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Blumenberg

Hans Blumenberg
Tempo della vita e tempo del mondo

(Lebenszeit und Weltzeit, 1986)
Traduzione di Bruno Argenton
Edizione italiana a cura di Gianni Carchia
Il Mulino, 1996
Pagine 420

Il tessuto quotidiano degli umani appare del tutto misero e la loro possibilità di comprensione dell’intero sembra quasi impossibile. Con il trascorrere dei secoli e con la progressiva scoperta delle misure disumane del cosmo è cresciuta la consapevolezza che l’umano costituisce una struttura effimera all’interno della natura, la quale invece è e ha una sovrabbondanza di tempo quasi inconcepibile. La finitudine tematizzata da Heidegger è uno dei suoi temi più husserliani, è il paradosso del tempo come «la cosa più nostra e tuttavia quella di cui meno possiamo disporre» (p. 92), è la consapevolezza che -come ben dice Mephistopheles nel Faust– «Die Zeit ist kurz, die Kunst ist lang» (v. 1787), vale a dire: la vita è breve e l’opera è lunga, tanto da stabilire un patto per il quale soltanto nell’istante della sazietà dello Zeit esso si concluderà, oltrepassando «la sterminata insufficienza del singolo a comprendere il mondo» (120).
Dalla sproporzione tra Lebenszeit e Weltzeit, tra tempo della vita e tempo del mondo, nascono tutte le escatologie, si generano le filosofie platoniche, ma ha inizio anche la riflessione di Husserl, la quale vive dunque nella tensione tra temporalità e platonismo. La coscienza interna del tempo è il tema chiave della fenomenologia proprio perché essa descrive una temporalità genetica, che scaturisce dalla mente, a sua volta immersa e radicata nel mondo della vita: «Husserl ha eliminato questa separabilità di fatto tra coscienza e coscienza del tempo; ogni coscienza è, per sua essenza e quindi irrimediabilmente, coscienza immanente del tempo» (335).
Blumenberg prosegue in modo significativo affermando che «nessun passo, tra quelli compiuti dalla fenomenologia è più importante di questo. Heidegger –a gettarvi uno sguardo- ha compiuto per così dire il passo successivo ovvero il passo che va oltre il raggiungibile: invece di saldare, definitivamente e assolutamente, il tempo con la coscienza, egli lo ha saldato con l’essere stesso. In sostanza, anche ciò vuol dire soltanto che nessun ente, neppure un dio, può essere al di fuori dell’orizzonte d’essere della temporalità. Qui non c’è assolutamente alcuna trascendenza, perché questa è già la trascendenza» (336).
Il tempo umano è del tutto corporeo. La temporalità si genera dal pulsare del cuore, dalla velocità di circolazione dei liquidi che esso permette, dal tempo-istante dei neuroni. Tali strutture psicosomatiche creano la nostra peculiare percezione del divenire, della trasformazione degli enti, del variare dei ritmi circadiani di luce e di oscurità, ritmi i cui meccanismi molecolari sono stati individuati da Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael W. Young, che per questo hanno ricevuto il premio Nobel per la medicina nel 2017.
Già Karl Enst von Baer ipotizzava che «se il metro temporale innato nella nostra specie fosse diverso, diverso apparirebbe anche il nostro mondo» (309), differente sarebbe il ritmo del linguaggio (realtà che dal tempo è evidentemente inseparabile), diversi la memoria e l’attesa di ogni istante percepito e vissuto come anche di ciò che solo nel ricordo di altri può arrivare a noi –il momento della nostra nascita- e soltanto nell’aspettazione può configurarsi -il morire.
Il movimento del tempo-vita si interseca con quelli del tempo-mondo, il quale si amplia alla sfera cosmica universale mediante la scoperta della velocità finita della luce, mostrando così in modo tangibile e accecante una «vastità dello spazio» che è intessuta di tempo, trasformando le distanze spaziali in distanze temporali e facendo diventare «il tempo del mondo definitivamente incomprensibile al tempo della vita» (166). Da quando, (nel 1676) Olaf Römer individuò il valore finito con il quale la luce si muove, l’ampliarsi dell’orizzonte spaziale a misure precedentemente impensabili ha ricondotto l’umano alla misura della propria infinita finitudine: «La luce, metafora dominante della verità e della conoscenza, si trasformò nel loro impedimento» (207).
E pertanto se ha ragione Spinoza a ritenere che Tempus non est affectio rerum, tale sapienza del tempo del mondo va integrata con il tempo della vita poiché è fenomenologicamente evidente che Tempus est affectio hominum et etiam rerum. Il tempo è il processo di base dell’esistenza umana, il suo basso continuo, poiché prima, oltre e insieme al suo essere un fatto fisico, una descrizione dei movimenti dei corpi nello spazio, una forma innata con la quale percepiamo gli enti trasformandoli in eventi, una sensazione interiore e continuamente cangiante di durate che si succedono, il tempo è soprattutto e costitutivamente il modo in cui la coscienza rende possibile se stessa.

Orologi biologici

I RITMI DELLA VITA
Gli orologi biologici che controllano la vita quotidiana di ogni essere vivente
di Russel Foster – Leon Kreitzman
(Rhythms of Life, 2004)
Trad. di Isabella C. Blum
Prefazione di Lewis Wolpert
Bollati Boringhieri, 2011
Pagine 359

Forse due milioni, forse cento, probabilmente dieci. È il numero di specie viventi che abitano il pianeta Terra. Da circa tre miliardi di anni tutte queste entità animali e vegetali vivono seguendo un ben preciso orologio biologico, senza il quale non esisterebbero; transitano nell’essere sincronizzando i propri ritmi endogeni con quelli del cosmo, che per noi terrestri significa con i ritmi di rotazione della terra intorno al proprio asse e intorno alla stella che ci dà energia. «Il tempo è racchiuso nei nostri geni» afferma Lewis Wolpert nella Prefazione al libro (p. 7); «È proprio il nostro rapporto con il concetto di tempo a renderci umani» scrivono i due autori a chiusa del testo (299) e tuttavia la medicina contemporanea non riconosce ancora la fondamentale importanza della tempistica nella somministrazione delle terapie; l’importanza della cronobiologia nei test di tossicità dei farmaci (ratti e topi sono animali notturni rispetto all’uomo animale diurno e questo influisce enormemente sui risultati clinici 1); l’importanza della relazione profonda e costitutiva tra il corpomente e il cosmo, tra ciò che gli autori chiamano “giorno interno” e “giorno esterno”.  Gli orologi biologici sono infatti «regolati quotidianamente al levarsi e al calar del sole in modo da sincronizzare il tempo interno dell’organismo sul tempo astronomico» (11). Se la medicina occidentale trascura gravemente questa struttura temporale dei corpi, «la medicina cinese» -afferma l’oncologo Bill Hrushesky- «riconosce da più di 5000 anni che la dose non può essere isolata dal concetto di tempo» (cit. a p. 269).
I ritmi che intridono e costituiscono la natura sono molti -quotidiani, mensili, annuali- e hanno come base l’intervallo naturale delle 24 ore. Circadiano è dunque il ritmo che segue la scansione del giorno e della notte; nonostante gli artifici luminosi consentiti dall’elettricità il corpo umano è ancora totalmente sincronizzato su tale ciclo. Ultradiano è il ritmo inferiore a un giorno e dunque con frequenza più alta (come il battito cardiaco). Infradiano è l’inverso: un ritmo con una frequenza più bassa e quindi con un periodo più lungo (come il ciclo mestruale). Altri cicli importanti sono quelli interditali (maree), lunari, i ritmi non ripetibili del nascere e del morire. Per gli umani è talmente importante la scansione del tempo da indurli a inventare ritmi diversi da quelli naturali anche se sempre legati a essi. Intervalli come il secondo, il minuto, l’ora, la settimana non esistono in natura e costituiscono un tentativo di abitare e vivere meglio le partizioni cosmiche del giorno e dell’anno.
In ogni caso, nessuna comprensione della vita -della sua fisiologia, della patologia- è possibile fuori dalla struttura temporale che il corpo è. Le ricerche di Foster e Kreitzman sono ormai un classico della biologia proprio perché ricordano con chiarezza e determinazione questa semplice ma fondamentale verità. E lo ricordano ai biologi e ai medici, a coloro per i quali essa dovrebbe risultare evidente. Il luogo cerebrale nel quale i ritmi cronobiologici si generano è infatti il nucleo soprachiasmatico formato da poche cellule  -ventimila circa- collocate nella parte anteriore dell’ipotalamo: «Questo minuscolo gruppo di cellule, il cui volume ammonta a meno di un terzo di un millimetro cubico, è stato definito “orologio della mente”» (92). Al di là di questa localizzazione, il risultato più importante delle ricerche cronobiologiche -condotte in Italia con particolare cura da Vincenzo Di Spazio– è che la temporalità dei mammiferi (e quella umana in particolare) è diffusa in tutto il corpo, tanto che «oggi si parla più spesso di sistemi circadiani, poiché sta diventando chiaro che, sebbene in alcune specie probabilmente esista un orologio centrale, nella maggior parte di esse la scansione del tempo è distribuita in tutto l’organismo» (15-16). E questo significa che siamo fatti di tempo, alla lettera. Tempo genetico, tempo cosmico, tempocoscienza costituiscono un unico battito della materia consapevole di sé, dell’energia che scaturisce, si modula e si esaurisce. È tale battito profondo e inarrestabile che definiamo con i termini diversi di mondo, natura, umanità.
La biologia del tempo ha anche scoperto che tutto questo è una cosa sola con la luce. È la luce, infatti, a costituire il più potente e pervasivo Zeitgeber, il segnatempo al quale i corpi animali e vegetali affidano la regolarità delle proprie strutture vitali. La luce «mantiene il meccanismo sincronizzato con l’alba e il tramonto» (34) e permette dunque ai corpi di sincronizzarsi con l’intero volgere della Terra e del Sole. Con il segno τ è indicato il periodo naturale di un ritmo biologico free-running, il ritmo endogeno tenuto da un sistema circadiano in condizioni costanti.
Queste scoperte biologiche confermano con evidenza ciò che la metafisica ha pensato in modi diversi ma convergenti: la luce è la sostanza stessa del mondo; il movimento ripetuto, ritmico, eterno della materialuce è il tempo.

Nota

1. Robert Burns spiega che se «a mezzogiorno la sostanza chimica non ha dato luogo ad alcun tumore […] se la stessa dose fosse stata somministrata a mezzanotte, tuttavia, ossia in un momento di massima suscettibilità dell’evento biochimico studiato, il 40% degli animali avrebbe sviluppato un tumore al fegato e il composto sarebbe stato classificato come cancerogeno e non sicuro» (cit. a p. 268).

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