamo fatto con il dualismo corpo-anima, dovremmo una buona volta deciderci a non vederci più neppure come corpo-cervello. Ma come un tutt’uno» (p. 104).
Queste antiche e rinnovate convinzioni confliggono in modo persino stridente con le superstizioni riduzionistiche che tendono a uniformare la complessità e la differenza della vita in paradigmi che ne smarriscono la molteplicità, la non riducibilità l’una all’altra di strutture, funzioni, modelli, specie. Un appiattimento che ai suoi sostenitori costa sempre più fatica, dubbi, performance dialettiche (assai poco scientifiche, in verità). E così, pur convinto che «i test con gli animali saranno inevitabili anche in futuro» (p. 94), Christian Wolf analizza i limiti dei modelli animali e ammette che essi sono spesso sbagliati e radicalmente  insufficienti. Una delle ragioni è che i ricercatori, pur di ottenere ancora i finanziamenti necessari ai propri progetti, nascondono i fallimenti terapeutici dei farmaci testati su altre specie e applicati agli umani. Fallimenti che sono assai frequenti. «Anche uno studio del 2010 sospetta che gli studi su animali con risultati negativi siano repentinamente messi nel cassetto. […] Questi studi vengono dunque esclusi dalle rassegne panoramiche, e la terapia sarà vista sotto una luce più positiva del dovuto» (p. 95). Un’altra ragione dei fallimenti è costituita dalla semplice ma decisiva circostanza «che alcuni meccanismi cellulari dell’uomo e dell’animale sono molto differenti» (92) e che di conseguenza i topi (vittime predilette di tali pratiche) non sviluppano spontaneamente alcune malattie che negli umani sono invece frequenti e gravi. Una di esse è il morbo di Parkinson, che bisogna dunque indurre artificialmente nella struttura fisiologica dei topi. Il risultato è che «i pazienti non miglioravano con la terapia. In definitiva, i topi erano serviti solo come modello della formazione della placche amiloidi nel cervello» (95). Vale a dire che il loro sacrificio non era stato soltanto inutile ma anche sviante rispetto a dei farmaci davvero adeguati.
«Alla luce di queste argomentazioni, è plausibile che buona parte degli interventi efficaci negli animali si siano rivelati un fiasco nella realtà clinica» (92). Ma inerzie metodologiche, pregiudizi epistemologici, paradigmi errati ed enormi interessi finanziari in gioco continuano a mettere a rischio la salute umana e a causare inaudite sofferenze ad altri animali.

Beagle

Ciascun numero della rivista Impronte ha un’epigrafe. Quella di settembre è tratta da un libro di Jeffrey Moussaief Masson: «Si dice spesso che se i mattatoi avessero pareti di vetro la maggior parte delle persone sarebbero vegetariane. Se il pubblico sapesse che cosa succede nei laboratori per la sperimentazione sugli animali, questi sarebbero aboliti». La televisione contemporanea arriva ovunque e tutto documenta ma -ci avete pensato?- non diffonde mai immagini di quanto accade nei macelli e nei laboratori vivisettori.
Quello che succede in quei luoghi è infatti il puro orrore. È la catena di montaggio della distruzione, del massacro e della tortura inferti a esseri che non hanno alcun modo di opporsi, difendersi, implorare, lottare. Basti sapere che agli animali torturati dai vivisettori vengono tagliate le corde vocali, in modo da non sentire le loro urla.
La inutilità scientifica della vivisezione è ormai acclarata da centinaia di studi. Il rischio che essa rappresenta per la salute umana è piuttosto alto. Il caso della talidomide è forse il più noto ma non è certo l’unico. Dopo essere stato sperimentato per tre anni su animali non umani, questo farmaco era risultato del tutto sicuro. Tuttavia negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento «le donne trattate con talidomide davano alla luce neonati con gravi alterazioni congenite dello sviluppo degli arti, ovvero amelia (assenza degli arti) o vari gradi di focomelia (riduzione delle ossa lunghe degli arti), generalmente più a carico degli arti superiori che quelli inferiori, e quasi sempre bilateralmente, pur con gradi differenti. […] Nel settembre 2012 la ditta produttrice del farmaco ha porto le proprie scuse ufficiali in occasione dell’inaugurazione di un memoriale dedicato alle vittime a Stolberg» (da Wikipedia)
La più importante ragione, se non l’unica, di sopravvivenza della tortura vivisettoria è il profitto delle case farmaceutiche e di tutto ciò che vi gira intorno. Le contraddizioni di chi la difende sono evidenti. Per giustificarla si dice che non possiamo applicare agli altri animali i criteri umani di sofferenza ma è poi inevitabile la necessità di postulare una continuità biologica tra le altre specie e la nostra affinché gli scopi della vivisezione abbiano senso.

L’errore logico più grave è un altro e sta nel concetto stesso di animalità. L’animalità non è una categoria. In quanto contrapposta all’umanità, essa semplicemente non esiste. Non si danno salti ontologici tra l’umano e il resto del mondo animale, che è talmente differenziato da rendere ingenua e inesatta la sussunzione dell’ampio essere animale sotto una comune e unica categoria, contrapposta alla parzialità umana. È del tutto scorretto accomunare, ad esempio, formiche, corvi e scimpanzé contrapponendoli alla specie umana. Molti animali sono assai più vicini -sia geneticamente sia funzionalmente- alla specie umana che ad altre. Un bonobo o un cane sono molto più parenti dell’Homo sapiens che delle api, dei molluschi, delle bisce.
L’animale non è il lato oscuro, lo specchio deformante dell’umano e neppure rappresenta l’età d’oro della nostra specie. La vita si esprime in una molteplicità di forme tutte legate tra loro e tutte distinte. Anche per questo non ha senso l’ossessione comparatistica per la quale l’intelligenza animale viene intesa come una categoria unitaria e confrontata sempre e soltanto con l’intelligenza umana, come se quest’ultima costituisse il criterio assoluto, il parametro sul quale misurare ogni altra abilità cognitiva. In una prospettiva etologica e biologica più rigorosa, «come già avvenuto con la rivoluzione copernicana, noi uomini avremo la sorpresa di abitare una piccola e remota regione cognitiva che naturalmente ha delle contiguità, delle vicinanze e persino delle sovrapposizioni con quella delle altre specie, ma che per gran parte è irraggiungibile con la semplice proiettività intuitiva» (Roberto Marchesini, Intelligenze plurime. Manuale di scienze cognitive animali, Oasi Alberto Perdisa Editore, 2008, p. 445). Confido che una maggiore consapevolezza della continuità biologica, percettiva e mentale tra la nostra specie e tutte le altre porrà fine a millenni di presunzione antropocentrica e a secoli di sterminio degli animali in nome degli interessi umani. Confido che le «scienze della nuova umiltà» (Eugenio Mazzarella, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, Il melangolo, 2004, p. 11) inducano a un ripensamento sempre più profondo sulla inaccettabilità del dolore inferto ad altre specie in nome della superiorità di quella umana.

Intanto, da qualche settimana un grande risultato è stato raggiunto. L’azienda Green Hill (Montichiari, Brescia) è stata sequestrata e i suoi “prodotti” sono stati liberati. Quali prodotti? Migliaia di cani beagle concepiti, fatti nascere, tenuti in gabbia, soltanto per rifornire i laboratori dove erano destinati alla tortura. Su Impronte si può leggere e vedere la gioiosa documentazione relativa a questo evento.
Anche se la vivisezione servisse agli umani, cosa che non è, la sua pratica sarebbe nient’altro che una gravissima forma di specismo, una posizione ideologica identica al sessismo e al razzismo. Non esistono centri ontologici e gerarchie etiche. Si dà piuttosto una ricchezza radiale di forme nelle quali la materia esplica la gratuita potenza che la costituisce. Non esistono superiorità ma differenze. Una delle peculiarità dell’umano è saperlo, uno dei suoi limiti è dimenticarlo: «Con troppa facilità gli uomini si considerano il centro dell’universo, qualcosa di estraneo e di superiore alla natura. Questo atteggiamento deriva da una sorta di orgoglio che ci preclude quella forma di riflessione su noi stessi di cui oggi avremmo tanto bisogno. Le grandi scoperte delle scienze naturali inducono l’uomo a un senso di umiltà: proprio per questo vengono a volte avversate» (Konrad Lorenz, Natura e destino, Mondadori, 1990, p. 42).

Mente & cervello 80 – Agosto 2011

Schopenhauer sostiene che «il mondo in cui un uomo vive dipende anzitutto dal suo modo di concepirlo. […] Quando ad esempio degli uomini invidiano altri per gli avvenimenti interessanti in cui si è imbattuta la loro vita, dovrebbero piuttosto invidiarli per la dote interpretativa che ha riempito siffatte vicende del significato, quale si rivela attraverso la loro descrizione» (Parerga e Paralipomena, tomo I, Adelphi 1981, p. 426). La cosiddetta “psicologia positiva” non fa che confermare questa natura ermeneutica della serenità, invitando a «imparare a gustare l’esperienza vissuta o a portare nuovamente il proprio pensiero su certi aspetti di un evento che ci ha resi felici» (R. Shankland e L. Bègue, 29). Di fronte all’enigma e alla durezza della vita bisognerebbe evitare sia ogni ottimismo superficiale sia una costante cupezza e praticare invece un ottimismo temperato che ci faccia essere «pessimisti solo per il tempo necessario», anche perché «essere ottimista è un vantaggio: anzitutto gli ottimisti sono in generale più felici della media, anche quando si trovano in situazioni difficili» (M. Forgeard e M. Seligman, 37 e 33). Essendo l’umano un’unità psicosomatica, l’energia con la quale evitiamo di dare un peso troppo angosciante alle difficoltà quotidiane salvaguarda la salute delle nostre cellule.

Sbagliare, ad esempio, è umano e lo è anche continuare a commettere certi errori, poiché «l’errore non è una ragione per rinunciare. Si tratta invece di una conseguenza naturale di funzioni spirituali, che ci permettono di adattarci in modo più flessibile a un ambiente complesso. Così anche l’ostinata sicurezza ha un proprio valore, perché rafforza la fiducia nelle proprie capacità. E senza questo sentimento non riusciremmo neppure ad attraversare una strada» (A. Gielas, 83). Energia e disincanto, autostima e accettazione dei propri limiti non sono affatto in contraddizione e se coniugati ci aiutano a dare un maggiore equilibrio al nostro Sé, che è in realtà il «prodotto di una serie distribuita di strutture cerebrali» (U. Herwig, 72), alle quali Antonio Damasio ha dato il nome di proto-sé, sé nucleare e sé autobiografico. Anche Thomas Nagel e Roland Puccetti sostengono che «siamo in effetti l’unione di almeno due io, uno prevalente perché “insediato” nell’emisfero sinistro, funzionalmente responsabile delle capacità linguistiche e quindi “parlante”; l’altro meno appariscente poiché connesso all’emisfero destro, che sovrintende alle capacità geometriche e di visualizzazione e in ultima analisi “muto”» (S. Gozzano, 9). Ipotesi che Julian Jaynes ha formulato e spiegato in maniera profonda e suggestiva nel suo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (Adelphi, 2002).

La nostra identità si esprime in ogni gesto, espressione, postura, manifestazione, parola, decisione. Compreso l’abbigliamento. Numerose esperienze, alcune delle quali anche divertenti e riassunte alle pp.  84-89, hanno ormai dimostrato in modo convincente che l’abito fa il monaco, poiché «i vestiti sono ciò che più si nota in una persona, dopo il volto» (N. Guéguen, 89). Il nostro Sé affonda nella terra, nei suoi ritmi e nella sua potenza. E questo è vero alla lettera se si pensa che un comune batterio che vive nel terreno, il Mycobacterium vaccae, se iniettato in malati di cancro migliora il loro umore. La biofilia -il legame con la natura- della quale parla Edward O. Wilson è una caratteristica che per fortuna non perderemo mai, dato che l’Homo sapiens è un mammifero di grossa taglia che «necessita del contatto con la natura per mantenersi sano e felice» e questo accade anche e soprattutto dentro gli agglomerati urbani (K. Wilhelm, 92).

Nutrire fiducia, vivere con energia, saper accettare limiti ed errori come qualcosa di fisiologico, essere consapevoli che siamo natura e siamo molteplici potrebbe aiutare non soltanto noi ma anche i nostri discendenti, se è vero che «variazioni di espressione genica che perdurano per l’intera vita […] si trasmettono addirittura alle generazioni successive, come una memoria genetica trasmessa ai figli per prepararli al mondo che li attende» (G. Sabato, 59), quella memoria genetica di cui le ricerche di Vincenzo Di Spazio danno ampia testimonianza.

Uno dei maggiori limiti di Mente & cervello è lo stesso di molta neurobiologia: dare per ovvio il valore della sperimentazione sui cosiddetti “animali da laboratorio”. Una formula inaccettabile e la cui insensatezza emerge qualche volta anche in queste pagine. Come nell’affermazione di Giovanni Sabato quando riconosce che «quel che vale nel topo non necessariamente vale per l’essere umano, come sanno i farmacologi» (55). È bene che lo sappiano tutti e che la smettano -farmacologi, neurobiologi, psicologi, medici- di torturare gli altri animali.

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