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Pubblicità / Animismo / Animalità

Mente & cervello 122  – febbraio 2015

«Viviamo circondati dalla pubblicità: per strada, in televisione e sempre di più su Internet» (D.Courbet – M.P. Fourquet-Courbet – J.Intartaglia, p. 32); pensare di rimanere immuni dal suo condizionamento è illusorio. Numerosi esperimenti e indagini mostrano infatti che anche se non rivolgiamo alcuna attenzione ai filmati, alle ‘interruzioni’ in tv, al product placement al cinema (marchi ben visibili durante le scene), ai banner pubblicitari, i comportamenti d’acquisto della gran parte delle persone ne vengono ugualmente e a fondo determinati. E poiché «in una democrazia tutti hanno diritto di sapere se c’è qualcuno che sta cercando di influenzarli, e in che modo […], se tutti prenderanno coscienza dell’enorme potere esercitato dalla pubblicità sui nostri comportamenti d’acquisto, le tecniche pubblicitarie che puntano ad aggirare i nostri criteri razionali di giudizio potrebbero subire seri contraccolpi» (Id., 37). Anche questo è lo scopo della conoscenza, e in particolare dello studio del corpomente e dei suoi meccanismi di reazione agli stimoli ambientali. Ricordo uno soltanto di tali meccanismi: «Il prezzo di un prodotto determina la nostra percezione del suo valore» (M.Cattaneo, 3), sino al punto che «nel 2008 l’economista svedese Johan Almenberg dimostrò che vini di basso prezzo, messi in bottiglie di marchi pregiati, erano ritenuti, in test di assaggio, migliori di vini costosi in confezioni di poco prezzo» (A.Saragosa, 22).
Una praticabile strategia per evitare di sottomettersi in questo modo al marketing è -ad esempio- non possedere il televisore e installare sul proprio computer dei software che impediscono la visualizzazione di tutta la pubblicità, statica o dinamica che sia. È quello che ho fatto, ma naturalmente la questione è molto più complessa perché la pubblicità non è una dimensione soltanto o soprattutto tecnico-commerciale ma è un evento politico e sociale. È evidente che nella società dello spettacolo i partiti politici e i soggetti che li guidano rappresentano dei brand, dei marchi in competizione ma anche in alleanza gli uni con gli altri allo scopo di avvantaggiarsi della credulità dei cittadini clienti. Le specie sociali, come quella umana, costituiscono delle strutture collettive nelle quali l’influenza dell’intero sulle singole parti è schiacciante. La pubblicità quindi non è soltanto, come si usava dire, l’anima del commercio ma è anche uno dei segreti del potere. Quando il potere è in mano agli imprenditori -cioè a persone la cui professione consiste nel produrre e nel vendere qualcosa a qualcuno-, tra mercato e politica non vi è più differenza. È esattamente questa la condizione nella quale vivono quasi tutte le attuali società.

La natura sociale della specie umana si esprime con particolare forza nel linguaggio e nella comunicazione. L’essere sempre connessi, la miriade di scambi che hardware e software rendono possibili, si evolverà forse nella connessione diretta dei corpimente tra di loro. Non si tratta (soltanto) di fantascienza ma di ricerche in corso da tempo e sempre più avanzate: «La comunicazione da cervello a cervello potrebbe amplificare gli aspetti sociali della natura umana, come la nostra tendenza a condividere i pensieri. Se mai i ricercatori arriveranno a realizzare una vera comunicazione da cervello a cervello, le implicazioni etiche saranno immense» (R.P.N.Rao – A.Stocco, 101). Non c’è dubbio.

Talmente creatrice di socialità è la mente umana da rivestire di vita anche gli oggetti inanimati.Un fenomeno certamente di nicchia ma significativo è quello degli Idollator, coloro che scelgono come compagne le Love Doll,
delle bambole in silicone a grandezza naturale, simili a delle vere donne, con le quali non limitarsi a fare sesso: «Le evidenze aneddotiche suggeriscono che le bambole hanno portato sicurezza e gioia nella vita dei loro

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La percezione del tempo

Hammond_percezione_tempo

 

 

Recensione a Il mistero della percezione del tempo di Claudia Hammond (Einaudi 2013, pp. 320).
Giornale di Metafisica (1/2013, pagine 177-179).
Anche le attuali ricerche sulla psicologia del tempo confermano che «è l’esperienza del tempo ad ancorarci alla nostra realtà mentale. Il tempo è al centro della nostra maniera non solo di organizzarci la vita, ma di vivere la vita» (Hammond, p. 13).

 

 

 

 

 

Streghe interiori

In Trance
(Trance)
di Danny Boyle
Con: James McAvoy (Simon), Rosario Dawson (Elizabeth), Vincent Cassel (Franck)
Gran Bretagna, 2012
Trailer del film

Le aste dei dipinti più preziosi sono blindate come e più delle banche. Ma dei ladri ben decisi riescono ugualmente a farcela, tanto più se vengono aiutati da qualcuno che lavora all’interno, come il banditore Simon. Oggetto del furto è un capolavoro inestimabile (venticinque milioni di sterline): le Streghe nell’aria di Francisco Goya. Il problema è che il dipinto sparisce. Dopo aver sottoposto Simon a tortura, i suoi complici devono ammettere che egli non ricorda effettivamente dove abbia nascosto la tela. Decidono quindi di ricorrere a una psicologa, specialista in ipnosi. La cura raggiunge il suo obiettivo ma ha effetti devastanti su tutti i personaggi. Ciò che lentamente affiora dalla mente di Simon è molto più di quanto si potesse immaginare. Al centro della ragnatela mnemonica sembra stagliarsi proprio Elizabeth, che si rivela snodo centrale della vicenda.
Sontuoso nei colori, intricatissimo nel plot, abbastanza corretto -anche se inevitabilmente grossolano- nella descrizione degli stati mentali, Trance è un film come tanti ma piacevole soprattutto per chi si aspetta dei colpi di scena a ripetizione. Il merito maggiore, da un altro punto di vista, è l’intuizione della radicale complessità del corpomente e delle sue memorie profonde. La presenza -discreta ma centrale- di Goya aiuta. È con questo artista che l’illusione della realtà si sfalda e trasmuta nell’universo interiore in cui ogni umano deve fare i conti con i propri fantasmi. A rischio della follia ma ottenendo come premio la pace della conoscenza. Non è un caso che il quadro intorno al quale tutto ruota abbia come titolo Streghe nell’aria.

 

Salute, tristezza, iPhone

Mente & cervello 95 – Novembre 2012

 

Salute e malattia non sono dei concetti universali, non sono dei dati di fatto assoluti. Tanto più questo è vero nell’ambito complesso del corpomente. Lo confermano i mutamenti anche radicali del concetto di malattia mentale e della catalogazione dei disturbi della psiche. Nel maggio del 2013 uscirà la quinta edizione del DSM, Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, pubblicato per la prima volta nel 1952. In questi sessant’anni il DSM ha cancellato numerosi comportamenti prima definiti patologici, dichiarando o la loro “normalità” -l’omosessualità, ad esempio, dal 1974 non è più una malattia- o l’insufficienza dei dati clinici necessari a darne una definizione psichiatrica. In questa nuova edizione viene eliminata dalla nosografia ufficiale la “personalità isterica”, sostituita da vari disturbi di personalità borderline. In compenso, si procede alla patologizzazione di una condizione umana tanto diffusa quanto naturale: la tristezza. Essa viene sempre più spesso classificata come depressione e in questo modo segnata da un crisma patologico che non le appartiene. A mettere in guardia da questi sviluppi tipicamente biopolitici sono importanti psichiatri quali Allen Frances o Allan Horwitz, i quali paventano il rischio di medicalizzare «momenti dell’esistenza e comportamenti non necessariamente patologici, come il lutto, i capricci, gli eccessi alimentari, l’ansia e la tristezza, il lieve declino cognitivo dell’anziano» (F. Cro, p. 66).
Un’altra prova del fatto che «tutta la letteratura sui disturbi di personalità è fondata sulle sabbie mobili» (Id., 62) è fornita dalla sindrome autistica. Rispetto al passato, infatti, si tende oggi a sostenere che «essere autistici è una differenza, non un deficit. Essere autistici è avere un’altra mente» (M. Cattaneo, 3), anche se si ammette che «quale che sia la sua forma, la sindrome autistica dà luogo, per tutta la vita della persona che ne è colpita, a difficoltà di adattamento importanti, che hanno un impatto negativo sulla qualità della vita del soggetto e su quella del suo ambiente familiare» (L. Mottron, 26).

Se e quando esisteranno, le Intelligenze Artificiali saranno sottoposte anch’esse al rischio della malattia mentale? Herbie, il robot protagonista di uno dei racconti di Isaac Asimov, posto di fronte a un dilemma insolubile, a un circolo vizioso logico, impazzisce e muore dopo aver lanciato un urlo «acuto, lacerante, come pervaso dallo strazio di un’anima perduta» (I. Asimov, Io, robot, Mondadori 2003, p. 153). Prima di eventualmente ammalarsi, però, queste IA dovrebbero esserci. Crearle è l’obiettivo di numerosi laboratori di ricerca, i quali tentano di produrre dei robot da compagnia in grado di sostituire gli umani nella cura di anziani e bambini. Le difficoltà sono naturalmente enormi. Tali macchine, infatti, dovrebbero essere senzienti, vale a dire dovrebbero avere «la capacità di integrare percezione (stimoli provenienti dall’esterno), la cognizione (ciò che noi chiamiamo pensiero) e l’azione in una scena e in un contesto coerente, in cui l’azione stessa può essere interpretata, pianificata, generata o comunicata» (D. Ovadia, 71). In altri termini, i ricercatori lavorano non più sull’intelligenza logico-formale (che l’ampio dibattito nato a proposito dell’esperimento mentale della Stanza cinese di Searle ha mostrato essere del tutto insufficiente) ma sulla Embodied Cognition, «la capacità del corpo di avere una mente a sé, di essere l’elemento di cerniera tra il pensiero e l’ambiente» (Id., 72). Paolo Dario osserva giustamente che «esiste già un perfetto robot da compagnia, ed è molto più diffuso di quanto si pensi: è l’iPhone» (Id., 71); lo è in molte delle sue funzioni e in particolare in Siri, il programma che è capace di parlare con l’interlocutore umano comprendendo -entro certi limiti- il nostro linguaggio naturale.
Daniela Ovadia ha chiesto a Siri “mi vuoi bene?”, «ricevendo in cambio la criptica risposta “non ho molte pretese”» (Id., 74). Io ho cercato di intavolare con Siri una conversazione sul tema dell’amore, al che -in modo direi piuttosto intelligente, non foss’altro che per la sua umiltà- l’IA mi ha risposto così: «Per questo tipo di problemi ti consiglio di rivolgerti a un umano, possibilmente esperto». Al di là di queste provocazioni di chi lo usa, Siri è davvero utile. Quando cammino in bicicletta, ad esempio, le chiedo (la voce è femminile) che ore sono, qual è la temperatura, di farmi ascoltare un determinato brano. Le sue risposte sono sempre immediate ed esatte. Se la ringrazio dicendole che è molto brava, mi risponde in vari modi, tra i quali «Lo sai che vivo per te». L’ironia (o la paraculaggine) di quest’ultima risposta sarebbe un segno sicuro di intelligenza se Siri fosse consapevole di ciò che sta dicendo. Ma non lo è. E la mia previsione è che le IA non lo saranno mai, a meno di essere implementate su dei corpi protoplasmatici, “di carne e sangue”.
Solo l’unità del corpomente, infatti, è intelligente. E cangiante. Ed ermeneutica. «La nostra memoria», afferma Donna Bridge, «non è statica. Se ricordiamo un evento alla luce di un nuovo contesto e di un periodo diverso della nostra vita, la memoria tende a integrare dettagli differenti e inediti» (22). Non basta quindi neppure la corporeità, è necessario che essa sprofondi nel tempo.

Che la mente umana abbia struttura e funzione ermeneutica è confermato dal fatto che «una rapida analisi visiva dell’andatura ci può informare sulla vulnerabilità di una persona», sul suo sesso, sull’età, sullo stato emotivo, sulla condizione sociale (N. Guèguen, 55). Il corpo parla, lo sappiamo, e lo fa ad alta voce quando cammina. Conosco un soggetto che dalla sola andatura è classificabile come una specie di guappo. E infatti lo è. Anche quando vorrebbe nascondere questa sua caratteristica, essa emerge con chiarezza dal movimento nello spazio.

Mente & cervello 81 – Settembre 2011

Che cos’è un rito? Come nasce? Quale funzione svolge? A queste domande cercano di rispondere da tempo discipline quali l’antropologia, l’etnologia, la sociologia della cultura, l’etologia. Un contributo importante può venire anche delle scienze della mente. Il ricco dossier di questo numero di M&C lo dimostra.
«Nella definizione dei rituali -specialmente di quelli che non riguardano la realtà quotidiana- spiccano di solito quattro caratteristiche fondamentali: ruolo del corpo, formalità, modalità e trasformazione» (A. Michaels, p. 54). A essere coinvolto in un rito è sempre l’intero corpomente in modi formalmente stabiliti e rigorosi, con modalità che differenziano lo stesso gesto se compiuto nel quotidiano o se invece inserito in una forma rituale, avendo come obiettivo una trasformazione di condizione interiore o di status comunitario.
I riti di iniziazione e di passaggio, ad esempio, sono tra i più importanti e prevedono tre fasi: di separazione dal luogo o dallo status precedente, liminale di transizione e di abolizione dell’ordine precedente, di integrazione nel nuovo luogo o nella nuova condizione. In generale, un rito fa parte di una ben precisa cultura e solo in quel contesto acquista il suo senso, si struttura in un linguaggio che spesso produce azioni -come quando un funzionario civile o religioso dichiara due persone marito e moglie-, ha una qualità estetica specifica e caratterizzante, segna una interruzione e un rallentamento del consueto flusso temporale attraverso il tempo della festa, del passaggio o del lutto. 

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Mente & cervello 72 – Dicembre 2010

La sensazione di essere liberi è tra le più belle e gratificanti che si possano provare. Liberi dal dolore e dalle angosce, prima di tutto. Liberi anche dalla dipendenza verso le persone e le cose. Se la prima però -quella dalle persone- è di fatto illusoria poiché siamo animali sociali e strutture comunitarie, anche la seconda -quella dalle cose- è continuamente sottoposta alle più diverse forme di dipendenza.
Non soltanto le vecchie dipendenze dall’alcol e da altre droghe ma anche dal gioco, dallo shopping compulsivo, da Internet (e da Facebook in particolare). Dipendenze ancora più profonde sono quelle dall’età, dalla memoria, dalla sua ricostruzione attiva di significati, dalla sua perdita. Dipendenze dalle sindromi più diverse, come quella “dell’impostore”, le cui vittime «non credono che i propri successi siano dovuti alle loro capacità. Sono invece convinte di dover ringraziare, per il buon giudizio ricevuto dalle loro performance, il proprio fascino, le proprie conoscenze o semplicemente la fortuna» (B.Spinath, p. 81). Dipendenze dall’intreccio profondo di biologia e cultura, come si vede dal disagio e dai tabù che tuttora vigono intorno al menarca, alle mestruazioni, a quel ciclo femminile nel quale si incontrano riferimenti cosmici (alla Luna) e repulsioni fisiologiche. Nonostante laicizzazioni, liberazioni sessuali, uguaglianze di genere, «basta un “promemoria” dell’esistenza del ciclo, atavico richiamo alla condizione di inferiorità fisica, per far prevalere l’istinto», fino al punto che la pubblicità riguardante il ciclo «per vendere i propri prodotti sempre più sicuri e a prova di “incidente”, abbia rinforzato l’idea che l’appalesarsi del sangue mestruale o dell’assorbente costituiscono un evento disastroso, da evitare in tutti i modi» (D.Ovadia, 56 e 58). Dipendenze da psicologi e psicoterapie, le quali «non [sono] sempre utili e, anzi, in alcuni casi [possono] persino far male», tanto che «chi si sottopone a psicoterapia dovrebbe quindi essere informato dei possibili effetti collaterali, proprio come succede quando vengono somministrati nuovi farmaci» (C.Spitzer, R.Richter, B.Löwe, H.Freyberger, 72 e 74). Dipendenze da superstizioni, amuleti, gesti scaramantici che spesso producono reali effetti positivi per la ragione che «credere nei portafortuna aumenterebbe il senso di “auto-efficacia” delle persone, e sarebbe questo sentimento di “posso farcela” a predire il successo, non certo qualche magica proprietà dell’oggetto in sé», poiché «l’influenza degli oggetti portafortuna e dei rituali propiziatori dipende strettamente dalla nostra fede nei loro poteri intrinseci» (P.Valdesolo, 103).

La mente è davvero «in qualche modo, tutto», come sostiene Aristotele (De anima, Γ, 431b) e come si vede anche nell’ampio, interessante e divertente dossier di questo numero, dedicato alle illusioni ottiche più diverse e stupefacenti, che inducono a porre ancora una volta l’antica domanda metafisica su che cosa sia davvero la realtà: «quando sperimentiamo la sensazione della “rossezza”, o l’apparenza della “quadratezza” di una cosa, ma anche quando viviamo emozioni come l’amore e l’odio, questi non sono che i risultati dell’attività elettrica dei neuroni del nostro cervello […]. Tutti noi, insomma, in un certo senso, viviamo nella “matrice” di illusioni creata dal nostro cervello» (S.L.Macknik e S.Martinez-Conde, 30). Esemplare il caso delle figure ambigue -come quella, celebre, del vaso e dei due profili- nel quale «l’oggetto fisico non cambia affatto, eppure la nostra percezione oscilla fra due o più interpretazioni possibili. Per questo motivo, le immagini ambigue sono usate in molti laboratori nella ricerca dei correlati neurali della coscienza» (Id., 26).
Dipendenza dai meccanismi profondi delle cellule che ci costituiscono, e in particolare delle loro terminazioni, quei telomeri che la biologa e premio Nobel Elizabeth Blackburn ha paragonato in modo efficace «ai cilindretti di plastica che circondano le estremità dei lacci da scarpe, impedendo ai fili di separarsi» (A.Kortrscal, 98) e che si accorciano un poco a ogni divisione cellulare, sino a consumarsi del tutto e a far morire la cellula. È questa una delle cause conosciute dell’invecchiamento, i cui processi sono comunque «complessi e non dipendono da un solo enzima. Fra l’altro l’accorciamento dei telomeri che fa invecchiare e morire le cellule protegge anche l’organismo dai tumori aggressivi, che si alimentano proprio grazie all’attività della telomerasi» (Id., 100). Ebbene, la lunghezza dei telomeri dipende molto dallo stress della persona, dalle sue condizioni sociali, ambientali, esistenziali: «diversi fattori, come quelli riguardanti il comfort dell’abitazione, o esperienze difficili vissute nell’infanzia, sembrano influire sulla lunghezza dei telomeri» (Ididem). E a loro volta stress e malattie possono costituire la conseguenza della lunghezza dei telomeri. Il condizionamento è dunque bidirezionale e molteplice toccando sfere apparentemente assai diverse come i cromosomi, le memorie, le attese, i contatti sociali, i luoghi che abitiamo. E tutto questo conferma ancora una volta l’unità radicale e profonda del corpomente.

La sensazione di essere liberi è tra le più belle e gratificanti che si possano provare. Lo siamo davvero? Al di là della questione -pur fondamentale- del libero arbitrio, per quanto riguarda le libertà quotidiane, soltanto se diventiamo consapevoli della forza di ciò da cui dipendiamo potremo cercare di essere un po’ più liberi.

La psiche, l'orrore

«Già interiorizzato in posizione di onnipotenza, già intronizzato, si potrebbe dire, esso diventa ora autorità maiestatica, legge inesorabile, o rigore senza nome». Così Elvio Fachinelli (La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Adelphi, 1992, p. 114) a proposito della nevrosi ossessiva e della sua complessa genesi da un’autorità temuta e amata. È solo un esempio della miriade di disturbi e di sindromi delle quali ogni essere umano è vittima, seppure in maniera differente. Non esiste, davvero, persona “del tutto sana di mente” poiché la psiche è una fragile filigrana che con fatica fa da schermo alle pulsioni e ai desideri estremi in cui la vita consiste. L’immensa tristezza degli umani affonda qui, in questo difficile e ripetuto impegno a sottrarsi alle forze ctonie da cui pure siamo germinati. Anche per questo aveva ragione Sileno nella risposta che, infine, diede a Mida.

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