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Socrate, la paura

Teatro Greco – Siracusa
Nuvole
di Aristofane
Traduzione di Nicola Cadoni
Musiche di Germano Mazzocchetti
Scene e costumi di Bruno Buonincontri
Con: Nando Paone (Strepsiade), Antonello Fassari (Socrate), Massimo Nicolini (Fidippide), Stefano Santospago (Aristofane), Galatea Ranzi e Daniela Giovanetti (Corifee), Stefano Galante (Discorso Migliore), Jacopo Cinque (Discorso Peggiore)
Regia di Antonio Calenda
Sino al 21 agosto 2021

«La terra si imbeve tutta del succo del pensiero». Questo è ciò che le nuvole producono, questo l’effetto della pioggia di parole che spaventa Aristofane, che lo induce a presentare Socrate e il suo ‘pensatoio’ nella maniera peggiore possibile ma che in questo modo esalta la forza irresistibile delle parole e del pensiero.
In questo tradizionalista affascinato dal caos che il dire e il pensare rappresentano di fronte all’ordine autoritario della città, si esprime tutta la paura che gli ateniesi nutrivano verso la filosofia, la paura che qualunque città antica o moderna nutre verso il pensare che non si acconcia a diventare megafono, strumento, ornamento e zerbino di chi comanda. Ė per questo che Socrate è morto, giustiziato dai bravi cittadini della giuria di Atene. Ė per questo che dopo di lui altri filosofi sono stati perseguitati, calunniati, uccisi, da Giordano Bruno a Galilei, da Spinoza a Heidegger. Ė per questo che Aristofane è un bel paradosso, che della filosofia mostra la debolezza e la potenza.
Al di là, infatti, delle battute scontate e sconce che descrivono Socrate e i suoi allievi come degli zombie, dei ladri, degli spostati, il cuore della commedia è Zeus, è il presunto «ateismo» dei filosofi, il loro voler sovvertire la πóλις con spiegazioni razionali e ‘meteorologiche’ del cielo, della pioggia e delle nuvole; con la trasformazione del discorso peggiore nel discorso migliore; con la distanza dal solido buon senso rurale di Strepsiade.
La filosofia non ha dogmi, non ha valori, non obbedisce. Nel suo feroce attacco a Socrate, il commediografo riconosce a lui e alla filosofia la potenza di questa libertà.
La messa in scena di Antonio Calenda è rispettosa di tale complessità di strati, modi e intenzioni del testo. Al centro c’è la traduzione di Nicola Cadoni, caratterizzata dal tentativo di riprodurre la musica dell’antica lingua greca; dal calco dei giochi di parole; dai ripetuti accenni alla politica contemporanea e soprattutto dall’ardita decisione di tradurre numerosi passi con i versi di Manzoni, Leopardi, Alighieri, con autori del Settecento, con Totò e Pasolini. Una scelta che mostra la continuità poetica dai Greci al presente. A conferma della continuità politica della filosofia europea, che è dissacrante di ogni certezza e conformismo oppure, semplicemente, non è.
Il paradosso Aristofane è anche questo: la reductio di Socrate al relativismo sofistico ma anche la conferma che c’è una dimensione della filosofia – e soltanto della filosofia – irriducibile al relativismo: la sua libertà, il suo respiro, l’impalpabile potenza delle nuvole.

In forma dunque di vermiglia rosa

Teatro Greco – Siracusa
Baccanti
di Euripide
Traduzione di Guido Paduano
Con: Lucia Lavia (Dioniso), Ivan Graziano (Penteo), Antonello Fassari (Tiresia), Stefano Santospago (Cadmo), Linda Gennari (Agave)
Regia di Carlus Padrissa (La Fura dels Baus)
Sino al 20 agosto 2021

I nomi degli dèi e dei mortali che dal χάος da cui tutto sgorga pervengono infine a Dioniso e a Penteo compaiono alcuni subito e altri a poco a poco sulla superficie spazzata dai passi e dal vento. Immediato è invece l’irrompere sulla scena delle Menadi con il loro grido dell’orgia, εὐοῖ, evoè! Le Menadi, le Baccanti, stanno al centro di questa corale messa in scena dell’opera di Euripide. Una scelta saggia a indicare il cuore collettivo della festa e della ferocia umane. Espresse mediante lo spazio totale del teatro, lo spazio del teatro che si fa totale –Gesamtkunstwerk– attraverso i suoni, le percussioni, le danze, le voci che restituiscono la gloria degli dèi e la loro forza, antiche come il tempo.
E soprattutto, tratto caratterizzante la Fura dels Baus, mediante le imponenti macchine che portano attori e personaggi per l’aere, nelle contrade assolute, nell’aperto spazio del mito che dalla terra sale al cielo e poi dal cielo ridiscende nella polvere. I due principi del mondo sono infatti Demetra, la terra, il secco e Dioniso, l’umido, il succo della vite che dà ai mortali l’oblio dei loro mali. Non esiste altro rimedio al dolore d’esserci e del fare. Sia al povero sia al ricco, Dioniso concede il piacere del vino che libera dal dolore. Astemio, stitico, schematico e ultramoralista, Penteo invece non riconosce questa leggerezza, entra in scena portando con sé tre pesanti massi, offende, disprezza e illusoriamente incatena lo Straniero che parla in nome di Dioniso, lo Straniero che è Dioniso. La furia del dio, la sua vendetta, come si sa, saranno terribili. E meritate. La testa / prigione che domina sin dall’inizio la scena si trasforma nella testa vuota di un mortale che non vuole capire la forza inarrestabile del desiderio, del sesso e del sorriso, rimanendo nella tristezza dell’autocontrollo, della castità e della smorfia pudica intrisa di paura. Per diventare infine la testa mozzata e insanguinata che la baccante Agàve mostra con gioia dopo aver fatto a pezzi il proprio figlio.
Carlus Padrissa e la Fura dels Baus sono stati da sempre euripidei, da sempre utilizzano l’ἀπὸ μηχανῆς θεός, il deus ex machina che fa scendere, muovere e salire l’umano e il divino nello spazio della scena. Il loro Imperium, ad esempio (al quale avevo partecipato a Milano in compagnia di Mario Gazzola), era costruito come spazio affollato dagli spettatori, direttamente coinvolti nelle vicende e nella violenza rappresentata. Uno spazio dentro il quale si elevano piramidi, gru, corde. Da queste geometrie si staccano i soggetti del dominio, nel doppio genitivo di chi ordina e di chi subisce. Donne dai cui corpi si sprigiona la sensualità, l’implacabilità, la fecondità del comando. In Imperium la musica restituisce la raggrumata densità dei movimenti scenici, che sembrano tornare alla semplicità del gesto primordiale, quello che fonda insieme natura e civiltà, che dà e riceve morte, perché altro nelle cose non sembra darsi se non questa furia dei corpi.
Era già quello dunque uno spettacolo dionisiaco che in Baccanti diventa un’enorme forma antropomorfa (Semele / Zeus) dal cui ventre esce il dio bambino, con l’attore / Dioniso che precipita investito dalle acque del parto che si rompono. Dinamismo che raggiunge il culmine in gru e corde con le quali il Coro e le Menadi si avvicinano e si allontanano, si addensano e si espandono, dando ogni volta forma e vita al fiore del cosmo pulsante di potenza e desiderio.
«In forma dunque di vermiglia rosa / mi si mostrava la corale sacra / che nel suo sangue Bacco fece sposa», si potrebbe dire guardando la gloria delle Menadi librarsi e parafrasando per esse Alighieri (Paradiso, XXXI, 1-3).
Peccato solo che Dioniso appaia coinvolto nelle vicende di Tebe con gesti e gridolini che nulla hanno ovviamente del dio, il quale «ὃς πέφυκεν ἐν τέλει θεός, / δεινότατος, ἀνθρώποισι δ᾽ ἠπιώτατος; ‘è dio nel pieno senso, ed è terribile, ma più d’ogni altro con gli uomini è mite», come egli stesso tiene a dichiarare (Βάκχαι, vv. 859-861, trad. di Filippo Maria Pontani). Dioniso uccide sorridendo. In Euripide (e sempre) questo dio è una maschera ironica e distante, braccia spalancate, voce gorgogliante dall’inquietudine della terra. Una scelta di coinvolgimento isterico, come invece ha voluto qui il regista, è completamente sbagliata. Tale limite non inficia comunque la profondità e la bellezza di una messa in scena delle Baccanti imponente, coraggiosa e visionaria.

 

Gangster

Teatro Greco – Siracusa
Coefore / Eumenidi
di Eschilo
Traduzione di Walter Lapini
Musiche di Andrea Chenna
Scene di Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Video design: D-Wok
Con: Giuseppe Sartori (Oreste), Anna Della Rosa (Elettra), Laura Marinoni (Clitennestra), Stefano Santospago (Egisto), Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca (Le Erinni), Olivia Manescalchi (Atena),  Giancarlo Judica Cordiglia (Apollo), Maria Grazia Solano (la Pizia), Sax Nicosia (voce e immagine di Agamennone)
Regia di Davide Livermore
Sino al 31 luglio 2021

Un’opera lirica. Con musicisti e pianisti sulla scena e con le voci intense delle Coefore a gorgogliare il dolore. Con, in un momento della trama, in sottofondo anche le musiche di Memorial di Nyman.
La Madre Terra dalla quale tutto sgorga. La Notte, che ha generato le Erinni, la Moira, la Furia. È nelle loro mani il destino degli umani. È nelle mani, negli sguardi, nella profondità di queste potenze sovrane dell’oscurità, accompagnate dal Coro che narra atroci vicende. Le quali però con una progressione di implacabile razionalità trasformano la giustizia della Vendetta nella giustizia dei Tribunali. Per volontà di Apollo e di Atena, vale a dire di Zeus. E così nasce la città umana, la πόλις. Così Eschilo. La sua energia.
Tutto questo diventa invece nel progetto e nella regia di Davide Livermore una parodia. Una parodia nella forma spesso di un musical. Come nella orrenda canzoncina finale. Volontà parodistica che, attenuata, funzionava nella Elena di due anni fa, che di per sé è una tragedia assai particolare, dalla tonalità più lieve e con un lieto fine. Ed è Euripide. Qui invece è Eschilo, che significa la fondazione stessa del mondo sulla materia violenta dei corpi. Non a caso, invece, i corpi degli ateniesi chiamati a stabilire giustizia tra Oreste e le Erinni sono delle sagome metalliche accese di fuoco e spente di esistenza. E se Apollo e le Erinni lottano in un corpo a corpo non soltanto verbale ma proprio fisico, lo fanno dopo essere apparsi le une in dorati abiti da sera sberluscenti e l’altro in tenuta da cameriere d’alto bordo. Non solo. Apollo parla proprio con il birignao dei padroni dei camerieri d’alto bordo. Mani in tasca. Atteggiamento svagato. Dizione strascicata.
Così come Atena e altri personaggi, immersi in una recitazione da commediola novecentesca, nella quale le parole di Eschilo rischiano semplicemente il naufragio. Atena, inoltre, è doppia. Una elegante signora che declama e poi una giovane modella in posa, che fa -alla lettera- la bella statuina. Per concludersi tutto, insieme alla ricordata canzonetta finale, sulle immagini di Aldo Moro nella Renault, delle stragi di Bologna e di Capaci e altre italiche tragedie.
Perché è grave? Perché mostra da parte del regista una radicale sfiducia in Eschilo e nella tragedia. Come se le parole dei Greci avessero bisogno di essere ‘attualizzate’ da questi abiti, da questa recitazione, da queste immagini. E dalle pistole. Sì, ci sono anche delle pistole utilizzate a destra e a manca come nei cartoni animati, nei quali le vittime della pistolettata risorgono pimpanti per essere di nuovo colpite.
Eschilo è ‘attuale’ sempre. Lo è perché sa che di fronte alla Necessità siamo tutti servi. Perché sa che il sangue/biologia non può essere cancellato da nessun pensiero/volontà ma, semmai, soltanto attenuato e indirizzato. Livermore sembra invece condividere il puro culturalismo contemporaneo, uno dei maggiori equivoci del presente. E dei più superficiali.
L’elemento più radicale, più greco e più bello di questa messa in scena è la sfera/video che accompagna l’intero spettacolo, che genera di continuo forme e colori di pece, di fuoco, di oceani, di magma, di Soli, di fango. E che diventa anche lo spettro di Agamennone, il velato, la voce, lo stridore dei morti. Se gli attori -è un’iperbole ovviamente- si fossero semplicemente limitati a leggere Eschilo sullo sfondo di tale sfera e vestiti come noi tutti, la tragedia sarebbe stata tragedia. Perché la potenza delle parole e dei pensieri di Eschilo vince anche sulle trovate di Livermore, sulla riduzione dei Greci a volgari gangster degli anni Venti del Novecento. Le parole di Eschilo.

«Ho ottenuto il successo:
legare spietate,
possenti creature divine ad Atene.
È loro campo fatale reggere
l’universo umano: chi non ebbe mai caso
d’incrociarle rabbiose, ignora
la fonte dei colpi che devastano la vita»

(Coefore, vv. 928-934, trad. di Monica Centanni)

Asce

Johann Sebastian Bach – Víkingur Ólafsson – Ryūichi Sakamoto
Concerto n° 3 in re minore BWV 974 II Adagio
Da Bach Reworks / Part 2 (2019)

Víkingur Ólafsson è assai più che un eccellente pianista. È un musicista che perviene al fondamento della musica barocca, al suo sostrato oscuro e potente. Come in questa reinvenzione elettronica dell’Adagio del concerto 974 di Bach, composta insieme a Ryūichi Sakamoto. Il brano di Bach è a sua volta una trascrizione da un concerto per oboe, archi e basso continuo di Alessandro Marcello.
La musica di Bach, Ólafsson e Sakamoto diventa il gorgogliare dell’inquietudine. Basti confrontare questa versione con il concerto “normale” eseguito dallo stesso Ólafsson.
A queste note ho pensato di poter affiancare i versi di Asce, tratti da Un barlume di fasto (Scrittura Immagine Edizioni, 2013, p. 51).

[L’immagine di apertura è di Stefano Piazzese e rappresenta la scogliera di zona Tonnara di Santa Panagia, a Siracusa]

Elena, il mito

Segnalo il link alla ripresa video (ahimè un poco statica, in compenso io mi muovo come un tarantato) della relazione su Elena / νάγκη che ho svolto a Siracusa il 19.9.2020 nell’ambito del Convegno su Mitomania 2020.
Spero che chi seguirà questa lezione (che dura i primi 48 minuti del video) possa trovarvi qualche indicazione su Enea, su Elena, sul mito, sull’assenza come struttura dalla quale il mito scaturisce. A quest’ultimo elemento ho accennato nel breve intervento/risposta successivo alle relazioni (a 2 ore e 15 minuti della registrazione)
La lezione si conclude con la lettura di alcuni miei versi dedicati a Didone. A Didone innamorata, a Didone abbandonata, a Didone nel vuoto dell’assenza e nella pienezza della morte.
(Come sempre quando si parla, non mancano qua e là delle imprecisioni e anche degli errori, di cui mi scuso).

Più sola, verso l’Ade

Sabato 19 settembre 2020 alle 10,00 a Siracusa terrò una lezione/conversazione nell’ambito dell’edizione 2020 di MitoMania, dedicata quest’anno a Enea e il mare.
Il titolo del mio intervento è Elena / Ἀνάγκη.

Enea è figlio di un mortale e però è figlio anche di una Dea, e quale Dea, Afrodite.
«Αἰνείαν δ᾽ ἄρ᾽ ἔτικτεν ἐυστέφανος Κυθέρεια
Ἀγχίσῃ ἥρωι μιγεῖς᾽ ἐρατῇ φιλότητι
Ἴδης ἐν κορυφῇσι πολυπτύχου ὑληέσσης»

«Citerea dalle belle corone generò Enea
unita all’eroe Anchise nell’amore desiderato
sulle cime di Ida dai molti anfratti selvoso»
(Esiodo, Teogonia, vv. 1008-1010; traduzione di G. Arrighetti, Rizzoli 2016, p. 127)

 

 

 

Un’estetica teologica

Il Kouros ritrovato
Museo Civico di Castello Ursino – Catania
A cura di Sebastiano Tusa
Sino al 3.11.2019

«ἡ δὲ τῶν ἀνδριάντων ποίησις καὶ ἡ τῶν ἀγαλμάτων ἐργασία θέαν ἡδεῖαν παρέσχετο τοῖς ὄμμασιν». Una traduzione di queste parole di Gorgia (Encomio di Elena, § 18) fa da epigrafe alla mostra: «Il fare statue di eroi e costruire simulacri degli dèi procura agli occhi una dolce malattia»; altri traducono «offre agli occhi un gradito spettacolo». Lo spettacolo della bellezza fu la magnifica malattia dei Greci. Una bellezza che aveva e ha ben poco di ‘estetico’. Si tratta di teologia invece, si tratta della bellezza del divino. Il marmo pario delle loro statue è la materia sacra, è l’omaggio della ποίησις umana allo splendore della potenza, della luce, del sorriso.
Il κοῦρος di Λεοντῖνοι, il ragazzo di Lentini, ha finalmente ricomposto il proprio corpo, ha unito il torso acefalo conservato al Museo di Siracusa con la ‘testa apollinea’ del Castello Ursino. Presentando il Kouros a Palermo nel novembre del 2018, il compianto Sebastiano Tusa affermò che «le evidenze scientifiche confermano l’appartenenza dei due reperti a un’unica scultura e il loro ricongiungimento costituisce a tutti gli effetti un vero e proprio nuovo ritrovamento archeologico che arricchisce il patrimonio culturale della Sicilia».
Per alcuni mesi il Kouros ha abitato a Catania, da dove tornerà a Siracusa. La Sicilia ha quindi riguadagnato un dio, anche con l’aiuto di tecnologie d’avanguardia che dal calco in gesso hanno condotto alla ricostruzione digitale attraverso analisi petrografiche e geochimiche, accurati studi anatomici, indagini diagnostiche su ogni centimetro dell’opera, la sua riconfigurazione estetica e l’assemblaggio finale.
Il risultato è un dio che ci guarda dalla distanza del suo orizzonte, dalla potenza del suo corpo, dal segreto della sua materia. Questo è il destino degli dèi. Quando civiltà barbariche come quella dell’ebraismo che proibisce le immagini, delle correnti cristiane iconoclaste, dell’islam distruttore di idoli, saranno arrivate alla loro fine, quando esse imploderanno sull’assurdità teoretica e sulla miseria estetica che le intessono, allora accadrà come al κοῦρος di Lentini: gli dèi riappariranno dalla terra e dal tempo. Tranquilli, ironici, saggi, filosofi, belli.

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