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Essere pagani

Il paganesimo «renaït éternellement à lui-même»1.
Lo fa dove meno lo si attende e nelle forme più diverse poiché «à chacune de leurs renaissances, les dieux se métamorphosent» (Dominique Pradelle, 80). Anche per questo una formula più corretta è ‘paganesimi’, al plurale. Questa ancestrale e antica modalità di intendere la vita e il mondo è infatti per sua essenza plurale, aperta, cangiante, rispettosa della varietà delle forme. Ciò che accomuna i paganesimi è un radicale immanentismo per il quale il dio, i divini, non abitano altrove, non sono il totalmente altro ma costituiscono la manifestazione, il senso, il timore e la gioia d’esserci. Ciò che li accomuna è, in una parola, il sacro: «Dans la philosophie païenne, c’est le divine qui est englobé par le sacré, ce sont les dieux qui procèdent du monde (de l’ ‘être’) et non l’inverse» (Guillaume Faye, 52). È un sentimento del sacro che rifiuta i dualismi, a partire dal dualismo che fonda, esprime e dà identità al giudeo-cristianesimo, «la distinction de l’être créé (le monde) et de l’être incréé (Dieu)» (Alain de Benoist, 13).
In quanto ‘creato’, il mondo è non soltanto diverso dal ‘creatore’ ma gli è naturalmente del tutto inferiore: l’Origine è necessaria, immutabile, eterna; l’originato è contingente, mutevole, finito. L’angoscia che un simile dualismo produce negli umani, che sanno di essere parte del creato e quindi mortali, induce a collocare l’unico luogo e strumento di possibile contatto con l’Originario non nella potenza della materia ma nello spazio dell’interiorità, nella psiche.
In questo modo una delle tante manifestazioni del mondo, il corpomente umano trasformato in anima e quindi ulteriormente impoverito, assume una rilevanza e una centralità del tutto fantasiose, origine ovviamente di ogni pretesa e violenza antropocentrica sul mondo, origine dunque della distruzione. L’obiettivo di tale antropocentrismo psicologico ed esistenziale è la salvezza individuale. Idea, questa, del tutto assente nei paganesimi.
Aver trasformato l’altrove del divino e il qui dell’anima nel luogo della salvezza ha privato di senso, dignità e sacralità il mondo. Nelle sue origini indoeuropee, la parola «dio» si riferisce al cielo, alla grandiosa potenza che gli umani sentivano sovrastare e tessere le loro notti immense e splendenti. Dunque divino è il cielo, è la notte, sono gli astri, è la materia. La vittoria dei monoteismi biblici ha dissolto e infine cancellato questo profondo significato del divino, sostituendolo con delle versioni più o meno esagerate della psiche umana. Dio è diventato una sorta di superuomo (‘il Padre Eterno’) che c’è da sempre, che non muore mai, che sa fare tutto ma che condivide ira, desiderio, gelosie e tutte le altre caratteristiche che il libro ebraico-cristiano attribuisce a Jahvé. Si comprende che i veri atei sono i cristiani, che hanno tolto ogni sacralità al mondo.

Un altro elemento che rende incommensurabili politeismi e monoteismi è il fatto che nei paganesimi la moralità non ha come condizione una qualche regola dettata dal dio – il Decalogo o altro – ma nasce dal rispetto verso la natura che è parte fondamentale dei paganesimi. Una morale prescrittiva, leguleia, minacciosa, passiva ed eteronoma come quella praticata da ebrei, cristiani e islamici, è del tutto assente nell’orizzonte politeistico. I comportamenti dei pagani rispettano o non rispettano le cose in relazione al proprio carattere ed esperienza e non in nome di ordini provenienti dal ‘totalmente altro’.
Uno degli effetti più tragici è che mentre il realismo etico antico sa che l’effetto della benevolenza e della dedizione si stempera e dissolve con la distanza e l’estraneità – mettendo dunque al centro delle relazioni l’amicizia -, il velleitarismo morale cristiano impone invece l’amore universale, il cui effetto è disastroso poiché l’impossibilità di un simile ‘amore’ verso tutti – per tacere di quello verso i ‘nemici’ –  induce a giustificarsi continuamente con se stessi e a inventare tutta una casistica comportamentale che di fatto dissolve ogni sincerità e ogni possibilità di relazioni corrette tra le persone.

Essere pagani nel XXI secolo non ha nulla a che vedere con miti regressivi, con culti New Age di vario tipo, con esoterismi e occultismi privi di senso e francamente bizzarri, con l’adesione a ‘chiese pagane’ che con le loro gerarchie e testi sacri rappresentano la brutta copia di quelle cristiane, pretendendo adesioni dottrinararie del tutto aliene dai paganesimi. Essere pagani oggi significa, come sempre, percorrere «une voie sévère, à la fois poétique et spartiate, une colonne vertebrale et un souffle – le pneuma des anciens Grecs» (Christopher Gérard, 103).
Per comprendere e vivere tutto questo è assai feconda la distinzione formulata da Michel Onfray, filosofo materialista e anarchico, tra paganesimi e politeismi. I primi costituiscono delle religioni dell’immanenza «en vertu de laquelle l’homme n’est pas séparé de la nature ou du cosmos, mais partie prenante au même titre qu’un ruisseau ou qu’une forêt»; il politeismo poi «associe ces forces à des divinités. Le paganisme est une sagesse philosophique ; le polythéism, le début de la sagesse religieuse» (66).
Essere pagani significa cercare di vivere con misura e con gioia, consapevoli dei limiti dell’esistere e pronti però a coglierne le tante possibilità.


Nota
1. Pascal Eysseric, in Sagesses païennes «Éléments pour la civilisation européenne», numero hors-série, n. 1 – Juin 2022, p. 3. Indicherò tra parentesi nel testo i successivi riferimenti agli autori e ai numeri di pagina della rivista.

Sul suicidio

Interrogarsi sulla morte e sull’esperienza della finitudine
il manifesto
7 giugno 2022
pagina 11

La condanna penale del suicidio -con gravi punizioni per il cadavere e per i beni lasciati dal defunto- è stata la regola nei Paesi cristiani sino a tempi recenti; in molti Paesi islamici il suicidio è tuttora un reato penale. Le civiltà pagane hanno tenuto di solito un atteggiamento ben diverso ed efficacemente sintetizzato da Hume quando ricorda che «la facoltà di suicidarsi è considerata da Plinio un vantaggio che gli uomini possiedono addirittura rispetto agli dèi.  Deus non sibi potest mortem consciscere, si velit, quod homini dedit optimum in tantis vitae  poenis, Lib. II, Cap. 7».
È che le culture e filosofie politeiste sono molto più consapevoli della centralità della materia e della potenza della natura. Cosa che crea uno stretto «legame fra materialismo scientifico, libero pensiero antireligioso e diritto al suicidio» (Simon Critchley, Note sul suicidio,  p. 47), come si vede nelle filosofie libertine (ispirate da Spinoza) o in Hume, il cui saggio Del suicidio, ha un fondamento antropodecentrico. Il filosofo scrive infatti che «la vita di un uomo non ha maggiore importanza per l’universo che quella di un’ostrica» (§ 9) per delineare alla fine una prospettiva radicata in ciò che successivamente sarà chiamato termodinamica: «Quando sarò morto, i principi di cui sono composto continueranno a svolgere il loro ruolo nell’universo e saranno ugualmente utili nel suo grandioso tessuto come quando formavano questa singola creatura. La differenza, per il tutto, non sarà più grande di quella tra quando sono in una stanza e quando sono all’aria aperta. Un cambiamento per me è più importante dell’altro; ma non lo è per l’universo» (§ 20).

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